3 Dinamiche migratorie
Grafico 2.8 – Distribuzione territoriale delle seconde generazion
3. Nel segno della decostruzione della narrativa dominante
Al di là delle profonde trasformazioni strutturali che hanno modificato il volto delle società moderne, radicalizzando – secondo la lettura di Giddens (1994) – le istanze stesse contenute nella prima modernità, mi pare importante sottolineare il portato del cambiamento culturale.
La decostruzione della narrazione dello Stato moderno ha influenzato profondamente le identità sociali, rinegoziando i significati legati alla dimensione dell’appartenenza, dell’acquisizione e dell’espressione della cittadinanza.
Bhabha, nei suoi lavori, si sofferma sugli aspetti impliciti nella dinamica narrativa della nazione. In particolare, riprendendo le riflessioni di Fanon e Kristeva (Bhabha 2001: 195-235), egli analizza i tempi espressivi di tale narrazione, la quale si espliciterebbe in due distinti momenti dialetticamente connessi: nella fase pedagogica, in cui il “processo di identità [è] costituito da una sedimentazione” (ibidem: 213), e in quella performativa, in cui ha luogo “la creazione, da parte di intellettuali e ideologi, artisti e politici, delle strategie narrative e rappresentative tramite le quali si ripresenta l’‘ontogenesi della nazione’” (Benhabib 2005: 28).
Benhabib offre una lettura più morbida dell’ipotesi proposta da Bhabha, sostenendo che i due aspetti che coinvolgono la narrazione nazionale, il pedagogico ed il performativo, si sostengono a vicenda o si combinano l’uno con l’altro (2005: 28). Il pedagogico, infatti, sarebbe deputato alla riscrittura della nazione, a mantenere continuamente in vita l’idea di unità e di coesione sociale, alimentando l’immaginario simbolico dei segni che rimandano ‘inequivocabilmente’ ad un’unità di fondo; il performativo, pur spinto dalla medesima ragione del primo, sarebbe, invece, impegnato a selezionare i ‘cenci, le toppe e le pezze’ della vita quotidiana (Bhabha 2001) convertendoli in segni
dell’unità discorsiva della nazione ed imbrigliandoli in un eterno presente, omogeneo e sciolto dalla temporalità narrativa del pedagogico.46
In entrambe le letture si evince che l’arbitrarietà del segno – in linea con la tradizione semiotica – trova proprio nella narrazione della nazione la sua più chiara esplicitazione.
I contributi di Bhabha e di Benhabib sono d’aiuto nel leggere nelle dinamiche migratorie una causa, fra le tante, della messa in crisi dello Stato-nazione.
Il discorso delle minoranze si inserisce pienamente nel processo di costruzione della narrazione nazionale proprio grazie all’emergere di un’inedita narrativa.47 La nazione necessita di omogeneità e coerenza, raggiunta attraverso la pratica narrativa; la presenza di una differenza, che rimanda ad un’irriducibile eterogeneità interna, interroga la natura stessa di nazione, la quale non riesce a pensarsi come unità sociale coesa.
I migranti, per eccellenza portatori di una differenza culturale irriducibile, mettono in crisi la coerenza narrativa dello Stato moderno. La finta omogeneità e la presunta coesione interna vengono denunciate nei loro caratteri arbitrari.
I migranti, gli esiliati, i soggetti delle diaspore, pertanto, mettono a nudo – più di quanto non abbiano fatto in passato i movimenti femministi – la natura non trascendente del patto sociale.
È quanto mai ovvio che la delegittimazione delle narrative nazionali ad opera delle minoranze abbia luogo a prezzo di scontri violenti, esplicitandosi nell’addomesticamento dei discorsi dei marginali oppure nella loro inibizione. Quest’ultimo processo ha luogo affermando l’illegittimità del processo
46 La tensione pedagogica della narrazione – come ricordato da Benhabib (2005) – “rinvia alle
strategie narrative, alla scrittura, alla produzione e all’insegnamento di storie, miti e altri racconti collettivi, per mezzo dei quali la nazione unanimamente rappresenta se stessa come un’unità compatta” (ibidem: 28). Essa, dunque, soggiace alla forza performativa delle élites e delle classi dominanti, che vogliono imporre un’immagine coerente ed omogenea della nazione facendo ricorso alla narrazione dell’atto autogenetico della Nazione.
47 Le minoranze, in primo luogo, ci rendono “sempre più consapevoli del carattere costruito
della cultura e dell’invenzione della tradizione” (Bhabha 2001: 239); in seconda istanza, si inseriscono nel processo narrativo contrapponendosi “al potere implicito di generalizzare e produrre la compattezza sociologica” (ibidem: 216). L’obiettivo delle pratiche discorsive delle minoranze, perciò, non è quello di celebrare una ‘fine’ della società, ma esse rendono plausibile una nuova narrazione della nazione. Il discorso della minoranza, infatti, rende rilevante l’arbitrarietà della narrativa nazionale, fa esplodere le potenzialità nascoste nelle dinamiche costruttive delle identità e delle appartenenze. L’Autore mette in luce come sia proprio la differenza culturale a generare la kairologica “confusione del vivere, e dello scrivere, la nazione” (ibidem: 225).
enunciativo: i soggetti nomadi, sfuggendo alle regole del contratto sociale (che esige stanzialità), non sono, per esempio, deputati a concorrere in modo egualitario al processo narrativo.
La nazione, infatti, imbrigliata nella storicità dello Stato (Fanon cit. in Bhabha 2001) possiede confini certi, abita un territorio stabilito: i migranti, in ragione di una doppia assenza (Sayad 2002), rendono porosi i confini e fluide le frontiere. Nei migranti questa fluidità della presenza, rimandando alla lettura baumaniana della tardo-modernità, si esplicita nel non poter essere realmente “né qui, né altrove” (Perrone 1998), in bilico fra due (e forse più) distinti mondi vitali, in transito fra il desiderio di fuga e la disillusione dell’arrivo, la colpa per un tradimento consumato nella scelta di partire e la difficoltà di esperire un’appartenenza piena nel contesto di arrivo.
Vite complesse, quelle dei migranti sono lo spazio nel quale ha luogo una creativa tessitura dell’identità, personale e sociale.
Di recente è andata attestandosi un quadro interpretativo (Joas 1992) volto a legittimare l’emergere della creatività individuale in funzione di una ricomposizione della frammentazione del reale. La creatività, in altri termini, è vista come la privilegiata risorsa agita dal singolo per ricomporre in modo unico e complesso un’identità frammentata.
I soggetti sottoposti a lunghi e dolorosi percorsi migratori sono chiamati con forza a ridefinire i contorni delle proprie appartenenze, le tracce della propria identità, i confini del proprio abitare, rinegoziandoli in modo nuovo, con fare creativo. È proprio questo il cuore della mia riflessione: provare ad esplorare in che modo le donne migranti – mai come in questo momento protagoniste sulla scena transnazionale, per numero di soggetti interessati e per problematiche suscitate – rispondono in maniera creativa al bisogno di sentirsi non più vittime di dinamiche socio-economiche dal respiro globale, senza tuttavia rinunciare, in nome di un protagonismo autoriferito, ad un legame sociale che media ed esplicita l’appartenenza ad una collettività.
In che modo l’associazionismo e la partecipazione alla vita pubblica sono una forma di creativa resistenza a tutte quelle dinamiche, più o meno esplicite, che le trasformano in soggetti privi di riconoscibilità, in braccia operose e non in soggetti in relazione, in ‘naufraghe dello sviluppo’ (Latouche 1993)?
È sulla traccia di tale interrogativo che vado ora ad esplorare la fitta trama di questioni interconnesse.
3.1. Sulle tracce delle ‘non-persone’
L’esclusione del migrante dalla cornice del patto sociale si esplicita nel renderlo e giudicarlo una “non-persona” (Dal Lago 2005), un “essere umano puramente marginale” (ibidem: 237). Dal Lago polemizza con forza con quello che si palesa come autentico paradosso:
“[…] qualcuno, un essere umano, è persona solo se la legge glielo consente, indipendentemente dal suo essere persona di fatto. Come è possibile che nel cuore dell’Occidente, nutrito della cultura verbale dei diritti e dell’universalismo giuridico, questa contraddizione possa essere ammessa” (Dal Lago 2005: 207-208).
I migranti rendono visibile il carattere artificioso del principio di nazionalità (ibidem: 207): infatti, “sono le norme relative alla cittadinanza che fanno di qualcuno una persona, e non viceversa” (ivi).
La tradizionale narrazione della nazione si scontra con le narrative dei marginali, che, non integrati ed espulsi dalla possibilità di esperire cittadinanze piene, dai bordi della vita sociale chiedono di riformulare i codici dell’appartenenza.
L’ipotesi da cui muovo è che l’impegno attivo nella società civile delle donne straniere è una delle forme di riscrittura del patto sociale. La società civile, espressione della riflessività moderna, manifesta, infatti, nella sua declinazione migrante, la volontà di tessere in modo nuovo la trama dell’appartenenza, di rinegoziare la cornice politica e legislativa del contratto sociale.
Le dinamiche migratorie sanciscono in modo irreversibile la crisi dello Stato-nazione per almeno due ordini di motivi.
In primo luogo, esse sono segno del più vasto processo di globalizzazione, che, grazie al continuo flusso di uomini, merci e significati, scardina alla base la stabilità dello Stato moderno, obbligandolo a fare i conti con frontiere rese porose dai mercati finanziari, dalle logiche di dominio del ‘sistema-mondo’, dal nomadismo dei ‘profughi dello sviluppo’ e dalla pervasività di una cultura globale che omogenizza.
In seconda istanza, le dinamiche migratorie interrogano la narrativa coerente ed omogenea dello Stato-nazione, contribuendo, in forme ed in tempi narrativi diversi, ad una riscrittura. Esiste, infatti, una sovversività della narrativa migrante, che, orientata a contestare la presunta trascendenza dello Stato-nazione, si alimenta nel rifiuto di scomparire (Chatterjee cit. in Bhabha 2001: 319).
Alla luce di quanto detto, è importante, dunque, cogliere la dimensione
kairologica presente nella narrazione migrante e, più estesamente, in quella dei
marginali.
Posta, infatti, l’urgenza della denuncia relativa alle formule discorsive agite nei confronti dei migranti – considerati ‘non-persone’ ed espulsi dai confini del patto sociale (Dal Lago 2005) – è necessario cogliere le dinamiche narrative attraverso le quali i migranti stessi operano resistenza, contribuendo creativamente ad una riscrittura delle regole che disciplinano il legame sociale.
In questo senso, ci può essere d’aiuto il contributo di Sayad, impegnato a ‘svelare’ il mistero narrativo nascosto nelle molteplici formule discorsive legate al tema migratorio.