Parte I. La comunità albanese di Calabria
5. Agesilao Milano: eroe o attentatore?
1.2 La partecipazione calabro-albanese alla liberazione della Calabria
garibaldini vi erano anche i fratelli Domenico e Raffaele Mauro, i fratelli Francesco e Vincenzo Sprovieri e Domenico Damis. Dopo la conquista della Sicilia, le fila dei Mille, passate sul continente, furono ingrossate dalla popolazione calabrese che vide in Garibaldi il liberatore. I calabro- albanesi partiti dalla Liguria si adoperarono per mobilitare i loro connazionali: da S. Demetrio arrivarono centocinquanta volontari; da S. Benedetto Ullano cinquecento abitanti tra cui Giovanni Mosciaro, ritornato dall’esilio, che tanta parte aveva avuto nel movimento nazionale locale; da Lungro altri cinquecento; a Spezzano Albanese si organizzò un battaglione di centotrenta volontari; da S. Giorgio altri centotrenta uomini; altri ancora accorsero dai vari villaggi albanesi.11 Tutti questi conversero a Spezzano
dove era atteso il passaggio del Generale.
Luigi Cairoli, uno dei Mille e terzogenito di Carlo e Adelaide Bono, in una lettera alla madre del 13 settembre raccontò dell’accoglienza riservata a Garibaldi dalla comunità arbëreshë:
Garibaldi fu accolto dalle donne di Spezzano che, intrecciata la ridda nazionale, si misero a cantare un inno greco popolare nel quale erano portate al cielo le gesta di Garibaldi, il quale veniva paragonato all’eroe nazionale Scanderbek, ed infine 11 Serra A., L’itinerario di Garibaldi da Cosenza a Marina di Tortora durante la
spedizione dei Mille alla luce dei nuovi documenti storici, in Atti del secondo congresso storico calabrese, Napoli, 1961, pp. 319-332
trovato superiore a questo. […] figli di quei generosi che preferirono l’esilio alla servitù, qui nell’ultima classe del popolo trovi impresso il sentimento della dignità umana e della indifferenza di qualsiasi giogo, in un modo sorprendente […] Qui lingua, od almeno dialetto, tipo di fisionomia, costumi, abitudini, rito religioso, tradizioni, letteratura (perché qui v’ha una letteratura popolare), tutto è greco; la devozione alla patria adottiva italiana grandissima.12
Cairoli nella sua lettera metteva in evidenza le peculiarità identitarie della popolazione albanese. Sembra significativo che le donne accogliessero l’eroe della nascente nazione italiana con la “vala”, ossia canti e balli propri della tradizione arbëreshë13 – che nel documento sono descritti come greci
probabilmente perché non se ne conosceva la reale origine – e che fossero portati elementi propri della memoria storica albanese come Scanderbeg. Il patriota patavino, evidentemente colpito da queste usanze, non poteva mancare di sottolineare come questa comunità avesse una “lingua, tipo di fisionomia, costumi, abitudini, rito religioso, tradizioni, letteratura” proprie. Per quanto il dibattito risorgimentale avesse insistito sulla genuinità di lingua, costumi, origine per l’appartenenza alla nazione italiana, per Cairoli non sembra che la diversità culturale e religiosa rappresentasse un ostacolo: sottolineava anzi come questo popolo avesse dimostrato storicamente di preferire l’esilio alla schiavitù. Cairoli si riferiva alla scelta delle popolazioni dell’Arberia di scappare dalla propria terra natale di fronte alla conquista ottomana alla ricerca di una terra in cui poter praticare la libertà piuttosto di sottomettersi ai conquistatori. Questo dato era la dimostrazione dell’indole audace di questo popolo che a distanza di secoli, nel paese ospite, aveva fatto la medesima scelta di libertà perché “ la devozione alla patria adottiva italiana [era] grandissima”.
L’attaccamento quasi sacro all’idea nazionale era stato variamente dimostrato nel periodo pre-risorgimentale dai patrioti di origine albanese. I tentativi insurrezionali, le azioni culturali, volte a costruire un posto nel disegno della nuova nazione, erano tutte rivolte alla prospettiva italiana. D’altronde non pochi erano quelli che credevano che un progetto più alto vi fosse per l’Italia: come scrisse il patriota Nicola Tarsia – intellettuale arbëreshë e uno dei protagonisti del risorgimento calabrese – il 15 agosto 1860, quando vicini erano ormai i Mille, nel sonetto, “Alla Grande Madre di Dio in cielo assunta”, fu Maria la vera ispiratrice d’Italia; fu lei a guidare i passi di Garibaldi, “guerriero sovrano”, al quale commissionò il “riscatto d’Italia”.14
12 Rosi M., I Cairoli, Torino, 1908, pp. 346-347
13 Cfr. Supra, p. 67. Bragaglia A.G., Danze popolari italiane, Roma, 1950, pp. 268-272
Se, dunque, la prospettiva nazionale aveva spinto alcuni intellettuali arbëreshë ad abbracciare la causa nazionale, i ceti contadini della comunità erano stati convinti a seguire le tendenze unitarie per altri motivi:
[…] e vedevamo noi stessi quei bravi popolani, nella mente dei quali la redenzione della patria veniva a concretarsi in quella del proprio Comune, infiggere alla punta di ferro delle picche di legno colorate, armi da loro improvvisate, una supplica al liberatore d’Italia per la revindica del loro demanio.15
Nelle sue memorie storico-legali per alcuni comuni albanesi della provincia di Cosenza, Gugliemo Tocci, uno dei testimoni dei fatti risorgimentali presso la comunità e parlamentare dell’Italia Unita, raccontava l’impegno e l’entusiasmo delle popolazioni albanesi di fronte alla chiamata alle armi di Garibaldi. Però le speranze, che avevano animato la popolazione, non solo arbëreshë, ma calabrese tutta, durante le rivolte del ‘48, non si erano assopite.
Le masse contadine erano mosse dall’antica fame di terra, dal desiderio di vedere soddisfatta la necessità di sottrarsi al sistema feudale gestito dai baroni per poter ottenere un pezzo di terra. Oltre agli ancora arcaici rapporti socio-economici tra latifondisti e piccoli e medi ceti, ad accentuare le ingiustizie sociali vi erano le imposizioni fiscali indirette che pesavano sui piccoli agricoltori e sui braccianti. Il tentativo svolto nel decennio francese di porre fine a queste dinamiche locali non trovò continuità nel periodo borbonico. Anzi dopo la Restaurazione si assisté ad una polarizzazione per cui da una lato si affermarono nuovi proprietari terrieri di origine borghese, mentre dall’altro si ingrossò la classe dei braccianti giornalieri e coloni parziari a causa dell’inasprimento delle clausole economiche dei contratti di affitto.16 La popolazione, come già in precedenza, legava la soluzione del
problema sociale ed economico all’obiettivo nazionale e per questo partecipò entusiasta alla guerra d’indipendenza, identificando in Garibaldi il portatore di libertà ed eguaglianza sociale.
15 Tocci G., Memorie storico-legali per i comuni albanesi di S. Giorgio,
Vaccarizzo, S. Cosmo, S. Demetrio e Macchia nelle due cause di scioglimento di promiscuità col comune di Acri : con note e documenti storici, Cosenza,
1865, n. 1 p. 6
16 Misefari E., Storia sociale della Calabria. Popolo, classi dominanti, forme di
resistenza dagli inizi dell’età moderna al XIX secolo, Milano, 1976, pp. 280-