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attendendo che morte ognor ti colpa

46 ma dèi acciò] ma accio Lu1 • che, sendo] essendo Lu1 • qui tu] ui tu Lu1 tu qui Prm 47 in parte] in parter Prm 48 in Dio] a dio Rn 49 ché nicistà] che neciessita Rn che necessita Lu1 • a·rriva] aiua Lu1 arriua Fl42 50 venisse] uenissi Rn • in tempo] ni tempo Vch1 52 cavar]

cauere Rn • di] del Lu1 • viver rio] uerre io Prm 54 rendi] uendi

a

1 55 tua] tuo Prm Rn • e sete] i sete Prm o sete

a

56 Parte] parti Prm • di notte] della nocte Lu1 • alcuna ora] ancora Lu1 59 de tuo] di tuo Prm de tuoi Fl42 60 attendendo] atendendendo Rn • ognor] ogni or (

a

) Fl42 Rn • ti colpa] t’incolpa (

a

) Vch1 Rn

46. Si noti la complessa articolazione sintattica del verso, tipicamente soldanieriana. In un medesimo verso infatti sono contenute tre tipologie di proposizioni. Si costruisca: Ma dei (prop. principale il cui oggetto è rappresentato dai vv. 47-48) acciò che tu viva (subor. di primo grado finale) sendo qui (subor. di primo grado causale).

Si intenda: ʻal contrario tu (l’autore si rivolge ancora all’avaro; tu misero avaro del v. 31) devi, dal momento che sei ancora in vitaʼ, affinché tu possa salvare l’animaʼ.

sendo: gerundio con valore causale.

qui: avv., nel mondo; dunque, ʻmentre sei ancora vivoʼ. viva: allusione alla vita eterna.

47-48. Si costruisca: dei (v. 46) metter tempo parte in metter tempo (sotto inteso) di licito guadagno e parte in Dio.

Si intenda: ʻma devi occupare il tuo tempo riservando parte di esso al tuo onesto lavoro e parte a Dioʼ.

metter tempo: lett. dedicare il tempo. Si osservi la funzione brachilogica cui adempie questa locuzione.

Cfr. “Et di voi medesmi vedete che solamente ad guadagnare tanto che tu possi vivere colla famiglia tua, spendi tutto lo tempo tuo et anco se tu vuoi acquistare alcuno honore, et per tutto ciò, sì è questo picciola cosa. Or, ad guadagnare paradiso, lo quale è così grande, quanto tempo è necessario? Et mettere non ci puoi tempo però che tu se’ occupato al mondo, ché mentre che tu metti lo tempo al mondo nol puoi mettere a dDio, unde non puoi pensare di Dio, et così nol puoi

avere. Et però volere intendere al mondo, alle ricchesse et all’altre cose et intendere insieme ad avere Cristo non si può fare.”, Giordano da Pisa, Prediche inedite, n. 18, 147.

In merito a questa espressione, cfr. Bosone da Gubbio, Fortunatus siculus (l’Avventuroso Ciciliano), L. 2, cap. 17, 252; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, Pream., 1; F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, 193, 489.

48. di licito guadagno: (rif. a tempo) dell’onesto lavoro, indispensabile per vivere. Cfr. Gn 2, 17- 19.

In merito all’aggettivo licito riferito a guadagno e nella sua accezione di “legale” e di “moralmente consentito”, cfr. G. Villani, Cronica, L. 12, cap. 39, 3, 88; L. 11, cap. 39, 6, 81; F. Sacchetti, Sposizione di Vangeli, Sp. 4, 126; Sp. 36, 231.

49-51. Si costruisca: ché nicistà non ti menasse a·rriva, non avendo da·tte, per tôr del mio, quando venisse in tempo.

49. ché: cong. finale.

nicistà: il bisogno. Per quanto concerne questa forma, cfr. Dante, Quando il consiglio tra gli uccei si tenne, v. 7.

non ti menasse a·rriva: spingere, condurre allo stremo. La coniugazione del verbo all’imperfetto si giustifica a causa del suo valore potenziale all’interno di un contesto finale (“congiuntivo della finaità”, vd. G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Sintassi e formazione delle parole, pp. 68-69).

Cfr. F. Petrarca, Io non fu’ d’amar voi lassato unquancho, R.V.F. n. 82, v. 3; L’aspectata vertù che ’n voi fioriva, R.V.F. n. 104, v. 4; Qual più diversa et nova, R.V.F. n. 135, v. 29; Or che ’l ciel et la terra e ’l vento tace, R.V.F. n. 164, v. 12.

50. Prop. temporale con valore condizionale. Si intenda: ʻnel caso in cui la necessità (sogg.) dovesse presentarsi, accadereʼ.

51. non avendo da·tte: gerundio con valore causale. Si intenda: ʻdal momento che non possiedi nullaʼ.

per tôr del mio: prop. consecutiva correlata a menasse a riva. Si intenda: ʻa tal punto da indurti a rubare a me quanto io possiedo (del mio)ʼ.

52. Così,: cong. con funzione conclusiva.

cavar: lett. togliere. In questo frangente anche nel suo significato di “sottrarre”, “liberare” (vd. TLIO, cavare, 1.1).

Si noti l’antitesi con tôr del verso precedente. rio,: malvagio, disonesto, fonte di peccato.

53. iperbato teso ad evidenziare il concetto espresso dall’avverbio, creando di conseguenza una marcata opposizione contrastiva con rio del v. 52.

54-55. Si costruisca ed intenda: ʻed ogni eccedenza superflua alla tua sussistenza (avanzo fuor di tua vita) restituisci (rendi) ai poveri bisognosi (a chi ha fame o sete)ʼ.

54. Dal punto di vista metrico si applichi una dialefe dopo la congiunzione iniziale in posizione prevocalica.

avanzo: sostantivo; la rimanenza in eccesso di una determinata quantità (vd. TLIO, avanzo, 2; 3). Cfr. F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, 195, 495).

rendi: lett. restituire. Si vedano i vv. 16-18. Dal momento che l’uomo non gode della proprietà dei beni che Dio gli concede, egli è chiamato letteralmente a ʻri-dareʼ quanto non gli occorre. In questo contesto il verbo “rendere” allude anche al significato di “pagare il debito” (“rendere il debito”, cfr. D. Cavalca, Dialogo di san Gregorio volgarizzato, L. 2, cap. 30, 107).

Questo verbo esprime compiutamente il concetto fondamentale che giustifica la pratica dell’elemosina. Essa costituisce infatti il rimedio principale al vizio dell’avarizia; cfr. “la elemosina è contrario al vizio de l’avarizia;”, Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino, 1, 4; “E perocchè per l’elemosina e per la misericordia l’anima si monda del peccato, secondo quello che dice la Scrittura: Date l’elemosina, ed ogni cosa vi sarà monda.”, D. Cavalca, Specchio di croce, cap. 45, 210.

54. fuor di tua vita: sintatticamente dipendente da avanzo. Si intenda letteralmente: ʻfuori dalla tua vitaʼ (compl. di privazione); ovvero; ʻda quanto è necessario alla tua vitaʼ. A tal riguardo si vedano i vv. 26-28.

a chi ha fame e sete: i poveri. Cfr. “qui esuriunt et sitiunt”, Mt 5, 6; “Beati, qui nunc esuritis, quia saturabimini.”, Lc 6, 21.

56. ora: sostantivo in unione con l’aggettivo indefinito alcuna.

57. per l’anima: compl. di vantaggio. Come l’uomo deve lavorare per poter vivere materialmente, così deve nutrire e sostentare anche l’anima.

Si osservi, a tal proposito, il carattere altamente allusivo all’azione del pregare del temine ora del verso precedente; ora, quale latinismo inteso nel suo valore verbale di imperativo presente di seconda persona plurale: prega. Una pezza d’appoggio in favore di questa ipotesi interpretativa è offerta dal rimante di ora: lavora, rinviando così spontaneamente alla nota regola benedettina “orat et labora”.

58. con accusarti: costruzione di “con” e l’infinito avente un valore strumentale.

Lett. ʻriconoscendo i tuoi peccati al preteʼ: ovvero, ʻconfessandotiʼ. Il verbo accusare esprime infatti il significato di “riconoscere una colpa o un peccato a qno”, “denunciare”, “manifestare” (vd. TLIO, accusare, 1; 2). Oltre alla pratica dell’elemosina, Soldanieri ricorda dunque un’ulteriore ufficio fondamentale cui il ʻperfettoʼ cristiano deve adempiere: il sacramento della confessione.

spesso: frequentemente. Cfr. “La sesta condizione che dee avere la confessione, si è frequens; cioè a dire che si faccia spesso. E questo s’intende in due modi. L’uno si è ch’altri si confessi spesse volte per li peccati cotidiani ch’altri fa, e acciò che per lo indugiare non si dimentichi i peccati, e acciò che per la virtù delle chiavi che s’aopera sempre che ’l prete assolve, o la contrizione, se non fosse stata bene compiuta, si compia; o la grazia nella contrizione ricevuta, cresca; e ancora la pena dovuta per gli peccati, tra per la umiltà della confessione e per la erubescenza, cioè per la vergogna ch’è nel confessare, ch’è penosa, sì la scemi. E avvegna che ’l comandamento della Chiesa, il quale osservare è di necessitade di salute (…) obblighi pure a una volta a l’anno confessarsi; e questo è per la pasqua di Resurresso, quando ciascuno fedele cristiano, uomo o femmina, che sia in etade, si dee comunicare; tuttavia in certi casi, oltre a quella volta, è l’uomo tenuto di confessarsi: come sarebbe se l’uomo infermasse gravemente; o se l’uomo dovesse entrare in mare o in giusta battaglia; o andare in lontano paese dubbioso; (…). Fuori di questi casi non è l’uomo tenuto di necessità di salute confessarsi, se non quella volta; (…). L’altro modo che s’intende che la confessione si debba fare spesso, si è che quegli medesimi peccati spesse volte si riconfessino:”, J. Passavanti, Lo Specchio della vera penitenza, dist. 5, cap. 6, 151; “La sesta condizione si è, che dee essere fatta spesso, perciocchè spesso pecchiamo, e lo indugiare fa dimenticare molte cose: onde pogniamo che per lo statuto della Chiesa l’uomo sia tenuto di confessarsi almeno una volta l’anno, nientedimeno chi più n’ ha bisogno più spesso la dee fare. (…) E per un altro modo è da considerare lo quando, cioè se il peccato è vecchio, o novello: perciocchè l’uomo, che è stato nel peccato più tempo, è più da riprendere, non solamente per lo peccato, ma per lo tanto indugiare a tornare a Dio, e perchè, come già è detto, la confessione si dee fare spesso e avaccio.”, D. Cavalca, Specchio dei peccati, cap. 11, 93.

a·ppie’ del prete,: ʻinginocchiandosi ai piedi del preteʼ. Cfr. “Onde il quarto modo che il peccato si confessa, del quale principalmente dovemo parlare, è quando il peccatore, riconoscendo il suo peccato, si sottomette al ministro della Chiesa, cioè al prete, il quale ha a dispensare il sacramento della Penitenzia, per la quale si dà la remissione de’ peccati per la virtù della passione di Cristo, donde tutti i sacramenti traggono l’efficacia. E ciò fa il peccatore umiliandosi a’ piè del prete, e confessando vergognosamente e interamente il suo peccato.”, J. Passavanti, Lo Specchio della vera penitenza, dist. 5, cap. 2, 98.

59. Si intenda: ʻriconoscendoti colpevole dei peccati commessiʼ.

Questa ammissione di colpa costituisce il vero fulcro della confessione, senza la quale la remissione dei peccati non può essere concessa dall’officiante il sacramento. Dopo la denuncia dei peccati, il penitente deve dimostrare di provare un senso di colpa per quanto compiuto contro Dio.

Cfr. es. “L’altro modo che si perdonano i peccati veniali, si è tundo; cioè a dire per lo perquotesi il petto, rendendosi in colpa de’ suoi peccati.”, J. Passavanti, Lo Specchio della vera penitenza, dist. 5, cap. 7, 185.

In merito a questa costruzione del verbo rendere, ancora cfr. J. Passavanti, Lo Specchio della vera penitenza, dist. 5, cap. 6, 154; Anonimo, La Tavola ritonda o l’Istoria di Tristano, cap. 128, 500.

tuo: agg. possivo indeclinabile (vd. G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Morfologia, pp. 120).

60. attendendo: latinismo, < adtendĕre; considerare, porre mente, badare a qsa. Cfr. Dante Alighieri, Inf. XXX, vv. 60-61. Gerundio con un valore grammaticale equivalente ad un gerundio retto da preposizione (vd. G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Sintassi e formazione delle parole, pp. 109-110). In questo caso specifico il gerundio equivalente ad un potenziale “in attendendo”: ʻnella consapevolezza cheʼ.

ti colpa: ti possa colpire; da colpare, assalire (vd. TLIO, colpare, 1).

Per poter da superbia star remoto,