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Parte I. La comunità albanese di Calabria

2. Attentato e processo

Per ordine del re l’otto dicembre 1856 si tenne a Napoli una maestosa parata militare: i battaglioni avrebbero dovuto sfilare al cospetto di Ferdinando II per onorare la festa dell’Immacolata Concezione per la messa al Campo di Marte. Tra le truppe scelte vi fu anche il terzo battaglione Cacciatori di cui faceva parte Agesilao Milano. La condizione era propizia per portare a termine il suo piano: mentre stava sfilando, arrivato vicino al re si gettò su di lui con la baionetta colpendolo al fianco destro. Stava per infliggere un altro colpo quando il maggiore La Tour riuscì a bloccarlo. Ferdinando II, sfiorato solo dal primo colpo, ordinò che la parata continuasse e fece un’uscita pubblica anche nel pomeriggio per dimostrare il suo stato di salute.

Incarcerato immediatamente, Milano fu processato per direttissima. Già il 13 dicembre sul “Giornale del Regno delle Due Sicilie” apparve un articolo in cui si annunciava che il Consiglio di Guerra aveva condannato Milano alla pena di morte col quarto grado di pubblico esempio. Nell’archivio di Stato di Napoli sono conservati presso il fondo “Polizia” e “Borbone” i

31 Lettera di Carlo Avena al figlio Alberto in De Cesare R., La fine di un Regno, cit., pp. 206-207

documenti che permettono di comprendere come si sia arrivati a questa sentenza e come essa non fosse da considerarsi una conclusione di un fatto isolato, ma avesse aperto la strada a indagini e repressioni.

L’otto dicembre Milano, appena catturato, fu condotto nelle prigioni di Napoli. Gli fu accordato un termine di otto ore per poter preparare la difesa dal momento che si trattava di un giudizio marziale per direttissima. Dal resoconto del commissario del Re, tenente Carlo Bertini, si evince che Milano fu processato il nove dicembre ad opera del Consiglio di guerra del terzo battaglione Cacciatori. Il commissario procedeva dunque a ricostruire i precedenti dell’imputato: nonostante la sua militanza nel 1848 al seguito di Ignazio Ribotti, benché fosse stato già processato per sovversivismo nel 1852, fu ammesso alla leva come recluta non nella gendarmeria, che era mandata lontana da Napoli, ma vicino al re.33 Milano nella sua confessione

spiegava come aveva fatto ad ottenere una simile dislocazione:

io mi finsi idiota, appositamente per non essere scelto per la Gendarmeria, Corpo che manderebbe fallite tutte le mie meditazioni e speranze, sul sospetto, cioè, che essendo nella Gendarmeria, facilmente potrò essere spedito e destinato in diversi paesi lungi da Napoli e da’ luoghi ove il Re potrebbe farne dimora.34

Nel Resoconto il tenente Bertini diceva come però Milano non riuscì a lungo a dimostrarsi inabile e presto mostrò “di essere venuto a servire già iniziato al mestiere delle armi”, era comunque rispettoso dei superiori e “iniziato nelle lettere”. Mantenendo questo contegno, Milano riuscì ad organizzare indisturbato l’attentato: aveva stabilito che il momento propizio fosse la parata innanzi al re; aveva posto nella giberna una stagnarola – una cartuccia per caricare il fucile in assenza della bacchetta – e una capsula per poter sparare al re al momento propizio, ma poi le cose andarono diversamente. Agesilao nella sua deposizione spiegava:

non caricai fin dal quartiere la carabina, poiché ogni militare conosce, allorquando un Corpo di armata esce fuori dal Quartiere con l'arma, [che] si esegue all’ispezione; così, non potendola caricare allora, sperava caricarla sul Campo. Ma nel Campo ciò non ebbe effetto, perché la sopradetta stagnarola, nel marciare, si era avvolta dentro certe carte sotto due mazzi di cartucce, che i Battaglioni Cacciatori nella giuberna sempre portano; indarno ò potuto prenderla e ciò ad onta delle mie più ripetute ricerche; ed io allora, disperando fuggirmi il fortunato

33 ASN, Arch. Borbonico, fasc. 960/2, cc. 681-689. Compiuti ragguagli circa l’interrogatorio, il giudizio e l’esecuzione di Agesilao Milano

34 ASN, Arch. Pol., Gabinetto, anni 1854-1859, fasc. 1510, esp. 1487, vol. 2. Copia della deposizione autografa di Agesilao Milano.

istante, stimai bene avventarmi con la baionetta.35

Interrogato circa le motivazioni della sua azione rispose: “Ferdinando II è un tiranno e, per liberare la patria di un cotanto dispotico Sovrano, a tanto mi spinsero i continui gemiti ed i voti di tutta Italia”. Le convinzioni antiborboniche e l’idea del sacrificio salvifico, di cui Milano si era nutrito negli anni trascorsi al Collegio italo-greco, si concretizzarono dunque nel tentativo regicida. Acton parlando di Milano sostenne fosse un idealista e un visionario “intossicato da qualche nozione di storia romana e dagli scritti mazziniani”, tanto da vedere in Ferdinando II un novello Nerone o Caligola.36 Il sospetto era poi che avesse giovato dell’aiuto di qualche suo

connazionale. Si cercò quindi di fargli confessare i nomi dei complici o quanto meno chi fosse a conoscenza delle sue intenzioni, ma, nonostante fosse stato sottoposto a torture di vario tipo, sostenne sempre di aver agito autonomamente. Fu anche interrogato informalmente dal comandante del reggimento Real Macedone, Demetrio Lecca, arbëreshë amico di Milano, ma egli continuò a negare la partecipazione di altri. Lecca spazientitosi gli rimproverò di avere disonorato col suo atto le origini albanesi. Milano dal canto suo rinfacciò a Lecca la sua condizione di mercenario al servizio dei Borboni: “Tu disonori l’Albania non io che muoio per la felicità dei popoli!”.37

In considerazione della sua confessione, oltre che delle testimonianze oculari, il difensore d’ufficio non poté far altro che presentare l’imputato come un folle bisognoso di cure. Il Consiglio di guerra, posta la premeditazione escluse l’ipotesi della pazzia e condannò Milano al “laccio sulle forche” col quarto grado di pubblico esempio, previa degradazione.38

La mattina del 13 dicembre vi fu dunque l’esecuzione raccontata così dal prefetto di polizia Pasquale Governa:

Mi affretto a trascriverle per la dovuta intelligenza il seguente rapporto del Commissario Delegato delle prigioni relativo alla esecuzione della condanna di morte contro il noto Agesilao Milano. Alle dieci e mezza di questa mattina ha avuto luogo la esecuzione capitale di Agesilao Milano, ex soldato del 3° Battaglione Cacciatori, nel Largo Cavalcatoio, col 4° grado di pubblico esempio, dopo la degradazione militare: Egli si è mostrato contrito ma a bassa voce, ed in modo da essere inteso appena da qualcheduno de’ prossimi funzionari (quali sono 35 Ibidem

36 Campolieti G., Il re bomba. Ferdinando II, il Borbone di Napoli che per primo

lottò contro l’unità d’Italia, Milano, 2001, p. 397

37 In Bugliari F., Il sacrificio di Agesilao Milano, Roma, 1970, p. 6

38 ASN, Arch. Borbone, fasc. 960/2, cc. 681-689. Compiuti ragguagli circa l’interrogatorio, il giudizio e l’esecuzione di Agesilao Milano

stati gli Ispettori Angelillo e Montanini), senza punto avvertirsi dal pubblico, ha pronunziato: Viva Cristo, e la patria e la indipendenza. La maggior voce però degli assistenti confortatori ha sopraffatto queste parole. L’ordine vi è stato perfettamente serbato; e la generale esecrazione ha accompagnato l’uomo empio fino all’estremo respiro.39

Nessun accenno era fatto in queste righe all’indignazione che serpeggiò tra il pubblico a causa dell’estrema violenza e crudeltà perpetuata sull’imputato. In una lettera del conte Gropello, incaricato d’affari del Governo sardo, tale esecuzione era definita “triste reliquie dell’inumane forme dell’inquisizione spagnola”; il popolo impressionato cominciò a protestare e si arrivò a temere una sollevazione popolare tanto che “i gendarmi impugnarono le pistole e gli svizzeri si apparecchiavano a caricare il fucile”.40 D’altronde si credeva che il re avrebbe concesso la

grazia sovrana, ma questa non arrivò; Ferdinando II non avrebbe incoraggiato altri simili comportamenti con un suo atto di grazia.

La morte di Agesilao Milano non chiuse un momento del Regno delle Due Sicilie, bensì aprì un periodo di indagini e sospetti, che si ripercossero sulla comunità calabro-albanese. La Polizia borbonica era convinta infatti che ad istigare un suddito ad un tale atto doveva essere stata l’educazione impartita nel Collegio italo-greco, già noto alla polizia come “officina del diavolo”; inoltre si credeva che Milano non avesse agito da solo ma avesse avuto dei complici. Dopo solo pochi giorni dall’impiccagione del regicida cominciarono le indagini.