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Parte I. La comunità albanese di Calabria

3. Gli albori della pubblicistica calabro-albanese: “L’Albanese d’Italia”

3.3 Lingue antiche e riconoscimento politico

De Rada non si preoccupò solo di portare l’attenzione del discorso pubblico sulla questione religiosa, ma anche sulle esigenze legate all’istruzione e sulla divulgazione della cultura albanese ed arbëreshë. Come ha evidenziato Ernest Gellner, nel suo contributo “Nazioni e nazionalismo”, la cultura era centrale nella costruzione identitaria di una nazione dal momento che “al di fuori di essa [gli uomini] non [avrebbero potuto] realizzare la loro identità”; a maggior ragione la “cultura superiore” legata all’istruzione rappresentava “il nucleo” dell’identità e “la garanzia” di sopravvivenza e legittimazione di un popolo. L’affermazione culturale andava infatti di pari passo con l’affermazione politica.96 Se tutto ciò nel

caso della comunità calabro-albanese è vero, non può essere trascurata l’interazione culturale con il contesto italiano con il quale la comunità si trovava necessariamente a relazionarsi. Il dibattito politico e l’aspetto culturale erano fortemente connessi con il desiderio di integrazione e col timore dell’assimilazione. Veniva dunque stabilito un nesso di parentela tra la comunità arbëreshë e l’Italia, nesso grazie al quale era possibile portare all’attenzione pubblica le esigenze della comunità sfuggendo ad un contesto locale. In seno alle nuove istituzioni politiche la comunità cercò dunque di trovare una sua legittimazione e di ottenere dei vantaggi non solo in senso religioso – come si è visto – ma anche in ambito culturale.

Il 12 aprile 1848 fu aperta su “L’Albanese d’Italia” una petizione da presentare alla commissione incaricata di riorganizzare l’istruzione pubblica.97 La richiesta era di ricevere dei fondi per poter ampliare

l’edificio ospitante il Collegio di Sant’Adriano per fondare un nuovo edificio.98 Altrove venivano richiesti dei fondi per poter mantenere 96 Gellner E., Nazioni e nazionalismo, Roma 1992, p. 126. Gellner analizzava in particolare la transizione dalla società agraria a quella industriale. Dimostrava come le nuove esigenze culturali delle moderne società industriali portarono al sorgere del nazionalismo

97 Con decreto del 22 marzo Ferdinando II istituì una Commissione incaricata di presentare un progetto di legge per il riordinamento dell’Istruzione. Cfr.

Collezione delle Leggi e de’ Decreti e di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, II,

Napoli, 1861, p. 429

l’istruzione gratuita per la gioventù calabro-albanese.99 Oltre agli aspetti

puramente materiali, si cercava però anche un riconoscimento culturale:

che quel Collegio sia pur elevato al grado direi di seminario di professori di lingua greca, i quali vi convengano liberamente da tutta Italia e quindi con vece continua si spargano nelle università, ne’ licei e collegi del regno intero, e ci promuovan la pronunzia antica e ‘l vero gusto di quella divina favella la quale derivò dalle native regioni in questa Italia e vi rimase senza estranei elementi dal secolo XV sino ad ora in quel ritiro.100

L’elevazione del Collegio a Seminario era vista come un’opportunità che avrebbe aperto l’istituzione calabro-albanese al contesto culturale italiano, permettendo lo scambio di intellettuali su territorio nazionale e polarizzando l’attenzione sulla comunità come luogo di cultura classica. D’altronde uno degli aspetti sul quale il Collegio aveva puntato sin dalla direzione di Monsignor Francesco Bugliari alla fine del Settecento era di diventare un centro culturale. Era stato proprio Bugliari a riservare un posto centrale allo studio del greco. Dodici erano le classi inferiori, di cui una di francese, cinque d’italiano e latino, sei di greco. Lo scopo era di imparare a parlare speditamente il latino e comporre in modo corretto in lingua greca per poter accedere alle classi superiori. La biblioteca del Collegio vantava numerosi testi a stampa e manoscritti greci sulla liturgia di rito greco e di padri della chiesa – Origene, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino etc.–, classici per lo più greci – Polibio, Tucidide, Euripide, Lattanzio, Claudiano, raccolta di Poetae Graecae Veteres –, lexica di lingua latina, greca ed ebraica. In realtà a quanto risulta da una visita apostolica condotta da Pietro Matranga in Calabria durante gli anni ‘40 dell’Ottocento il Collegio visse un momento di profonda depressione per cui avrebbe necessitato di un restauro della biblioteca e di una riforma delle “belle lettere”.101 De Rada,

che sicuramente era a conoscenza di tale situazione, attraverso un appello alla Commissione preposta dal governo all’istruzione, pensava di favorire una ripresa dell’istituzione. D’altronde avere una scuola funzionante significa avere una formazione gerarchizzata e razionalizzata con libri di testo unici e materiali educativi che permettono di guidare gli orientamenti identitari di una comunità.102

In quest’ottica era avanzata, nella petizione presentata, un’altra richiesta:

99 “L’Albanese d’Italia”, 8 aprile 1848 100 “L’Albanese d’Italia”, 12 aprile 1848

101 Vacalebre N., Una biblioteca per li Albanesi di Calabria: da Sant’Adriano a S.

Demetrio, in “Culture del testo e del documento”, 2013, 87-132

102 Hobsbawm E., The Age of the Revolution (1789-1848), New York, 1964, pp. 166-167

che fosse promossa “la pronunzia antica” e “la divina favella” che si mantenne in Italia dal XV secolo intatta. Il riferimento era chiaramente alla lingua arbëresh definita come “divina” perché fedele ancora all’originaria lingua pelasgica il cui inizio si attribuiva direttamente all’intervento creatore di Dio.103 Fino a questo momento nel Collegio non era mai stato

previsto un insegnamento di lingua arbëreshë. La proposta avanzata da De Rada si allineava con il suo interesse – a queste date non si può ancora parlare di un progetto – di formazione e di standardizzazione di una lingua nazionale. Basti pensare che nel 1836 sul giornale letterario “Omnibus” uscì la sua prima pubblicazione delle “Poesie albanesi del XV secolo. Canti di Milosao, figlio del despota di Scutari” in lingua albanese ed italiana. Ancora su “L’Albanese d’Italia” pubblicò a puntate il canto XV dei “Canti storici albanesi di Serafina Thopia, moglie del principe Nicola Ducagino” anche questo in doppia lingua. A proposito del caso finlandese Hugh Seton- Watson notava come la ricostruzione della poesia epica popolare e la nascita di giornali, sui quali diffonderla, erano uno dei mezzi privilegiati per la standardizzazione linguistica. Da qui era possibile aprire la strada a rivendicazioni politiche.104 Così De Rada facendosi per la prima volta

portatore di una simile esigenza – voce che rimase comunque isolata per il momento – mirava alla formazione di un mezzo d’espressione indipendente dall’italiano ma che fosse comunque ad esso legato per antica tradizione e per vincolo di ospitalità. Per cercare di persuadere la Commissione di Pubblica istruzione ad accondiscendere a tali richieste, faceva leva sullo “italico spirito tanto aperto ad ogni nobile disciplina” e sull’ospitalità mai negata al popolo albanese.

In conclusione. Richieste di sostegno del nuovo governo alle istituzioni calabro-albanesi, proteste per la situazione economica-sociale, pubblicazione di poesie in lingua arbëresh con traduzione italiana sono la dimostrazione della volontà di diffondere e legittimare la doppia identità. Non bisogna inoltre sottovalutare la posizione privilegiata in cui si trovò la comunità: come ha notato Michel Bruneau, nella diaspora gli individui si trovano a vivere in una realtà a loro preesistente e cercano di adattarsi a questa realtà senza perdere la propria identità.105 Anche gli arbëreshë

quando giunsero nell’Italia Meridionale si trovarono a vivere questa stessa condizione, ma il movimento risorgimentale diede loro l’opportunità di

103 Basti ricordare che De Rada pubblicò nel 1843 un articolo dal titolo “Divinazioni pelasgiche” in cui ricostruiva alcune etimologie delle divinità dell’antica lingua partendo dai dialetti albanesi e dal greco.

104 Seton-Watson H., Nations and States. An Inquiry into the Origins of Nations

and the Politics of Nationalism, Boulder, 1977, p. 72

partecipare attivamente alla formazione di un nuovo stato nazionale dotato di una nuova identità alla quale loro stessi poterono dare un proprio contributo. Questo li rese partecipi di un duplice senso di appartenenza. In questo contesto coniugare le due identità significava di fatto legittimare l’uguaglianza e la naturale persistenza della comunità nel progetto della nazione italiana.

Ma quella che sembrava essere una svolta epocale, grazie alla quale concretizzare le proprie aspirazioni, si rivelò ben presto un fuoco fatuo: gli ideali di libertà e di eguaglianza, ai quali De Rada si appellò, furono messi a tacere in occasione dei fatti del 15 maggio e di ciò che ne seguì.

4. “… spargere tutto il nostro sangue per la Santa causa della libertà” Il 18 aprile 1848 nella parte continentale del Regno delle Due Sicilie si svolsero le votazioni per eleggere i deputati che avrebbero composto il Parlamento napoletano. La prima seduta era stata prevista per il 15 maggio. Il giorno precedente, però, i deputati liberali di orientamento democratico cercarono di convincere il re Ferdinando II a modificare parte della costituzione sulla quale avrebbero dovuto giurare. La notte tra il 14 e il 15, mentre si tentavano le ultime negoziazioni, furono innalzate delle barricate in via Toledo in prossimità di Palazzo Reale. Il re, a quel punto, fece arrestare i deputati Capitelli e Imbriani; lo scontro tra i liberali e le truppe borboniche fu inevitabile. Nello stesso giorno Ferdinando II sciolse il Parlamento e la Guardia Nazionale e, proclamato lo stato d’assedio, nominò un nuovo governo. La repressione fu feroce: si contarono circa cinquecento morti e altri riuscirono a fuggire trovando rifugio a Cosenza dove si organizzò una resistenza a carattere nazionale antiborbonico. Il 2 giugno Raffaele Valentini, Giuseppe Ricciardi, Domenico Mauro ed Eugenio de Riso fondarono il Comitato di Salute Pubblica “onde riprendere le deliberazioni interrotte in Napoli dalla forza brutale, e porre sotto l’egida dell’Assemblea Nazionale i sacri diritti del popolo Napolitano.”106

Il Comitato fu suddiviso in quattro dicasteri, Guerra, Interno, Giustizia e Finanze; al primo furono assegnati Giuseppe Ricciardi e Benedetto Musolino, al secondo Domenico Mauro, al terzo Francesco Federici e al

106 Proclama emanato dai fondatori del Comitato di Salute Pubblica. Agli abitanti

del Napoletano, i n Decisione della Gran Corte Speciale della Calabria Citeriore nel giudizio in contumacia di cospirazione ed attentati contro la sicurezza interna dello Stato commessi nelle Calabrie nell’anno 1848, Napoli,

quarto Stanislao Lupinacci. Giacinto De Sivo nella sua ricostruzione degli avvenimenti ricordava come i membri del Comitato, insieme ad altri liberali, avessero cercato di raccogliere quante più armi e denaro possibili per portare avanti la rivolta; andavano per i paesi della provincia cosentina al grido di “Viva l’Italia” e “Morte al tiranno” e sventolando il tricolore; costringevano gli uomini ad arruolarsi per l’atteso arrivo delle truppe borboniche e così riuscirono a riunire “nelle Calabrie ottomil’uomini, con un battaglione di Greci Albanesi”.107

Sin dal principio dunque Alessandro Mauro, con alcuni di S. Cosmo Albanese e con indosso la divisa della Guardia Nazionale, minacciava di incendiare la casa di quanti non avessero voluto unirsi ai suoi uomini.108 Si

temeva la controrivoluzione nei casali e i calabro-albanesi si diedero da fare per cercare di convertire i villaggi ancora fedeli alla monarchia. Francesco Saverio Tocci, arbëreshë di S. Cosmo Albanese, scrisse al fratello per informarlo che a Castrovillari vi era una “Compagnia Albanese nel numero quasi di 800 albanesi” e al suo arrivo a Cosenza si gridava “Viva gli Albanesi avanti al Palazzo d’Intendenza”. Tocci vantava di aver “convertito intimamente gli animi per la Santa Causa” e presentava come “svanito il timore della controrivoluzione”.109 Ancora Muzio Pace, arbëreshë di

Frascineto e Sottintendente del circondario di Castrovillari, per l’organizzazione di un corpo armato il 4 giugno scrisse una lettera al capo della Guardia Nazionale di Terranova per incitarlo a sostenere il neonato Comitato:

Signore, le atrocità commesse in Napoli dal più pessimo dei Governi han destato la universale indignazione. Tutti i popoli delle Calabrie di concerto ai nostri fratelli di Sicilia han risoluto di ricorrere alla Suprema Ragione delle Armi per tutelare i Sacri dritti della Nazione. È tempo ormai di mostrarsi non degenerosi figli di que' Brazi valorosi che seppero un tempo si generosamente frangere le loro catene; la capitale della nostra Provincia ha già stabilito un Governo provvisorio; e colà sarà ridotto il Parlamento Nazionale interrotto in Napoli dalla forza brutale. Su via destiamoci, né esitiamo un sol momento a spargere tutto il nostro sangue per la Santa causa della libertà. Le Guardie Nazionali sien pronte ad ogni cenno, ed intanto Ella in ricevere la presente senza perdere un sol momento si trasferirà qui 107 De Sivo G., Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, II, Roma, 1864, pp. 13-

18

108 ASN, Ministero di Polizia generale. Seconda Numerazione. Fascio 3200 VI, Esp. 238, vol. 15 par. 15. Cosenza, 10 agosto 1848: lettera dell'Intendente della Calabria Citeriore al Ministero di Polizia

109 Lettera di Francesco Saverio Tocci a Guglielmo Tocci. Spezzano, 15 giugno 1848. in Graziani E., La storia della Calabria nel XIX secolo. Gli arbëreshë e

per sentire le analoghe disposizioni e quant'altro convenga nelle presenti circostanze.110

Si cominciarono dunque a radunare uomini per affrontare l’atteso attacco delle truppe borboniche. La risposta armata dei patrioti avrebbe seguito un ideale più alto: “tutelare i Sacri dritti della Nazione”, diritti che si configuravano, in questo contesto, con la libertà di avere un governo votato dal popolo ed espressione di esso. Non si tratta dunque del “diritto della nazione”, di cui si dibatteva altrove in Italia,111 ma della realizzazione delle

aspettative della natio. Se questo non era possibile a Napoli, sotto il diretto comando del sovrano, sarebbe stato possibile in Calabria. Era dunque chiarito da Muzio Pace: il popolo era invitato ad unirsi per versare il proprio sangue “per la Santa causa della libertà”.112 Questo fu il comune

obiettivo dei “fratelli” di Calabria e di Sicilia. Si veniva a creare una nuova retorica circa la posizione siciliana rispetto ai fatti del Quarantotto.

Quella che nei primi mesi era stata presentata come “questione siciliana” da gestire in ottica monarchica costituzionale, dopo i fatti del 15 maggio, divenne un’opportunità alla quale appellarsi: il Comitato cosentino nell’attesa della reazione regia collegò la propria attività antiborbonica alla rivoluzione isolana. Fu chiesto dunque “ai generosi fratelli di Sicilia” l’invio di una truppa che potesse sostenere la rivolta di Calabria.113 Fu

dunque mandato da Palermo un piccolo esercito di cinquecento siciliani alla guida di Ignazio Ribotti de Molières114; sbarcato a Paola con i suoi

uomini il 17 giugno fu insignito dal Comitato di Pubblica Sicurezza del titolo di “generale in capo di tutte le forze attive” nella provincia cosentina.115

Nel frattempo erano giunte le truppe borboniche al comando del generale Busacca e si erano stanziate a Castrovillari. “Il grosso delle bande

110 ASN, Ministero di Polizia generale. Seconda Numerazione. Fascio 3200 VI, Esp. 238, vol. 15 par. 14. Allegato 1: Castrovillari, 4 giugno 1848. Dal Sottintendente Muzio Pace al Capo della Guardia Nazionale di Terranova – Per Copia conforme Il Maggiore dello Stato Maggiore Alessandro Nunziante 111 Banti A.M., Il Risorgimento italiano, Bari, 2008, pp. 90-91

112 Sulla questione del rapporto tra diritti e funzione del sovrano cfr. Costa P.,

Diritti/Doveri, in Banti A.M.- Chiavistelli A. - Mannori L. - Meriggi M., Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità, Bari, 2011, pp. 278-281

113 Agli abitanti del Napoletano, in Decisione della Gran Corte Speciale della

Calabria Citeriore, cit.

114 Del Negro P., Ribotti di Molières Ignazio, s.v., in DBI

115 In Ricciardi G., Una pagina del 1848, ovvero storia documentata della

Albanesi” al comando di Domenico Mauro si posizionò sulle colline alle spalle di Castrovillari. A Campotenese si trovavano altri calabresi mentre a Spezzano Albanese si stanziò Ribotti con la truppa calabro-sicula.116

Benedetto Musolino nelle sue memorie ricorda come sembrasse che Castrovillari dovesse essere velocemente attaccata e le truppe regie sconfitte. Passarono invece molti giorni perché Ribotti, non fidandosi dei suoi uomini e sapendo di avere un contingente esiguo, non si decise ad attaccare. In più la povertà dell’erario e il ritardo nel pagamento dei soldati volontari portò ad un ammutinamento. Il corpo di Campotenese “si disciolse tornando ogni volontario alla propria casa”. Anche Ribotti abbandonò Spezzano e rimasero a presidare le truppe per lo più le squadre di calabro-albanesi.117