4. La grammatica della riflessività
4.2. La ‘svolta interpretativa’
Senza entrare nel merito della questione, la quale richiederebbe un’analisi più approfondita, mi pare interessante soffermarmi su come la crisi dello Stato- nazione, per quanto concerne l’ambito politico, e la formulazione del principio di indeterminazione (insieme ai contributi offerti dalla fisica quantistica), in riferimento al mondo della produzione scientifica, abbiano di fatto aperto la strada al paradigma dell’incertezza.
Se, infatti, risulta impossibile “una descrizione continua degli eventi”, allora ciò “comporta l’impossibilità di predire il risultato di un’osservazione con sicurezza” (Rizza 2003: 91).
Nato in seno alla fisica contemporanea, il ‘principio di indeterminazione’ non rimane appannaggio esclusivo di quest’ultima, galvanizzando tutto il mondo scientifico, scienze sociali comprese.
In un gioco dalle conseguenze non previste, la riflessività introduce incertezza, dissolvendo in tal modo l’innocenza panoptica della prima modernità. L’ipotesi di una realtà comprensibile e misurabile diventa via via quanto mai poco credibile. Le scienze sociali, che partecipano interamente al gioco della modernità, assumono anch’esse il paradigma dell’incertezza, inaugurando un’inedita narrativa.27
Un altro fattore segna la ‘svolta interpretativa’: a partire dagli anni ’70, la crisi delle istituzioni tradizionali della modernità, in primis lo Stato-nazione, obbliga ad un ripensamento dell’oggetto del proprio studio. Risulta impensabile, infatti, modulare la riflessione su una società, per decenni assimilata implicitamente allo Stato-nazione, soggiogata da dinamiche opposte: vinta da un lato dalle seduzioni localistiche e, al contempo, riorganizzatesi su scala globale – secondo le logiche del ‘sistema-mondo’ (Wallerstein 2000); resa meticcia dalle migrazioni transnazionali (che minacciano il principio narrativo di nazione ‘una’ e culturalmente omogenea) ed ossessionata dall’assedio transfrontaliero che, destrutturando costumi e pratiche locali, inaugura derive anomiche (Durkheim 2003, 2005).
Rimanendo nello specifico degli argomenti qui proposti, il multiculturalismo, da un lato, e l’emergere del ruolo pubblico delle donne, dall’altro, obbligano a fare i conti con un sociale che, ricomponendosi come eterogeneo, scardina tutti i tentativi di ‘normalizzazione’ e di ‘previsione’. Inoltre, la dimensione del multiculturalismo erode profondamente la premessa che ha accompagnato gran parte della storia delle scienze sociali nella modernità, cioè l’idea di società coincidente con quella di Stato-nazione.
Le sempre più numerose famiglie transnazionali e la presenza di soggetti migranti tematizzano la questione relativa all’oggetto della sociologia offrendo come
27 Scrive a tal proposito Giddens: “Nelle scienze sociali, al carattere instabile di tutto il sapere
empiricamente fondato, dobbiamo aggiungere il ‘sovvertimento’ che deriva dal fatto che il discorso scientifico sociale rientra nei contesti che analizza. La riflessione di cui le scienze sociali sono la versione formalizzata (un genere particolare di sapere esperto) è fondamentale per la riflessività della modernità nel suo complesso. […] Tutte le scienze sociali partecipano di questo rapporto riflessivo, anche se la sociologia occupa in questo senso un posto privilegiato.” (1994: 48)
scenario la dimensione globale. Secondo alcune letture, infatti, il fuoco analitico si sta spostando sulla ‘società globale’, cuore ed oggetto d’analisi della modernità radicale.
Letture diverse propendono per soluzioni alternative a questa appena messa in evidenza giungendo a formulare una crisi delle epistemologie generata dalla ‘liquefazione della società’ (Bauman 2002). In tal senso va intesa anche la prospettiva di Lyotard, il quale prefigura l’avvento di un tempo e di una società post-moderni.
A partire dagli anni ’70, in ambito sociologico, comincia a divenire rilevante un cambio di paradigma (Kuhn 1999). L’aspetto importante da mettere a fuoco è dato dal fatto che non solo muta il modo di guardare la realtà, assumendo come
gestalticamente rilevanti questioni o aspetti fino a quel momento del tutto
trascurati, ma, trasformandosi radicalmente l’oggetto della ricerca, cambia il modo in cui l’osservatore si pone dinanzi ad un reale continuamente sotto scacco dall’ipotesi della “disaggregazione spazio-temporale” (Giddens 1994) e della frammentazione.
In realtà l’aspetto che connota il passaggio in questione è dato da quello che Donati definisce “l’evidente evaporazione degli slanci ideali del moderno” (2005: 220) e che egli individua nell’“etica del Progresso”, nell’“idea che si vada sempre verso un mondo migliore o comunque best fitted”, nella “fede nella scienza e nella tecnologia come soluzioni ai problemi umani” (ivi).
Mi chiedo se la frattura epistemologica del tardo ‘900 non abbia comportato un ripiegamento della ricerca sociologica sull’individuo, sulla situazione, mettendo fuori dal quadro tutto ciò che poteva disturbare la comprensione delle dinamiche del frame attivato di volta in volta.
D’altro canto, anche la deriva sistemica ha messo fuori gioco le dinamiche sociali situazionali a vantaggio dell’analisi delle interdipendenze globali. Sono emerse, dunque, due narrative, le quali hanno agito in modo parallelo, rinunciando di fatto entrambe alla possibilità di dar conto del reale nella sua completezza.
Una realtà dinamica, complessa, multidimensionale; una sociologia attratta, in maniera bifocale, dal macro e dal micro, arresa all’evidenza dell’irriducibilità dell’incertezza, e al contempo vocata alla produzione di un sapere che accomulandosi accresce la complessità del suo oggetto: sono questi gli elementi
che radicalizzano il carattere riflessivo della modernità, che va esplicitandosi sempre più come l’epoca del rischio (Beck 1999, 2002 b) e dell’incertezza.
Le scienze sociali, dunque, nel loro complesso non solo sono chiamate a registrare il mutamento costante che interessa la struttura sociale, ma, in una dinamica circolare, influenzano in parte il processo di trasformazione. In tal senso, i contributi sul rapporto che lega riflessività e costruttivismo sono estremamente interessanti.
Sollecitate a confrontarsi con un problema molto complesso, esse, tuttavia, non sono chiamate a dubitare l’esistenza di “un mondo sociale stabile da conoscere”, ma si chiedono in che misura “la conoscenza di questo mondo contribuisce al suo carattere instabile o mutevole” (Giddens 1994: 52). Come procedere, dunque, nella pratica scientifica? E, poi, ancora, è possibile o risulta una mera utopia poter governare il cambiamento?
Nelle scienze sociali, a partire dagli anni ’70, entra in gioco un nuovo tipo di riflessività che trova rispondenza nell’orizzonte fenomenologico-ermeneutico. Quest’ultimo, dunque, va dispiegandosi come prospettiva teorica e metateorica di riferimento, inaugurando così una nuova era nel percorso del progetto culturale della modernità.
Nella sociologia, le scuole di pensiero che si riconoscono in tale tradizione, pur nella diversità degli approcci, condividono la premessa dell’epoché, che nella pratica della ricerca si traduce nel tentativo di procedere ‘a piedi scalzi’, spogli del bagaglio di esperienze e significati, che rende lo sguardo ‘carico di teoria’ (Geertz 1998).
Va sviluppandosi, pertanto, una seconda narrativa, che a partire dagli anni ’70 accompagna ed incoraggia il dissolvimento delle istituzioni della prima modernità.
Le scienze sociali, e la sociologia nello specifico, sono, dunque, assolte dall’ipotesi del controllo? E se l’oggetto di studio si dissolve sotto i colpi della frammentazione e della perdita del legame sociale in che modo procedere (Donati 2002)? Quale è la missione della sociologia? Essa ha forse esaurito il suo compito?
Le modalità di produzione del sapere in qualche modo sono un’immagine del modo in cui il sociale si auto-rappresenta. L’idea circa una, reale o presunta, molecolarizzazione del corpo sociale e la fragilità delle strutture di coesione
sociale impongono di ipotizzare delle forme di accesso al reale che tengano conto della morfologia dello stesso.
L’ipertrofia dell’individuo, tratto tra i più salienti della tardo-modernità, espone osservatore e soggetto ad un’interlocuzione prima del tutto impensabile: entrambi chiamati in gioco, per ragioni diverse, nel processo riflessivo quali custodi di uno sguardo sul mondo del tutto inedito, necessariamente raccontabile per ‘ridurre la complessità’ (Luhmann 2001), per rendere più semplice a tutti il viaggio nel quotidiano.
La narrativa della tardo-modernità, dunque, si esprime non solo nel modo in cui quest’ultima viene formulata, ma anche attraverso le forme di produzione di tali formulazioni, che segnano, rispetto alle tradizioni scientifiche del passato, una rinegoziazione dei ruoli tra osservatore e realtà osservata.
L’ipotesi di una realtà dinamica, capace di interlocuzione si inserise nella logica della riflessività: per una dinamica ‘riflessiva’, per l’appunto circolare, sapere e azione sociale retroagiscono in un processo continuo.
Sul piano delle ipotesi, pertanto, va accordato alla criticità del momento storico il merito di aver liberato letture alternative del reale, riproposto come espressione di molteplicità inedita (finalmente letto attraverso le categorie del genere, della generazione, dell’etnia, della religione, ecc…).
La crisi, dunque, libera un kairós portatore di sguardi nuovi sul mondo. Alle metodologie di tradizione fenomenologica ed ermeneutica va il merito di aver saputo intercettare tale cambiamento, risultando il canale privilegiato per l’accesso al mondo. Senza tale strumento scientifico, il pluralismo sarebbe rimasto ‘inascoltato’? Sarebbe, forse, stato sottoposto ad un processo di delegittimazione? I tempi erano maturi perché il momento dell’‘enunciazione’ e quello dell’‘ascolto’ risultassero reciprocamente adeguati.