Terza Parte La pratica della distinzione
2. Vite complesse
2.2. Essere donne: nuove socialità
Nelle donne migranti la complessità dei percorsi biografici intercetta più questioni: nel ruolo di depositarie della cultura di origine, esse svolgono una funzione strategica e centrale nel processo di riproduzione sociale; con la maternità esse sono chiamate ad intrecciare l’eredità culturale del Paese di origine con la necessità di facilitare l’inserimento dei figli nel contesto di arrivo; sempre come madri e nella condizione di primomigranti, poi, esse sono impegnate a governare una maternità despazializzata, abbracciando la dimensione transnazionale; con compiti da breadwinner, esse vivono fra due comunità, in bilico fra mondi sociali lontani e distinti; sotto la spinta delle culture dei Paesi di arrivo ed in seguito ai cambiamenti indotti dal processo migratorio, sono condotte verso una ridecodificazione dei ruoli di genere.
Non è possibile in questa sede dare debitamente conto del modo in cui si esplicita la complessità nei singoli vissuti, traccia di una traiettoria collettiva, tuttavia mi pare importante assumere tale carattere come tratto che solidarizza tra loro le diverse esperienze.
Già ne “La misère du monde” (Bourdieu 1993) si evidenzia il ruolo delle donne migranti nel percorso di conservazione o di reinterpretazione della cultura di origine, di consolidamento o di ridefinizione del progetto migratorio.
In particolare, talvolta è proprio, paradossalmente, la divisione sessuale del lavoro familiare che – nella condizione migratoria – fa crescere autostima ed autonomia nelle donne e nelle madri, le quali si scoprono con ‘delle capacità’, abili nel fronteggiare gli ostacoli del quotidiano e le problematiche derivanti da una complessa e faticosa integrazione (Muel-Dreyfus 1993).
Tra tutti gli elementi indicati (dei quali alcuni verrano ulteriormente approfonditi successivamente) mi pare importante far emergere la complessità derivante
78 Quest’ultimi, invitati ad esaminare le diverse formule di acculturazione riguardanti le
seconde generazioni, propongono cinque tipologie: l’acculturazione consonante, la resistenza consonante all’acculturazione; l’acculturazione dissonante (che si presenta in due distinti modelli); l’acculturazione selettiva.
dall’incontro fra modelli di genere diversi (Besozzi 2003). La dimensione etnica, in questo senso, gioca un ruolo determinante, poiché ogni specifico campo culturale (antropologicamente inteso) organizza e riproduce i rapporti fra sessi, disciplina le forme ‘più appropriate’ per l’espressione della mascolinità, traccia i confini fisici e simbolici entro cui ha luogo l’esercizio di quest’ultimi.
Nel tempo del multiculturalismo e dell’incontro quotidiano nello spazio sempre più prossimo delle città, contesti lavorativi e scolastici segnati da pluralismo culturale impongono chiaramente una rinegoziazione delle forme entro cui va esprimendosi, nello specifico (ma non solo), l’‘essere donna’. In altri termini, pur rimanendo – al di là del movimento di popoli e culture – invariata la “polarità tra il maschio e la femmina, con i suoi ruoli obbligati” (Piccone Stella, Saraceno 1996: 13), essa non si perpetua “rigidamente, uguale a se stessa” (ivi). Le condizioni storico-sociali influenzano i modelli di genere, determinano le forme di relazione tra il maschile ed il femminile, chiamati comunque, come ci ricorda Bourdieu (2002 a), ad occupare posizioni distinte nello spazio sociale.
“Cioè… e poi ho saputo pari opportunità: cioè un uomo deve essere pari ad una donna, cioè che la donna può fare quello che fa l’uomo nell’ufficio.
[…] Mio marito ha accettato tutto quello che c’ho, come sono io… Se io esco la notte per lui non è un problema; infatti non lo so… Cioè lui mi lascia libera; cioè io ho fatto vedere a lui che la donna non deve essere… abbiamo libertà tutte e due. Cioè, mio marito ha fatto anche un processo… per far capire quello che sto facendo: il diritto di una donna, il diritto dei figli, il diritto di un uomo. […] Cioè, mio marito è chiuso. Cioè… lui è un filippino tipico che credeva che la donna deve stare a casa e non deve avere… […] Però non è che lui è costretto di accettare tutto. È un processo anche. L’ho aiutato per farlo capire… […] Sì, sì. Lui… ci sono stati anche rifiuti: per esempio, se vado in Germania per fare un convegno, lui dice: ‘Non puoi fare, non puoi fare; non puoi lasciare i tuoi figli… ma come fai?’. Cioè, lui è… devo spiegare, devo ricominciare, devo… no? Farlo capire… [...] e poi abbiamo figli, e quindi lui deve stare a casa, [ride] infatti come dicono io sono diventata il ‘marito’: io che vado sempre fuori…” [Filippine, 38 anni]
M: “Poi invece l’impegno associativo come è nato?”
I: “Quello è nato forse per un discorso mio di vita di gruppo, cioè a me sempre è piaciuto
di vivere in gruppo, di condividere le esperienze, di aiutare gli altri. Avevo una rete di donne. Perché proprio di donne… perché le esperienze di donne, in Albania, sono un po’ diverse; noi abbiamo ottenuto la nostra emancipazione tramite il governo. Da noi non c’è stato il ’68; lì è stato il governo che ha imposto dall’alto l’emancipazione della donna, una delle cose positive che ha fatto il governo socialista. E così come la scolarizzazione, che noi adesso portiamo anche qua. Cioè, la scuola per noi è uno dei valori… La società albanese riconosce le donne… che sono molto emancipate, partecipano nella vita sociale; mentre gli uomini sono più tradizionalisti e con una mentalità più patriarcale.”
M: “Quindi abbiamo due diversi…”
I: “…modelli. La donna in Albania… Io dico in Albania, perché faccio il paragone con
qua… Era una donna che nella vita sociale e nella vita quotidiana era in ruolo di leader, più della donna italiana qua. Cioè, c’erano più donne di governo, più donne di livello… perché erano sostenute dallo Stato. […] L’occupazione turca ha lasciato la donna dentro casa; il governo ha voluto emancipare la donna. E questo sicuramente ha dei risvolti positivi… Questo vuol dire che le donne nella società erano molto libere, ma non nelle case. Dentro le case… dentro le case era sempre l’uomo che comandava e la donna faceva tutto: la famiglia, i figli, cucinava, stirava… Però questo ha fatto del bene: quando c’è stata l’emigrazione sono state le donne per prime ad essere integrate. Quelle che fanno battaglie per integrare la famiglia nella società italiana: hanno trovato più presto lavoro… Presso le famiglie, lavori domestici… Sono state loro per prime che hanno trovato lavoro e poi, tramite le famiglie, si è creato un clima di fiducia e hanno trovato lavoro per i mariti. Anzi, qua i mariti si sono sentititi un po’ svalutati, perché il lato economico era in mano alla donna. La donna è anche quella che tiene i rapporti con la scuola, con i figli… Anche gli uomini sono cambiati qua: hanno preso più responsabilità nell’educazione dei figli.”
M: “Diciamo quindi che l’emigrazione ha fatto bene agli uomini e alle famiglie…
[ridiamo]”
I: “Come no [ridiamo]! Come no! Anche alle famiglie: le donne si sentono più sollevate.
All’inizio sentivano questo bisogno di condividere, perché c’erano delle crisi nelle proprie famiglie.”
I: “Perché tutto questo?”
M: “Nel senso che per gli uomini accettare la società italiana era molto difficile. Nel
senso che vedevano questa maggiore libertà della donna, vedevano il modo democratico di trattare le donne, cioè di trattare i problemi in generale. Non erano abituati… Nelle loro famiglie erano abituati a decidere e a non condividere con tutti i membri della famiglia le decisioni. Invece poi si sono trovati davanti ad un’altra realtà. Potevano anche chiudersi in se stessi e fare lo stesso; e forse realtà del genere ci sono ancora… Però diciamo che la maggior parte delle donne sono uscite… perché essendo già predisposte, già aperte, hanno acquisito dalla società e hanno chiesto… In questa fase di passaggio abbiamo costruito la nostra associazione: per sostenere di più i processi delle donne e… degli uomini. Perché loro erano in crisi e non sapevano come affrontare questo: andavano anche aiutati, diciamo.”
[Albania, 41 anni]
Eppure, la pluralizzazione delle forme entro cui va esprimendosi il genere femminile nella post-modernità mitiga in parte il contraccolpo che può venire dall’incontro tra culture di Paesi che procedono con un passo diverso nel cammino di modernizzazione: si può essere donne in molti modi diversi; si può interpretare in molteplici forme il copione che regola il rapporti fra maschile e femminile. Proprio questa possibilità potrebbe tradursi in un arretramento del percorso di emancipazione dell’universo femminile (Moller Okin 2007), legittimando – in nome del pluralismo e di un certo spirito liberale – modelli familiari fortemente patriarcali anche nei Paesi di arrivo (dell’area europea e nord americana).
Accogliendo una prospettiva relazionale, non si può fare a meno di pensare il processo di trasformazione delle identità individuali e di genere all’interno del più esteso processo di cambiamento delle famiglie durante la migrazione transnazionale. In primo luogo, va sottolineato come il passaggio dai sistemi socio-culturali dal Sud e dall’Est del mondo verso il Nord-Ovest comporti, nella maggior parte dei casi, la conversione da famiglia allargata o estesa a famiglie nucleari (Santoni 2006). La nuclearizzazione delle unità familiari genera un’inevitabile ricodificazione dei ruoli e delle funzioni genitoriali, e, non ultimo, una formulazione inedita con il mondo esterno, assumendo in tal senso un ruolo di “mediazione sociale” (ibidem: 148)79.
M: “Cosa la preoccupa di più per i suoi figli del fatto di stare in Italia?”
I: “Guarda preoccuparmi non tanto… Non tanto perché sai il bimbo dove è nato… se tu
gli dai l’educazione buona non c’è preoccupazione. Anche crescerli in Senegal, se io non sono capace di educarli è uguale. La preoccupazione dipende dai genitori: se i genitori sanno fare… Non dico di menarli, ma di dare educazione il minimo. Non è che devi essere in Europa o in Africa per dare la buona educazione.” […]
M: “Lei nel suo Paese ha vissuto un’educazione collettiva, che interessava la sua
famiglia, la comunità. I più piccoli sono figli della comunità… Questa cosa come riesce a tradurla in Italia, visto che ovvie ragioni…”
I: “È un po’ difficile, è un po’ difficile… Perché per lui quando va su autobus dico
‘Saluta!’; e lui ‘Ma mamma tutti questi sono zii?’… [ridiamo] Invece in Senegal quando ti alzi la mattina fino alla sera… non puoi incontrare una persona senza salutarlo! Invece, per loro per farli capire questa cosa… Quando esco con lui [indica il figlio] a lui dico ‘La bocca serve per salutare! La bocca si usa per mangiare, ma serve per salutare!’. La prima educazione è salutare la gente. Guarda che tra di noi, ogni tanto c’è gente che ti fa ‘Li devi mandare giù per fare le vacanze!’. E questo è vero.”
M: “Per farli entrare nel…”
I: “Per farli capire che la persona grande… Che ci sono delle parole che non vanno usate.
Ora ti dirò una cosa [ride]… Che dire ad una persona ‘Non è vero!’… Al mio Paese, anche se è un anno più grande di te…”
I: “Contraddire una persona…”
M: “…dicendogli che ha mentito non si può, perché è più grande di te. Puoi dire ‘Hai
sbagliato.’. E questi qua [i figli]… [ride di cuore] E dicono ‘Li mandi a casa a vedere!’.” [Senegal, 40 anni]
79 Santoni tematizza tale questione nei seguenti termini: “Questa famiglia ‘modificata’,
attraverso una inevitabile riduzione del numero dei componenti e una privatizzazione delle relazioni familiari, deve esprimere una nuova funzione sociale che riguarda l’attuazione di un interscambio frequente e dinamico col mondo pubblico ad essa esterno. […] È proprio questa attenzione e confronto con il contesto sociale esterno che vogliamo qui sociologicamente definire come funzione di mediazione sociale. Si tratta infatti di mettere in atto abilità relazionali, comunicative ed emotive ai fini di instaurare una rete di legami che colleghi il mondo privato della famiglia – in questo caso quella migrante – con il mondo pubblico.” (Santoni 2006: 148)
L’arrivo nel nuovo Paese implica, altresì, la possibilità di confrontarsi con modelli di genitorialità diversi rispetto a quelli esperiti nel Paese di origine. Il conflitto narrativo che da ciò emerge è foriero di molteplici riflessioni.
In alcuni casi, infatti, si rimane affascinati dalle pratiche di maternage che rimandano a sentimenti di cura verso la vita fisica e psichica del bambino: attenzioni, gioco, complicità, educazione all’affettività (che si esplicita anche attraverso il linguaggio del corpo) risultano strumenti di mediazione del rapporto ‘genitori-bambini’ – fino a poco tempo prima sconosciuti per la migrante – da apprendere e da ‘imitare’.
“Io sono una donna; ho vissuto una vita difficile: una bambina picchiata, diciamo… Cioè, non maltrattata perché i miei genitori sono cattivi, ma perché la nostra… ‘ti danno, ti danno…’ non hai ragione per i tuoi genitori. Allora, io non ho vissuto una vita facile, non ho goduto molto la mia gioventù, non ho goduto la mia adolescenza, quando ero piccola… Non ho giocato molto, non avevo giocattoli: questi fatti qua… faceva parte… […] Conoscendo anche la realtà qua in Italia…Vedevo la famiglia dove lavoravo che i bambini vengono trattati bene, vengono… sono molto protetti; amati dai genitori: baciati, abbracciati, coccolati dai genitori. Ma io ho detto: ‘Ma io no!’… Non ho questo rapporto con i miei genitori. Qui le donne vengono protette; qua in Italia è reato picchiare… Queste cose qua, no?!, che io prima non sapevo…
Allora tutta quanta questa esperienza, per esempio, non ho avuto di proteggermi… Non ho avuto questa possibilità… Vittima di questa violenza sessuale, diciamo, non fisicamente… ma… culturale.” [Filippine, 38 anni]
In altri casi, invece, risulta feroce la critica verso le formule educative del Paese di arrivo, giudicate foriere, nei bambini, di comportamenti scorretti. Soprattutto da parte delle migranti di origine africana, è vissuto con ansia il rischio che i propri figli diventino ‘come gli italiani’, cioè irrispettosi nei confronti degli adulti e delle persone più anziane.
“A me dispiace dirlo, ma… Da noi la vecchiaia viene vissuta più… Qua la vecchiaia fa paura; già a pensare le case di riposo è una paura. Perché noi… Le case di riposo non esistono da noi. Le vecchie sono i saggi, dove noi portiamo i bambini a giocare con loro. Allora, quando penso alla mia generazione [inizia ridere di gusto]… Quando pensi che devi andare in una casa…” [Senegal, 40 anni]
“Stando in Marocco… per i miei figli avrei avuto meno paura… Qui è diverso. Lì… quello che avrebbero visto e trovato fuori casa sarebbe stato uguale a quello che avrebbero trovato in casa; qui, invece, c’è sempre la paura che non sappiano capire, che svalutino le loro radici. E poi lì ci sarebbe stata tutta la famiglia per educare i miei figli,
non sarei stata da sola… E anche lì avrebbero trovato conferme. […] Una cosa che mi dà molta sofferenza è che i miei figli siano oggetto di pregiudizi, che non vengano rispettate le loro radici, che non venga riconosciuta la loro origine, che venga cancellata la loro identità… Se tu cancelli ora la loro identità prima o poi questa è una cosa che ritorna. […] È una cosa che mi dà molta tristezza, tanta tanta tristezza. I nostri bambini sono ancora piccoli… non sappiamo cosa ci preserva il futuro, solamente Allah lo sa… La paura è che prendano solamente le cose cattive di ciò che sta fuori; questa è una grossa paura. E quello che si sente in televisione mi fa tanta tristezza.”. [Marocco, 43 anni]
La donna si ritrova nel Paese di arrivo sganciata da quegli istituti tradizionali (la famiglia di origine, la comunità, le reti informali, il vicinato, ecc…) deputati al sostegno ed al rinforzo dell’attività educativa. Tale aspetto, segnato spesso da incertezza (per la nuova situazione, per le delusioni derivanti dal confronto con la nuova cultura, per la pluralizzazione crescente dei modelli educativi e delle ‘formule familiari’ nei Paesi di arrivo), spinge verso due vie d’uscita alternative: in primo luogo, il “modello della continuità e della conservazione” (ibidem: 150); in secondo luogo, una creativa rivisitazione della propria cultura.
La replicabilità o, in alternativa, l’innovazione si presentano come modelli entro cui va dispiegandosi anche la maternità nella migrazione.
“[…] poi ho incontrato lui […] Un mese di corteggiamento, un mese di fidanzamento e tre mesi sono incinta: così, senza conoscerlo bene! [...] ‘Io sono incinta!’… non ho paura di dire ‘io sono incinta’; non sono come le altre donne: ‘[piagnucolando] Ah… io sono incinta… come devo fare?! mi vergogno!’: no! Perché ormai mi sono… emancipata. Però dentro di me mi sentivo ancora questo: oddio, adesso che dico ai miei genitori? Io porto una vergogna per la famiglia. […] ‘Se tu mi ami… io non ti amo molto; sono incinta… Se non mi sposi va bene; continuiamo il rapporto…’. Diciamo che esiste la madre…la ragazza madre… diciamo che è accettata nella società: io non sono nelle Filippine, sono in Italia e posso andare avanti. Invece lui… vuole sposarmi; e mi sono sposata.” [Filippine, 38 anni]
Tuttavia, sebbene il momento educativo e la maternità giochino (per la valenza integrativa nel Paese di arrivo e per quella trasmissiva del patrimonio culturale di origine) un passaggio fondamentale nel processo di risocializzazione o di ‘nuova socialità’, non va tralasciata la funzione svolta in tal senso dal lavoro. Negli ultimi anni, come già accennato nei capitoli precedenti, è cresciuto il numero di donne nelle vesti di primomigranti: proprio questa novità nel panorama
delle migrazioni femminili veste di luce nuova il processo di rinegoziazione delle identità individuali e invita alla formulazione di una nuova socialità di genere. La femminilizzazione dei flussi e, non ultimo, il fatto che le donne migranti diano corpo al progetto di partire per motivi di lavoro qualificano come gendered il più recente fenomeno migratorio. Ricorda a tal proposito Donati che “[…] le migrazioni hanno un carattere fortemente gendered, ossia sono influenzate dai rapporti di genere, e modificano i rapporti di coppia fra le generazioni. Nella distanza, si alterano le tradizioni patriarcali e in molte situazioni le donne diventano più competenti ed autonome, per esempio nella gestione del denaro.”80
Altri autori, tesi a tematizzare il cambiamento qualitativo (e non solamente quantitativo) della struttura demografica, sociale e culturale inaugurato da una presenza crescente di donne nell’universo migratorio, invitano a guardare a tale aspetto come foriero di profonde trasformazioni nell’ordine dei rapporti tra generi. In particolare, una maggiore autonomia economica, la responsabilità legata al fatto di assumere un ruolo di breadwinner oppure, ancora, il prestigio derivante dal rispondere ad una funzione di ‘procacciatrice di risorse’ per la famiglia rimasta nel Paese di origine rinegoziano in modo nuovo il valore della donna in seno al contesto originario. La gestione del denaro, la guida del progetto migratorio dell’intera famiglia, il conservare le sorti del desiderio di mobilità sociale verso l’alto rendono le donne inevitabilmente protagoniste.
“Cioè, io in X guadagnavo di più; guadagnavo più di mille… ‘E qua io guadagno cinquecento: io non voglio stare qua. Io non voglio rimanere qua. E poi come facciamo con le nostre… con i nostri genitori?!’.
A quell’epoca ero sempre il breadwinner; perché lei si è sposata… Io ho promesso a me stessa che se io andavo a lavorare avrei… […] Poi nella nostra cultura quando tu non sei sposata hai una responsabilità per la tua famiglia. Non è per legge, diciamo… Nessuno ti costringe, però…” [Filippine, 38 anni]
Il ‘viaggio’, pertanto, inverte il polo della direzione della cura, perché risulta invertito quello dell’esercizio del potere: la scelta di partire, l’autonomia nella gestione del quotidiano e, non ultimo, l’inedita disponibilità economica (al punto
80 Cfr la relazione “Famiglia, migrazioni e società interculturale: quali regole di convivenza
civile?” tenuta alla Conferenza Nazionale della famiglia svoltasi a Firenze dal 24 maggio al 26 maggio 2007.