Parte I. La comunità albanese di Calabria
3. Gli albori della pubblicistica calabro-albanese: “L’Albanese d’Italia”
3.1 Il “Programma” de “L’Albanese d’Italia”
Nel primo numero de “L’Albanese d’Italia”, apparso il 23 febbraio 1848, De Rada pubblicò uno scritto programmatico, volto a giustificare il titolo del giornale. Ripercorreva dunque i momenti storici in cui la storia d’Italia e quella “del settentrione della Grecia” si erano incontrati. Cominciava con il ricordare che sin da tempi antichissimi la penisola italica e le regioni balcaniche meridionali erano state abitate dal medesimo popolo. Successivamente l’Italia subì alcune invasioni che portarono alla nascita della potenza di Roma mentre “su l’altra banda dell’Adriatico era tuttavia superstite l’antica stirpe”. Vi era una ripresa della costruzione mitopoietica pelasgica, sviluppata dagli intellettuali arbëreshë di Calabria e di Sicilia, alla quale De Rada aveva dato un contributo sin dal 1843, come si è visto.84
Ad ulteriore dimostrazione del “sentimento di antica fraternità e comune fede [che] univa all’Epiro l’Esperia”, De Rada citava i famosi versi del terzo libro dell’Eneide in cui ad Eleno, figlio di Priamo, che aveva profetizzato il suo destino, Enea esprimeva l’auspicio che “i popoli vicini d’Epiro e d’Esperia” divenissero un’unica terra. Questo passo già adoperato da Angelo Masci,85 fu ripreso da De Rada con una nuova 82 Ibidem, pp. 7-8
83 La collezione quasi completa di questa testata è stata ripubblicata nel 2014 a cura di Francesco Altimari che è riuscito a reperire la maggior parte dei numeri nell’archivio privato di casa “De Marco-Risoli” a Lungro
84 Sull’interesse di De Rada per la questione pelasgica cfr. Supra, pp. 24-27. Per la costruzione mitopoietica interna alla comunità ed in relazione agli studi europei cfr. Supra, pp. 18-35 e Infra, pp. 254-268
interpretazione: l’Esperia non era più il Regno delle Due Sicilie, ma l’Italia; l’Epiro rappresentava ancora gli antichi albanesi che nel Medioevo, arrivati gli Ottomani nei Balcani, furono costretti ad emigrare nel Sud Italia per sfuggire alla violenza musulmana.
Allora l’Italia era sottomessa a “tiranni e fazioni”; per secoli aveva atteso, e con essa anche i popoli arbëreshë, “il giorno consolatore”. “E questo dì è già fatto per l’Italia”, il giorno in cui, concesso lo Statuto, era possibile gioire per la ritrovata libertà e si prospettava l’idea di una Italia unita. Questa speranza si rifletteva, secondo De Rada, anche sulla comunità arbëreshë che riempiva “oggi noi anche di bella speme su la sorte dell’Albania, e poi dal ridestato amore dell’alto vivere italo-greco”. Per quanto “L’Albanese d’Italia” rappresentasse principalmente la realtà politica della penisola e le esigenze della comunità arbëreshë di Calabria, in questa affermazione è possibile intravedere una prima prospettiva nazionale albanese.86 Alcuni tra gli albanesi d’Italia, infatti, partecipando al modo
nazionale italiano, prospettavano un’analoga emancipazione nazionale anche per i popoli d’ Albania. Non va d’altronde dimenticato che De Rada fu uno dei primi intellettuali tra gli anni ‘70 ed ‘80 del XIX secolo ad impegnarsi in favore delle aspirazioni nazionali dell’Albania.87
Dunque concludeva prospettando il ruolo degli “Albanesi” nei recenti fatti politici:
Né la libertà, sì cara a petti Albanesi, scemerà mai in noi gli altri sentimenti che ci hanno fatto l’ospitalità e la cittadinanza donataci con tanto amore da questo paese. Ma sulle leggi di Napoli e sugli statuti suoi non mai disgiungeremo il nostro consiglio da quello delle Sicilie, poiché omai nel fatto le comuni prove ed aspirazioni gagliarde, la consanguineità e la gratitudine ci legano in quelle indissolubilmente. E giacché la nazione grata alla magnanimità del principe ama l’inviolabilità delle sue prerogative, noi memori de’ privilegi onde il trono ci sostenne sin dal primo tempo, le difenderemo fedeli: come da buoni ospiti ed amici parleremo con calma ed amore la ragione che tutti i cittadini hanno eguale alla parte concessa: ma preferendo nell’affetto i poveri, i deboli e i sofferenti, cui
505
86 Proprio per questo è stato definito come “il primo giornale albanese”. Altimari F., Presentazione, in Altimari F. (a cura), L’albanese d’Italia. Giornale politico
morale letterario fondato e diretto da Girolamo De Rada, ristampa anastatica,
Soveria Mannelli, 2014, pp. 5-6
87 Cuccurullo L., Fiamuri arberit (1883-1887): un periodico arbëreshë per la
costruzione identitaria albanese tra risorgimento italiano e decadenza dell’impero ottomano, in Conte G.-Filioli Uranio F. - Torreggiani V.- Zaccaro
F. (a cura), Imperia. Lo spazio mediterraneo dal mondo antico all’età
prediligge [sic] la Chiesa comune madre.
La posizione che emerge non è univoca: De Rada sosteneva infatti di appoggiare la monarchia borbonica per motivi storici di riconoscenza ed ospitalità ma allo stesso tempo affermava la necessità di appoggiare la Sicilia che si era chiaramente schierata contro la Costituzione borbonica e desiderava svincolarsi dal controllo napoletano. Con la Sicilia De Rada riconosceva d’altronde un legame basato sulla comunanza di aspirazioni, “consanguineità e gratitudine”. Nel testo proposto gli “Albanesi” sono identificati come “ospiti e amici”; il fatto che parlasse di “consanguineità” fa supporre che si riferisse ai siculo-albanesi che ebbero un’esperienza del Quarontotto profondamente differente dai calabro-albanesi, ma non è comunque specificato. La “comunanza di aspirazioni” è invece chiarita nell’articolo “Italia” dove De Rada sosteneva che ignorare “la separazione della Sicilia” non fosse di “mente sana” dal momento che era un evidente impedimento in vista del progetto dell’unificazione d’Italia.88
A queste connotazioni identitarie e nazionali, De Rada aggiungeva un nuovo nesso, “la Chiesa comune madre”. Le indicazioni della chiesa cattolica erano ritenute prioritarie rispetto alle decisioni regali: per quanto le posizioni monarchiche andassero difese per antica riconoscenza, la guida dei nuovi tempi era rappresentata dalla Chiesa cattolica e dalla sua difesa degli strati più deboli della società. D’altronde De Rada aveva abbracciato la parte neoguelfa sostenendo che l’Italia unita sarebbe stata possibile solo sotto la guida della Chiesa di Roma e di Pio IX. Commentando la lettera inviata da Mazzini al papa Mastei Ferretti l’8 settembre 1847, De Rada sosteneva che la Chiesa, “mantenendo la sua fede integra” e facendo “accettare il dogma con le sue conseguenze sublimi per la vita” al popolo italiano, avrebbe ottenuto il “primato morale; perché il tempo è questo delle aspirazioni universali a quel grande vivere cristiano”.89
Il programma preposto da De Rada al suo giornale appare sui generis: non si ha infatti una definizione degli obiettivi pubblicistici. Sembra piuttosto esserci la preoccupazione di giustificare storicamente la presenza della comunità arbëresh sul territorio del Regno delle Due Sicilie e del nascente stato italiano. Se infatti per l’antichità è possibile definire una costruzione mitica di fratellanza, nell’epoca moderna è messa in evidenza la dimensione diasporica e la condizione degli arbëreshë di “amici e ospiti” del popolo italiano. In nome di questo rapporto è giustificata la condivisione dei fatti politici in vista dell’unità d’Italia: De Rada e i suoi collaboratori si impegnarono costantemente in articoli dedicati all’analisi
88 “L’Albanese d’Italia”, 29 marzo 1848 89 “L’Albanese d’Italia”, 10 maggio 1848
degli avvenimenti politici e della cronaca interna ed estera. Ma la dimensione diasporica portò con sé una connotazione identitaria caratterizzante che divenne centrale ne “L’Albanese d’Italia”.
3.2 “noi peregrini nella terra fortunata d’Italia”: diaspora e religione
La ricezione e la rielaborazione del discorso nazionale per una rivendicazione di legittimazione di un’alterità culturale e religiosa erano gli obiettivi che si propose De Rada nel suo giornale. Se da un lato si nota la volontà di appartenere al nuovo stato nascente, dall’altro era evidente lo sforzo di definizione delle peculiarità identitarie della comunità. Tali peculiarità erano declinate principalmente attraverso i canali istituzionali ed erano presentate all’esterno e all’interno della comunità per delineare il confine tra integrazione e preservazione.
A preoccupare gli intellettuali della comunità era l’inesorabile destino di assimilazione a cui gli arbëreshë sembravano avviati. Di ciò si incolpava la politica portata avanti dagli Aragonesi all’arrivo delle popolazioni balcaniche in seguito all’invasione degli Ottomani nel XV secolo: secondo gli intellettuali arbëreshë, l’essere “dispersi” tra la Sicilia, le Calabrie, le Puglie e la Capitanata, la formazione di enclavi nella terra ospite erano stati tentativi di assimilazione. Effettivamente molti furono i paesi di origine arbëreshë a perdere nel tempo lingua e religione.
Con le rivoluzioni del 1848 sembrava prospettarsi però un periodo di libertà ed uguaglianza che apriva la strada a richieste e rivendicazioni. De Rada si fece portavoce dei “villaggi Albanesi” e in particolare di quelli che avevano perso nei secoli il rito greco. Presentava dunque al nuovo governo “Un voto degli Albanesi” con cui chiedeva al re di intercedere presso il Papa affinché fossero aperte presso i villaggi albanesi di rito latino delle “chiese greche cattoliche romane” dove iniziare “liberamente i figli e le figlie nella religione de’ padri loro, perduta per l’errore e l’ingiustizia de’ passati Vescovi”. Come si è visto, lo scontro locale tra vescovi latini e la comunità di rito greco risaliva alle prime migrazioni delle popolazioni albanesi nell’Italia Meridionale.
Il problema sostanziale era che i papas di rito greco dovevano essere ordinati dai vescovi di rito latino attraverso le lettere dimissoriali.90 Spesso
però tali lettere erano negate con vari pretesti. Questo aveva portato nei secoli alla scomparsa del rito greco in alcuni paesi calabro-albanesi per mancanza di sacerdoti. Si riteneva dunque che, in momento storico ispirato da ideali di libertà, fosse giunto il momento di intervenire contro le
ingiustizie del passato.
S. Bernardo scrivendo de’ Vescovi del suo tempo ci dava di essi questo completo ritratto: In his avaritia regnat, ambitio imperat, dominatur superbia, sedet
iniquitas. Perfettissime copie a me sembrano anzi gli originali stessi in persona,
alcuni patriarchi di oggi.91
Il 29 marzo 1848 apparve un articolo dal titolo “Necessità di riforme su l’Ecclesiastico”, un’accusa contro la corruzione dei Vescovi. L’autore – che si firmava con le sole iniziali L.B. – denunciava “l’avaritia” che spingeva questi a chiedere denaro “su ciò che debbono gratuitamente dispensare”: mostrava come i vescovi chiedessero cifre assolutamente esose per le lettere dimissoriali e per l’ordinamento dei sacerdoti, cifre proibitive per le persone più povere che aspiravano alla carriera ecclesiastica. Se un simile comportamento scorretto aveva ripercussioni sui singoli individui, nel caso del clero di rito greco si inseriva sulla questione della sopravvivenza identitaria della comunità arbëresh. D’altronde in più di un’occasione i vescovi latini cercarono di evitare il loro dovere di ordinare i papas nel tentativo di assimilare i paesi albanesi al rito latino.92
Per sfuggire a questa dipendenza Vincenzo Dorsa, papas e intellettuale arbëreshë, sostenne la necessità di fondare una diocesi di rito greco in Calabria e per questo si rivolgeva al nuovo governo e a Pio IX, “vero padre della civiltà e della Religione”: nel 1848 la provincia di Cosenza contava trentamila albanesi di rito greco sotto la giurisdizione di quattro diocesi di rito latino; secondo Dorsa tale dipendenza aveva impedito nei secoli “il regolare procedere dell’amministrazione religiosa”. Per questo si rivolgeva a Pio IX, “quel grande che rigenera il mondo con la Croce”. La situazione era migliorata quando, con l’impegno di Rodotà, nel 1732 fu fondato il Collegio italo-greco di Sant’Adriano e fu nominato un vescovo di rito greco, dal momento che per gli alunni del Collegio bastavano le lettere testimoniali per l’ordinamento sacerdotale. La fondazione di una diocesi di rito greco, però, avrebbe permesso l’emancipazione religiosa della comunità in seno alla chiesa di Roma.93 Dorsa ci teneva a mostrare che era
falsa l’accusa mossa ai calabro-albanesi di volersi svincolare dal controllo
91 “L’Albanese d’Italia”, 29 marzo 1848
92 Veneziano G., Contrasti confessionali ed ecclesiastici, cit., pp. 89-116
93 Solo nel XX secolo si decise di fondare una diocesi di rito greco sottoposta ad un vescovo del medesimo rito con pieni poteri territoriali: Benedetto XV con la bolla “Catholici fideles” del 13 febbraio 1919 eresse “l’eparchia di Lungro degli albanesi dell’Italia continentale” cfr. Korolevskij C., L’Eparchia di
Lungro nel 1921. Relazione e note di viaggio, Parenti S. (a cura), Rende (CS),
dei vescovi latini per poter riferirsi alla chiesa ortodossa orientale. Tale accusa sarebbe stata sostenuta dalla parte latina nel tempo per gettare discredito sul rito greco.94 Invitava dunque i calabro-albanesi a mostrare
come l’unico motivo per rivendicare i propri diritti religiosi era l’affetto verso l’Albania, “antica patria […] quell’affetto incancellabile che lega noi peregrini nella terra fortunata d’Italia, terra sorella”. Il desiderio di preservare la religione non entrava dunque in contrasto con l’appartenenza al paese ospite. Infatti Dorsa scriveva di muovere una simile richiesta per “amor della nazione” cui apparteneva ma sottolineava come questa “nazione” appartenesse ormai da quattro secoli “alla grande famiglia Italiana”. Un rapporto di fratellanza univa dunque l’Italia e l’Albania ed in virtù della nuova prospettiva nazionale italiana gli arbëreshë potevano riaffermare la loro identità.
D’altronde non si può trascurare il coinvolgimento nello spirito rivoluzionario che traspare su “L’Albanese d’Italia”: il 18 marzo 1848 De Rada pubblicò un’omelia pronunciata proprio da Vincenzo Dorsa in cui si inneggiava alla “Italiana Libertà”.
Cittadini, la mia voce non è che l’eco della voce universale: è tutta Italia che ci invita e ci chiama fratelli; fratelli innanzi la Croce, fratelli innanzi alla Patria. […] La causa pubblica è santa come la Fede; e gli interessi privati devon tacere, devono assimilarsi all’interesse pubblico; perché ormai non siamo più schiavi addetti solamente, come bruti, a procurarci il cibo e a bagnar di sudore le zolle. Ora siam tutti una sola famiglia, padri e figli, fratelli, e l’eguaglianza da compiersi a proporzione del merito vero è la norma inviolabile che deve guidarci a sostenerci nell’ottenuta Libertà.
È interessante notare la ripresa dantesca della celebre terzina del canto di Ulisse – “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Inf. XXVI, vv. 118-120) – che dimostra un allineamento intellettuale con l’ermeneutica dell’opera di Dante in nome della costruzione identitaria italiana nel corso dell’Ottocento.95 Proprio in nome
dell’Italia, Dorsa invita il popolo a muoversi: fare l’Italia vuol dire soddisfare il vincolo di fratellanza. La croce e la patria sono i due emblemi che danno ispirazione e a cui bisogna tendere. “L’interesse pubblico” deve perseguire la libertà e l’uguaglianza che da essa deriva.
94 Per una problematizzazione cfr. Peri V., Presenza e identità religiosa degli
Albanesi d’Italia prima della riforma tridentina, in “Oriente Cristiano”, 1980,
pp. 9-41
95 De Michelis I., Dante nel Risorgimento: letture riformate, in “Dante”, 2012, pp. 153-162; Audeh A., Dante in the Long Nineteenth-century: Nationality,
In questi principi venivano dunque ad inquadrarsi le richieste della comunità calabro-albanese, insistendo sul legame di fratellanza per l’antica permanenza sul suolo italiano.