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Parte I. La comunità albanese di Calabria

2. Alfabetizzazione politica: questione sociale e rituali pubblici

2.2 Simboli e rituali pubblici

Nel 1848 le dinamiche tra autorità civili ed ecclesiastiche sembrano ricalcare i rapporti affermatisi nel passato: la parte civile riconosceva la natura cristiana della società per cui era necessario giustificare le proprie scelte attraverso l’intervento e il volere divino.58 Per questo motivo i nuovi

regimi politici dovevano essere legittimati attraverso celebrazioni liturgiche pubbliche. Così le costituzioni del 1848 e la formazione di nuovi governi cittadini ricevevano una sanzione religiosa che determinava la sacralizzazione del potere pubblico.

Alessio Petrizzo, nei suoi studi sui rituali pubblici nel Quarantotto, ha messo in luce come le celebrazioni e le feste pubbliche fossero ambivalenti. Se da un lato l’intento ufficiale era di omaggiare il sovrano e le sue benigne concessioni, dall’altro si voleva avvalorare un nuovo protagonista politico da identificarsi con l’opinione pubblica liberale. Così nelle celebrazioni

56 Mauro D., Vittorio Emanuele e Mazzini, Genova, 1851, pp. 164-168

57 A proposito delle idee “comuniste” in Calabria nel 1848 cfr. Pedio T.,

Contadini e galantuomini nelle province del Mezzogiorno d’Italia durante i moti del 1848, Matera, 1963, pp. 31-45; Quazza G., La paura del comunismo Napoli nel 1848-49, in “Nuova Rivista Storica”, 1948, pp. 217-231; Soldani S., Contadini, operai e “popolo” nella rivoluzione del 1848-49 in Italia, in “Studi

storici”, 1973, pp. 557-613

58 Camaiani P.G., Dallo stato cittadino alla città bianca. La “società cristiana”

liturgiche il clero si muoveva nella sfera della ritualità tradizionale, ma allo stesso tempo affiancava dei simboli e adoperava un lessico che, allontanandosi dalla consuetudine, contribuivano al riconoscimento del soggetto nazionale.59

Così nel Regno delle Due Sicilie, dopo la concessione della Costituzione, furono organizzate liturgie per festeggiare la magnanimità del sovrano. A Napoli fu Ferdinando II stesso a rendersi protagonista delle celebrazioni ordinando che fosse ovunque intonato il Te Deum in suo onore.60 Ma anche

nelle zone rurali si assisté all’organizzazione spontanea di cerimonie. Sul primo numero de “L’Albanese d’Italia” si dava notizia dei festeggiamenti che si tennero nei “paesi Albanesi del distretto di Rossano” all’indomani della concessione dello Statuto:

Noi avevamo la nuova della costituzione al 1 di febbraio verso le otto della sera, e subito ne demmo il segnale con lieti spari di fucile. All’indomani, giorno della Candelora alla messa cantata si benedisse la bandiera de’ tre colori Italiani, segni di Fede, di Speranza e di Amore: mentre da fuora per tutto il tempo della messa rintronavano i mortaretti. Benedetta la bandiera, dissi poche parole al popolo e s’intonò il Te Deum. L’allegrezza era immensa. Sicché dopo pranzo questa popolazione uomini e donne formarono la vala e diluviando andarono in S. Demetrio ad entusiastare quella popolazione, ove si era saputo la sera avante. S. Sofia era in eguale esultanza61

In una società ancorata alla tradizione cristiana, come quella dei paesi Albanesi, la celebrazione religiosa diviene il momento fondante della trasmissione e affermazione dei valori politici. Il Te D e u m di ringraziamento è il coronamento di un’azione di valenza politica: la benedizione della bandiera tricolore.62 Veniva dunque specificato come i

colori italiani avessero significato cristiano: d’altronde spesso nelle benedizioni del tricolore durante il Quarantotto si richiamò la corrispondenza del bianco, rosso e verde con le virtù teologali. Il

59 Petrizzo A., Spazi dell’immaginario. Festa e discorso nazionale in Toscana tra

1847 e 1848, in Banti A.M. - Ginsborg P. (a cura), Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Torino, 2007, pp. 509-539; Id., Appunti su rituali e politica, in

“Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900”, 2007, pp. 157-167; Porciani I., La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali

nell’Italia unita, Bologna, 1997

60 Mellone V., Napoli 1848, cit., p. 89 61 In “L’Albanese d’Italia”, 23 febbraio 1848

62 Sul valore del Te Deum cfr. Menozzi D., I vescovi dalla rivoluzione all’Unità.

Tra impegno politico e preoccupazioni sociali, in Rosa M. (a cura), Clero e società nell’Italia contemporanea, Roma-Bari, 1992, pp. 132-133

Cappellano Gaetano Barni, alla benedizione delle bandiere della Guardia Nazionale dell’arcivescovo di Milano, Carlo Bartolomeo Romilli, spiegava come il bianco simboleggiasse la fede pura, che mai aveva abbandonato “le Italiane contrade”; la speranza era il verde, la speranza che ebbe Cristo “in trentatré anni di servitù”; infine il rosso simbolo di carità “d’ogni pubblica e privata virtù”. Il vessillo tricolore rappresentava la “perfezione del soldato di Cristo”.63 La celebrazione religiosa dei paesi calabro-albanesi seguiva

dunque la tradizionale liturgia “patriottica”. Non è inoltre evidenziato in quale rito fosse tenuta la funzione, probabilmente perché il significato politico aveva il sopravvento sul nesso identitario religioso.

Alla celebrazione liturgica però era affiancato un elemento distintivo: il “vala”. Si trattava di una danza simile alla quadriglia che era ballata nella piazza del paese da donne vestite con costumi tradizionali e guidate da un solo uomo. Il “vala” faceva parte della tradizione pasquale albanese e poteva essere rappresentata in momenti di festeggiamenti particolarmente significativi per la comunità.64

Se dunque il rituale della messa aveva come scopo l’alfabetizzazione e la divulgazione del sentimento di appartenenza ad un progetto più alto, il “vala” era un momento di coinvolgimento della popolazione in una dimensione di integrazione e di compartecipazione alla gioia per un avvenimento rilevante per la collettività.

Il tempo festivo era dunque bipartito secondo il processo di “domenicalizzazione” che prevedeva un momento sacrale al mattino, al quale partecipavano le autorità locali, e un momento ludico proprio a carattere popolare.

Durante il Quarantotto la celebrazione religiosa non fu solo occasione di ringraziamento per le nuove svolte politiche. Giuseppe Lazzaro, democratico napoletano, nelle sue memorie sulla rivoluzione nel Regno delle Due Sicilie, notava come il martirologio e le feste in onore dei martiri fossero stati elementi costitutivi dell’identità patriottica del Meridione.65

L’obiettivo era quello di costruire una genealogia fittizia tra generazioni di patrioti che condividevano l’opposizione all’assolutismo e alla violenza perpetuata dalla polizia borbonica. Il martire aveva una connotazione religiosa veicolata dal sacrificio personale, un sacrificio al quale erano invitate le nuove generazioni di patrioti. Attraverso la celebrazione si

63 Barni G., Per la benedizione delle Bandiere della Guardia Nazionale di

S.M.alla Porta fatta da Monsignore Arcivescovo Bartolomeo Carlo Romilli,

Milano, 1848, p. 2

64 Bragaglia A.G., Danze popolari italiane, Roma, 1950, pp. 268-272

65 Lazzaro G., Memorie della rivoluzione dell’Italia meridionale dal 1848 al 7

dimostrava che coloro, che sacrificavano la propria vita per la patria, non sarebbero stati dimenticati ma sarebbero entrati a far parte della memoria della comunità.66

Così nel 1848, approfittando della libertà di espressione, a Cosenza si decise di celebrare i martiri del 1844. Il 15 marzo cadeva infatti il quarto anniversario dell’inizio dei tentativi rivoluzionari che culminarono nella cattura ed esecuzione dei fratelli Bandiera ed altri calabresi. Raccolte le ceneri dei martiri e posta ciascuna in un feretro, furono poi riunite tutte in una unica Cultra; si prepararono poi manifesti che invitavano la popolazione a partecipare alla cerimonia con un abbigliamento consono al lutto.67 La cerimonia cominciò con la processione con partenza dalla chiesa

di Sant’Agostino dove erano state originariamente sepolte le salme dei fratelli Bandiera e degli altri patrioti fucilati. Erano presenti le autorità civili e religiose, i rappresentanti del Capitolo e delle confraternite religiose, la popolazione chiuse le botteghe ed accorse vestita a lutto. La Guardia Nazionale con la banda musicale si pose a capo della processione e dalla folla e dai balconi erano lanciati fiori; sulla Cultra erano state poste le bandiere tricolori che erano state sventolate il 15 marzo 1844 e quella che era stata portata dai fratelli Bandiera e “che mano generosa seppe conservare”, la quale sarebbe stata seppellita con le loro ceneri.

… quando questo [sc. corteo] arrivò alla Chiesa la Guardia Nazionale schierata in due ali, versava fiori a piene mani sul feretro: questo spontaneo movimento fece grondare abbondanti lagrime all’intera popolazione che anche ai paesi convicini venne ad assistervi. Nella porta della chiesa, il feretro, venne ricevuto da Monsignore Arcivescovo, dal signore Intendente, Segretario Generale, Procuratore Generale, e le Autorità tutte. Deposta la Cultra nella Castellana tutta illuminata a cera, ed adorna di analoghi epigrammi, poesie ed iscrizioni; si diede principio alla Messa di requie con musica: terminata questa, venne recitata apposita orazione funebre dall’esimio P. M. Oriolo dell’ordine de’ Predicatori. Le guardie nazionali di Rovito e Cerisano, e quella de’ valorosi Albanesi di S. Benedetto Ullano in bella tenuta, bandiere tricolori e tamburi vi assistevano.68

L’arrivo della processione nella Cattedrale fu dunque accolto dalle autorità locali e dall’arcivescovo che seguirono la deposizione delle ceneri dei

66 Delpu P.M., Une religion politique. Les usages des martyrs révolutionnaires

dans le royaume des Deux-Siciles (années 1820-années 1850), in “Revue

d’histoire moderne et contemporaine”, 2017, pp. 7-31

67 Lettera di Giuseppe Petrassi a Girolamo De Rada. Cerzeto, 14 marzo 1848. In “L’Albanese d’Italia”, 29 marzo 1848

68 “L’Albanese d’Italia”, 8 aprile 1848-12 aprile 1848; Ricciardi G., Storia dei

patrioti martiri nella navata centrale. Componimenti celebrativi ed iscrizioni abbellivano il feretro. Si tenne dunque la messa cantata e fu in seguito tenuta un’orazione funebre dal padre domenicano Raffaele Orioli, noto patriota legato a Domenico Mauro. Orioli declamò le virtù dei defunti e li additò come esempio per i Calabresi; invitò quindi i giovani patrioti a “guadagnarsi la corona del martire” combattendo per la libertà e per l’Italia al fine di onorare la bandiera tricolore bagnata con il sangue dei martiri del 1844. Si lanciò inoltre in accuse contro la violenza e l’ingiustizia del governo borbonico declamando le tristezze del tempo passato e le speranze per il futuro.69 Nei due giorni successivi continuarono a tenersi messe ed

elogi funebri; come affermò il canonico Ferdinando Scaglione, penitenziere della cattedrale, la grandezza delle esequie dimostrò “all’Italia e all’Europa tutta, con pubblica e solenne attestazione, che nel petto de’ Cosentini” non si era mai spento il sentimento di carità di patria.70

I discorsi, tenuti dal pulpito dagli esponenti del clero, seguivano i topoi propri della predicazione patriottica italiana: appelli alla mobilitazione, l’esaltazione della speranza nazionale, gli strali contro il nemico. Si predicava l’idea che “la novella del politico risorgimento” fosse voluto da Dio e quindi fosse un fatto eminentemente religioso. Il valore sacrale diviene quindi legittimante: nel discorso di Scaglione è chiaramente espresso che il “sentimento di libertà” è stato portato fra gli uomini da Cristo, prima di lui non vi erano che popoli in lotta e barbarie. Come ha bene evidenziato Enrico Francia, la visione provvidenziale dell’incivilimento comporta il carattere religioso del concetto stesso di nazione.71 Quindi “religione e patriottismo sono indivisibili, e la chiesa e la

patria sono i capo-anelli di quella catena che unisce il cielo con la terra”.72

La processione con la sua ritualità, le cerimonie e le predicazioni adoperavano registri specifici dell’emotività per coinvolgere le masse: l’immagine della popolazione che versava “abbondanti lagrime” di fronte alla scenografia della Guardia Nazionale che si apriva per far entrare nella cattedrale il feretro, le parole degli elogi funebri riflettono l’aspetto sentimentale della religiosità del patriottismo.

69 In “Il Calabrese rigenerato”, 2 aprile 1848

70 I n Onori funebri resi alle ceneri di Attilio ed Emilio Bandiera e Domenico

Moro dalla città e provincia di Cosenza nel dì 11 giugno 1867 , Cosenza, 1867,

p. 45

71 Francia E., Clero e religione nel lungo Quarantotto italiano, in Banti A.M. - Ginsborg P. (a cura), Storia d’Italia, cit., pp. 438-444

72 Smith L., Due parole sulle cose presenti dette dal sacerdote L.S. nella chiesa

di S. Romolo in Colonnata, Firenze, 1847, p. 5, in Francia E., Clero e religione, cit., pp. 441-442

In occasione di queste celebrazioni su “L’Albanese d’Italia” erano commemorati i fratelli Bandiera ed erano pubblicate le loro ultime lettere in cui difendevano le loro azioni di patrioti. Due colonne erano dedicate poi a Raffaele Camodeca, “Albanese, nativo di Castroreggio”. Dopo aver ricordato come fosse stato uno dei primi ad aderire alla rivolta del 15 marzo 1844, si narrava che “con eroico coraggio e con una dignità propria di un Eroe di Plutarco subiva la condanna a morte e moriva dicendo «questo è il più grande onore che avessi potuto desiare in mia vita»”.73 Non è casuale

che Camodeca sia definito come un eroe plutarchiano: nelle Vite Parallele infatti Plutarco riporta le biografie di personaggi che attraverso la pratica della virtù e del coraggio erano assurti a modelli; mostrava come attraverso l’areté fosse possibile conseguire in ogni epoca storica dei risultati positivi che elevano il semplice individuo alla categoria di eroe.74 Così Camodeca

era un modello di virtù eroica, era un martire sacrificatosi per la patria, era un esempio da seguire per le nuove generazioni di patrioti.

In tutte queste manifestazioni era implicita l’accusa contro il governo borbonico e la polizia suo strumento di repressione. L’invito dunque era di prendere le armi contro i Borbone, di combattere contro la polizia e i soprusi da essa perpetuati in nome della monarchia.

La situazione cambiò il 15 maggio in seguito al volta faccia del re e alla violenta repressione che ne seguì. Arrivate le notizie dei fatti di Napoli nella provincia di Cosenza, cominciarono le manifestazioni contro Ferdinando II. Si assisté al dilagare di pratiche politiche popolari caratterizzate da una sistematizzazione della violenza simbolica contro il re, giustificata come espiazione dei massacri.

Un caso emblematico si ebbe nel villaggio arbëreshë di San Demetrio il 20 maggio 1848:

Per eccitare poi la popolazione di questo Comune contro la Sacra Persona del Re, ed invitarla agli occhi della plebe, D. Raffaele Mauro, Capo di questa Guardia Nazionale, dispose da i Capi Sezione della Guardia suddetta D. Michelangelo Chiodi, Cassiere, D. Domenico Mazzioni, Sostituto Cancelliere Comunale, e D. Angelo Lopez di Demetrio, avessero rilevato dalla Cancelleria del Giudicato Regio il mezzo busto di S.M. e legato con fune, a suono di tamburo, portarsi per dileggio in processione per tutto questo abitato. Tanto fu eseguito ed il busto suddetto con vecchio Cappello in testa e con capestro alla gola, fu portato in giro alle grida di morte al Tiranno, abbasso il Borbone, e quindi venne riposto nel Corpo di Guardia, 73 “L’Albanese d’Italia”, 12 aprile 1848. Le colonne dedicate a Camodeca erano curate da Giuseppe Petrassi, arbëresh di Cerzeto, che aveva partecipato ai moti del 1844

74 Colonnese C., Le scelte di Plutarco: le vite non scritte di greci illustri , Roma, 2007, pp. 20-22

ove fu fatto a pezzi dopo qualche giorno dall'altro Capo Sezione D. Demetrio Marchianò, Cancelliere Comunale e Regio Notajo. Idea del Mauro, e degli altri faziosi di qui, era di simulare un dibattimento Criminale, discutere la accusa, che veniva presentata da D. Francesco Lopez, da Pubblico Ministero, agli altri settarj, riuniti sotto la presidenza dell'estinto D. Vincenzo Mauro, e dietro la pronunziazione della sentenza di morte, smilarsi il detto mezzo busto del Re nella piazza del Comune.75

L’insulto regicida è una delle forme più frequenti di violenza espiatoria. Si tratta di una pratica iconoclasta volta a vendicare la memoria dei martiri. Infatti il busto del re era sottoposto a fittizio processo in cui veniva dichiarato colpevole degli eccidi del 15 maggio e solo dopo era distrutto simulando un’esecuzione. Questo tipo di rituale politico dovette essere molto ricorrente nella provincia calabrese se furono condannate 564 persone.76 Tali pratiche implicavano una violenza ritualizzata contro i

simboli reali: le statue, le armi reali, la bandiera della monarchia borbonica erano esposte sulla pubblica piazza e divenivano oggetto di scherno da parte della popolazione. Nella fonte presentata il busto del re era portato per il villaggio con indosso un vecchio cappello ed una fune al collo, accompagnato con cori di dileggio. Le autorità civili e religiose erano le promotrici di questo momento rituale: la distruzione dell’effigie del re mostrava la reciprocità della violenza politica, volta a espiare il sacrificio compiuto dai patrioti martiri. Si tratta di quello che Emmanuel Fureix ha definito “iconoclasme politique”: il rituale politico iconoclasta permetteva di coinvolgere la popolazione della provincia, per mimetismo, ai giochi di potere che avvenivano nella capitale. Il modello dell’esecuzione del busto del re rappresentava quindi la rivoluzione che stava per arrivare, preparava la popolazione alla nuova lotta che si prospettava. L’iconoclastia politica, attaccando il potere costituito, distruggeva i simboli del governo vigente e instaurava uno nuovo legame tra gli attori rivoluzionari. Gli antichi simboli sarebbero presto stati sostituiti con altri nuovi, ridefinendo lo spazio pubblico.77

Fino a qui, si è visto come la formazione politica dell’élite calabro-albanese all’ombra degli intellettuali e patrioti napoletani, nonché i processi da essa attuati per un coinvolgimento della popolazione delle colonie arbëreshë non

75 ASN, Ministero di Polizia generale. Seconda Numerazione. Fascio 3200 VI, Esp. 238, vol. 15 par. 15: “Cenno degli avvenimenti che hanno avuto luogo nel Circondario di S. Demetrio”. Anno 1848. Cosenza, 10 agosto 1848: lettera dell'Intendente della Calabria Citeriore al Ministero di Polizia

76 ASN, Archivio Borbone, Fascio 1044, Esp. 35. Liste dei condannati politici della provincia di Cosenza

abbiano presentato determinanti peculiarità identitarie. La maturazione di posizioni democratiche liberali, l’occupazione da parte del notabilato arbëreshë dei posti di comando della Guardia Nazionale, la mobilizzazione della popolazione attraverso la questione sociale e i rituali pubblici sono tutti elementi che si allineano con le dinamiche quarantottesche delle zone rurali del Meridione e, talvolta, anche del resto della penisola.

Un caso isolato ma significativo per la definizione identitaria della comunità calabro-alabanese fu rappresentato da un primo tentativo di divulgazione giornalistica di Girolamo De Rada: De Rada infatti tra febbraio e giugno del 1848 a Napoli pubblicò un giornale dal titolo “L’Albanese d’Italia” in cui alle contemporanee tematiche politiche italiane ed europee affiancava questioni identitarie proprie della comunità.

3. Gli albori della pubblicistica calabro-albanese: “L’Albanese d’Italia”