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Metamorfosi: spogliarsi di un habitus scomodo?

Seconda Parte Dentro la ricerca

3. Il gioco delle traiettorie nei migrant

3.1. Metamorfosi: spogliarsi di un habitus scomodo?

La dimensione dello squilibrio che governa il ‘sistema-mondo’ si svela nel momento in cui l’‘emigrante’ diventa l’‘immigrato’. La delusione e l’amarezza per la nuova situazione, il dover fare i conti con un sentimento di frustrazione per la precarietà vissuta diventano la cornice entro la quale ha luogo una vera e propria metamorfosi della traiettoria individuale, segno della trasformazione che interessa nel complesso la traiettoria collettiva dei migranti. Accettare la condizione di un ‘gioco al ribasso’ con la propria esistenza è la traccia più evidente di come – per alcuni – si inneschi un processo di lenta e dolorosa trasformazione delle aspettative.

Ancora una volta la struttura permea, modella e determina le esistenze dei singoli, obbligandoli a spogliarsi di un habitus ritenuto scomodo per vestire i panni dell’immigrato, costretto ad un declassamento e ad una condizione di marginalità. Essi sono oggetto di un vero e proprio inganno operato non più esclusivamente dalla ‘mano invisibile’ del mercato dei titoli scolastici ma in modo oculato dal sistema dei Paesi dominanti, in cerca di profitti attraverso l’abbattimento dei costi di produzione.

La ‘produzione di emigranti’, pertanto, rientra a pieno nel gioco di riproduzione delle regole che disciplinano lo spazio sociale gerarchizzato.

La sempre meno arginabile crisi dello Stato-nazione e l’emergere di una società globale – che si struttura lungo l’asse Nord-Sud riproponendo la dialettica ‘dominanti-dominati’ tipica del rapporto tra centro e periferie – obbligano ad estendere alla dimensione planetaria la validità delle dinamiche di incorporazione del dominio.

Nell’immigrato, dunque, si fa esplicita la sensazione che il viaggio abbia portato con sé un’interruzione della traiettoria originaria, facendo così spazio ad

aspettative e progetti di vita più contenuti, arginati dalla precarietà della nuova condizione.

Più esplicitamente le traiettorie collettive degli immigrati si assestano su dinamiche di arretramento dello status e di caduta sociale.

Le periferie del ‘sistema-mondo’, dunque, incorporano la logica della subordinazione rispetto ai Paesi dominati assumendo come ‘naturale’ tale ordine sociale. L’habitus emigratorio, pertanto, è traccia dell’avvenuto processo di incorporazione: il legittimo desiderio di ascesa sociale trova traduzione e ‘sbocco’ naturale – ad opera delle dinamiche coercitive simboliche che, messe in piedi dai dominanti, abitano lo spazio sociale globale – nella possibilità emigratoria.

Il progetto emigratorio nasce all’interno di un più complesso intreccio di aspirazioni e desideri, individuali e familiari; esso si propone come la soluzione, la più immediata, per incanalare la traiettoria collettiva orientata alla mobilità sociale verso l’alto.

In realtà – in linea con le istanze di un ordine simbolico costruito ‘da’ e ‘su misura’ dei Paesi dominanti – nel processo di incorporazione del progetto emigratorio si nasconde quello che, mutuando un termine caro a Bourdieu (2001: 372), potremmo definire un “bluff sociale”.

L’emigrante, trasformato in immigrato, è sottoposto nei Paesi di arrivo ad un processo di ‘disabilitazione’. Il mancato riconoscimento dei titoli (il capitale scolastico); la privazione del sostegno derivante dal proprio gruppo familiare e dalla propria comunità (capitale sociale); il disagio economico (capitale economico); la percezione di una marginalità esperita a partire dal vivere sulla propria pelle la condizione della ‘stranierità’ (che si traduce nell’essere privi di un adeguato capitale simbolico, non conoscendo, per esempio, lingua e costumi del Paese di arrivo): questi sono tutti meccanismi orientati ad interrompere la traiettoria individuale originaria, inaugurandone una nuova segnata – come già accennato in precedenza – da un ‘gioco al ribasso’ rispetto ad aspettative maturate e sogni coltivati.

Il ‘sistema-mondo’, spazio sociale dove si perpetua il dominio dei centri del potere (economico e simbolico) sulle periferie (deprivate di tale potere), si riproduce facendo leva sul bluff sociale e sul misconoscimento delle reali regole che governano il gioco delle traiettorie nei migranti.

Nella prospettiva di Bourdieu, i dominati per eccellenza sono tutti gruppi sociali che – non potendo far liberamente e competentemente uso dell’ordine simbolico – disertano di fatto lo spazio pubblico e non si appellano alla pratica politica: in particolare, egli individua tali soggetti nelle donne, nei migranti, in coloro che provengono dalla classe popolare, nei marginali in generale.

L’espulsione del discorso simbolico, dunque, si esplicita nell’esclusione dallo spazio fisico pubblico destinato solamente a coloro che hanno la capacità di governare la polis.

Per alcuni soggetti tale limitazione di agire nella sfera pubblica avviene in modo indolore, assumendola come naturale. Significativo è il caso delle donne, esaminato da Bourdieu ne “La domination masculin”. Risultato di una violenza simbolica silenziosa, tale ‘espulsione’ si manifesta a partire da una distinzione sessuale, giudicata ‘naturale’, irriducibile, destoricizzata. L’Autore, infatti, rintraccia nell’elaborazione del mito dell’eterno femminino le radici di un dominio maschile, che, capace di esplicitarsi in forme molteplici, si avvale di un accordo tacito da parte dell’universo femminile.70

Bourdieu, in altri termini, dimostra che, al di là delle rivoluzioni culturali e dell’azione dei movimenti collettivi, la riproduzione dello spazio sociale rimane fortemente gendered, riproponendo – seppur in forme nuove – la gerarchia tra i sessi e tra i codici simbolici dei rispetti universi sessuali: le possibilità concrete di carriera professionale e l’esclusione delle donne rispetto a specifiche professioni,

70 Il dominio maschile, che giunge – come dimostrato – ad un pieno asservimento dei corpi

(anche attraverso l’hexis), passa dall’incorporazione da parte della donna delle regole che governano il mondo sociale. Giudicare come ‘naturale’ la gerarchia fra i sessi è, infatti, segno inequivocabile di un raggiunto successo nella ‘conversione dello sguardo’ (si pensa se stesse solamente attraverso lo sguardo dell’uomo), delle aspettative, dei desideri, dei bisogni. Il confinamento nello spazio domestico, pertanto, nasce dal credere possibile persino una gerarchia negli spazi sociali: lo ‘spazio pubblico’ è solamente per pochi eletti, per quanti hanno abilità e meriti particolari, per coloro che hanno diritto di avvalersi di un’autonoma opinione.

Bourdieu, criticando apertamente il tentativo di destoricizzare la divisione sessuale, va sulle tracce delle ‘forme elementari’ del dominio maschile esplorando nella società kabila le forme ed i contenuti delle relazioni asimmetriche tra generi. A partire da tale riflessione egli individua come la costruzione delle rappresentazioni sociali e dell’immaginario simbolico (veicolo principale del processo di conversione degli sguardi) abbiano luogo attraverso una “trasformazione profonda e duratura dei corpi (e dei cervelli)”; tale processo si esprime al prezzo “di un formidabile lavoro collettivo di socializzazione diffusa e continua” (Bourdieu 2002: 40-41).

Il lavoro di decostruzione e ricostruzione degli ‘sguardi’ (del modo, cioè, attraverso cui le donne stesse si pensano e si percepiscono) operato dal movimento femminista ha in qualche modo messo in crisi la narrazione androcentrica. Bourdieu, pur mettendo in luce tale successo di rinarrazione delle differenze, sottolinea il perdurare delle tradizionali forme androcentriche di riproduzione dell’ordine sociale.

in prima istanza, sono il riflesso di un’ancorata differenza di posizione. In secondo luogo, l’Autore evidenzia che la riproduzione della grammatica dell’incorporato dominio si esplicita attraverso tre distinte pratiche: prolungando le funzioni domestiche (nello specifico, insegnamento, cure e servizi); non accedendo a posizioni occupazionali con ruolo dirigenziale (soprattutto quando in posizione subalterna ci sono degli uomini); rimanendo escluse dal campo della produzione tecnologica e dall’uso delle macchine.

In linea con quanto sostenuto da Bourdieu, si può leggere il fenomeno del lavoro di cura: colf e badanti, infatti, non fanno altro che riprodurre in forme nuove, rieditate dal registro della globalizzazione, il confinamento del femminile nello spazio domestico, in virtù di un sempre più esplicito ‘eterno femminino’. In tal caso la spregiudicatezza del dominio si fa, se possibile, ancora più violenta perché parte dall’incrocio di due fattori storicamente segnati da svantaggio sociale: l’essere donne e, non ultimo, l’essere straniere (spesso provenienti da Paesi ad economie fragili). Quest’ultimo fattore ci fa dire che il ‘sistema-mondo’ e le forme di dominio di cui si fa interprete non fanno altro che riproporre il modello androcentrico: un ‘centro’ (un Nord) che, nei panni del maschio, è dedito al lavoro (e alla massimizzazione dei profitti); una ‘periferia’ (un Sud, un Est) che, nei panni della donna, deve accudire, occupandosi della cura del Nord.

Ritornando al discorso della conversione degli habitus nei migranti, mi piace mettere in luce come il passaggio della condizione di emigrante a quella di immigrato rappresenti una vera e propria ‘rinuncia a se stessi’, un “divorzio da se stessi” – per dirla con le parole di Sayad (1993: 1268). Il sociologo algerino – in un saggio all’interno dell’opera corale “La misère du monde” (Bourdieu 1993) – riprende quanto raccontato nel corso di un’intervista da un lavoratore immigrato e esplora il passaggio di tale ‘conversione’ a partire dal giorno in cui quest’ultimo si è percepito come immigrato: il primo giorno, quello della “maledizione” (ibidem: 1269).

La rinuncia al proprio sogno di ascesa sociale si esplicita, pertanto, con il tempo come un prendere le distanze dall’uomo o dalla donna che si è stati nel passato, maturando un atteggiamento di “profondo disincanto” (Sayad 1993: 1269). Tornare con la memoria al proprio passato impone, tuttavia, al migrante di guardare al presente con occhio critico, capace di svelare con lucidità le

aspettative riservate alla propria traiettoria individuale, “qui est aussi une

trajectoire collective” (ibidem: 1269).

Il disincanto che matura con gli anni rivela, infatti, al migrante la natura del bluff sociale e lo pone dinanzi all’evidenza di una comunità di destino, capace di solidarizzare i vissuti di tutti i migranti.

3.2. La distinzione

Non sempre il processo di nuova e forzata incorporazione ha un esito positivo: quando ciò non accade è perché il migrante ha messo in gioco una rosa di strategie per ostacolare tale imposta metamorfosi, cercando in tutti i modi di rimanere fedele alla propria traiettoria individuale. Emerge con forza, dunque, in tali circostanze il ruolo ed il protagonismo del singolo e del gruppo, intenti a tener viva l’originaria aspettativa di ascesa sociale.

In tale processo un ruolo fondamentale gioca la strategia distintiva, anima vera e propria della dialettica ‘dominanti-dominati’ e leva della mobilità sociale. In particolare, coltivare la propria cifra distintiva è un modo per ostacolare il processo di incorporazione operato dalla struttura sociale dei Paesi di arrivo, i quali dipingono i migranti come soggetti esclusivamente funzionali alle economie nazionali, manodopera da ‘utilizzare’ per massimizzare i profitti attraverso l’abbattimento dei costi di produzione.

Distinguersi significa non accettare di sottostare al gioco al ribasso delle traiettorie di vita. Distinguersi implica frantumare l’immagine e la narrazione che tipicizza l’immigrato, considerato “non-persona” (Dal Lago 2005), ‘vittima’ del ‘sistema-mondo’, ‘naufrago dello sviluppo’ (Latouche 1993) oppure racchiuso, alternativamente, entro la cornice dello stigma sociale, che lo vuole ‘pericolo’ dell’ordine pubblico e della sicurezza, ‘minaccia’ per il mantenimento della cultura e delle tradizioni nazionali.

Il passaggio, pertanto, dalla struttura sociale dei Paesi di origine a quella dei Paesi di arrivo obbliga quasi ad una riconversione delle traiettorie collettive: un processo che è possibile ostacolare nutrendo il proprio sé, assumendo come irrinunciabile la propria soggettività e progettualità.

In particolare, per il singolo migrante rompere con il conformismo delle credenze, degli atteggiamenti, delle pratiche culturali di quanti, immigrati, hanno ormai

accettato – senza riserve e senza particolari resistenze – la nuova condizione di ‘stranieri’, si propone come strategia per sperimentare inediti percorsi di inclusione.

Sayad coglie nel segno quando ripropone il percorso di Abbas, lavoratore magrebino da anni in Francia. Il ‘divorzio da se stessi’ può essere rielaborato a partire – come già ricordato – da un ritornare su se stessi, sul peso dei sogni e delle aspettative traditi, sul riemergere – attraverso un lavoro di recupero del proprio vissuto – delle esperienze di colui che un tempo fu l’‘emigrante’.

Il migrante, dunque, si riconcilia con il proprio passato solo per merito di un’autoanalisi in grado di ricomporre i pezzi del disegno migratorio originario. Il sociologo algerino dichiara, attraverso il racconto di Abbas, come sia estremamente limitato il numero di quanti riescono a a riemergere “dallo stato di sonno” (Sayad 1993: 1269), generato dalle delusioni dell’immigrazione.

Solamente alcuni, come il lavoratore immigrato intervistato da Sayad, assumono un ruolo di “éveilleur” delle coscienze, nutrendo in tal modo “un sentiment très

aristocratique de sa distinction qui l’incline à une certaine commisération […] à l’égard des autres qui se refusent à l’espèce d’ascèse qu’il leur propose non seulement par ses actes mais aussi et sourtout par ses paroles” (ibidem: 1270).

Il marchio distintivo di Abbas, coltivato con una piena (anche se dolorosa) consapevolezza del processo di metamorfosi che ogni percorso migratorio porta con sé, lo rende un’eccezione vivente rispetto all’universo dei migranti, i quali lo guardano con ammirazione, rispetto e fascinazione, ma anche con irritazione, suscitata dal suo essere un caso eccezionale.

La capacità di ripensare con coraggio e senza esitazione al proprio vissuto, sviscerando le contraddizioni che si celano nel gioco migratorio, rende Abbas e quanti condividono tale inclinazione come soggetti capaci di prendere in mano le fila della propria storia, riconoscendovi in essa le tracce di una ‘comunità di destino’.

Lo svelamento del bluff sociale non è accolto con riconoscenza, perché – come ha sottolineato con forza Bourdieu (2001) – non solo è proprio di ogni forma di dominio l’opera di ‘misconoscimento’, ma appartiene a quest’ultimo anche il processo di ‘naturalizzazione’ – attraverso l’incorporazione – della

subordinazione, da parte del dominato (in questo caso il migrante), alle regole imposte dai dominanti.

Coloro, pertanto, che si agganciano ad un’istanza distintiva prendono le distanze proprio da tale imposta visione del mondo, dando vita ad una dolorosa ‘scorporazione’.71

Solo in questo modo si può cogliere la natura ingiusta che si cela dietro ogni esperienza migratoria:

“Que le sage, à qui il arrive d’être aussi un prophète de malheur, proclame que

l’émigration fut une ‘erreur’, que tout le monde s’est trompé en cette circostance, passe encore. Mais qu’il annonce que l’immigration des familles – la sienne en premier lieu – est une trahison, un reniement, une apostasie (au sens religieux du terme) et qu’elle a eu pour conséquence une totale reconversion qui fait que, comme il aime à le répéter, ‘a lieu de travaller pour (leur) prospérité, les immigrés (en famille) travaillent en réalité pour la postérité des autres’, c’est là une énonciation qui est très difficile à supporter, car elle est en même temps une dénonciation.” (Sayad 1993: 1271)

Tener viva la memoria del proprio vissuto e prendere le distanze da certe dinamiche di incorporazione è il primo segno del culto della distinzione, capace non solo di mantener vivo il sogno originario (la traiettoria individuale), ma anche di riscrivere la narrazione del fenomeno migratorio, in grado di disegnare una nuova traiettoria collettiva nei migranti.