Parte I. La comunità albanese di Calabria
2. Alfabetizzazione politica: questione sociale e rituali pubblici
2.1 Rivoluzione e questione sociale
Verso la fine di aprile le campagne meridionali furono percorse da tumulti e disordini: si pagava il fallimento della politica di ripartizione dei demani, iniziata nel periodo della dominazione francese.
In seguito alla Restaurazione, il governo borbonico aveva proseguito in questo tipo di politica non riuscendo, però, a rispettarne i principi di base. La quotizzazione delle terre demaniali avrebbe dovuto favorire i non possidenti e i piccoli proprietari, mentre attraverso imbrogli i grandi signori erano riusciti ad ottenere le terre privatizzate.43 Poiché erano stati aboliti gli
usi comuni e non vi era stata la compensazione prevista attraverso la spartizione delle terre, gran parte della popolazione rurale si trovò a vivere senza una fonte di reddito e in profonda indigenza.
Per questo nell’aprile del 1848, e ancor più dopo il 15 maggio, nei paesi calabro-albanesi, come nel resto del Mezzogiorno, si ebbero rivolte contadine che si manifestarono per lo più attraverso l’occupazione dei terreni, considerati usurpati, e l’invasione di foreste demaniali. Così a S. Cosmo, paese arbëreshë, i fratelli Mauro spinsero gli abitati ad invadere i fondi tanto comunali quanto privati, arringando la popolazione e accusando i grandi proprietari di essere “oppressori, regressisti o retrogadi”. In seguito Alessandro Mauro, postosi alla testa della popolazione di S. Cosmo, guidò l’usurpazione del fondo comunale di Margliuglia, fondo che fu disboscato, lottizzato ed assegnato alle famiglie povere.44
43 Francia E., 1848. La rivoluzione del Risorgimento, Bologna, 2012, pp. 270-271 44 Per questa notizia è necessario integrare le due fonti: Atto di accusa e
Decisione, cit., p. 31; ASN, Ministero di Polizia generale. Seconda
Numerazione. Fascio 3200 VI, Esp. 238, vol. 15 par. 15: “Cenno degli avvenimenti che hanno avuto luogo nel Circondario di S. Demetrio”. Cosenza, 10 agosto 1848: lettera dell'Intendente della Calabria Citeriore al Ministero di
Fu coinvolta tutta la popolazione che veniva chiamata a raccolta dal notabilato del paese. La classe intellettuale si fece promotrice del movimento contadino sia per un senso di giustizia sia per calcolo politico. Dopo i fatti del 1848 al Procuratore del re presso la Gran Corte Militare che lo interrogava a proposito delle rivolte contadine, Domenico Mauro rispondeva: “Vengono qui per rivendicare ciò che loro appartiene e non recano danno a nessuno”.45 I diritti della popolazione rurale erano dunque
appoggiati da esponenti radicali locali i quali cercavano così di costituire un fronte anti-agrario e anti-borbonico. Chiaro segnale erano i simboli patriottici che accompagnavano la rivolta, come nel caso di San Demetrio.
In San Demetrio Raffaele e Vincenzo Mauro radunavano fin dentro al proprio palazzo la gente a meglio adescarla; e l’ultimo l’arringava nella pubblica piazza. Epperò nel 24 aprile si procedeva all’occupazione di un predio denominato Castello di proprietà del Barone Campagna di Corigliano. A tamburo battente, con bandiera rivoluzionario spiegata, conducevasi in armata la moltitudine dal sopracitato Vincenzo Mauro, nonché da Michelangelo Chiodi, Domenico Mazziotti, Antonio Marchianò, Demetrio Marchianò ed altri. - Ne furono espulsi violentemente i custodi, e datosi il guasto agli erbaggi, si passò alla divisione dei terreni, dei quali venero a sorte assegnate le quote a’ più bisognosi che le ritennero fino al mese di Agosto col danno al proprietario di Doc. 30046
I fratelli Mauro di idee democratiche e mazziniane divennero dunque i leader della rivolta contadina nella realtà calabro-albanese facendosi portavoce del malcontento popolare rispetto ad una questione divenuta ormai annosa: a seguito delle leggi eversive della feudalità47 si era
proceduto alla divisione dei feudi con l’assegnazione di quote alla popolazione in compenso degli usi civici esercitati. Sul feudo del barone Compagna, gli usi civici di semina e pascolo erano stati esercitati, tra gli altri, dagli abitanti dei paesi arbëreshë di Vaccarizzo e Spezzano Albanese. Questi ne ricevettero una quota restando comunque obbligati a corrispondere all’ex feudatario il terraggio, una sorta di tassa per ogni tomolata di terreno seminata.48 Essendo una tassa fissa, i contadini si
Polizia
45 Atto di accusa e Decisione, cit., p. 31 46 Ibidem
47 Provvedimenti esecutoriati tra il 1806 e il 1808 da Giuseppe Bonaparte e con i quali si aboliva la feudalità. Per le quali cfr. Marinelli F., Usi civici, Milano, 2013, pp. 34-39
48 Il “Tòmolo” o “Tomolata” è un’antica unità di misura della superficie agraria, utilizzata principalmente nel meridione e la cui grandezza variava da provincia a provincia. In provincia di Cosenza ammontava a 4004 m²
trovarono a dover pagare anche qualora il raccolto annuale non fosse stato adeguato. Presentata dagli abitanti di Vaccarizzo una formale protesta alla Commissione feudale, fu accordata una riduzione ad un decimo dei prodotti, ma l’ex-feudatario sostenne che la riduzione non poteva essere applicata per motivi giuridici. Ne nacque un processo, avviato presso il tribunale di Cosenza con atto del 5 agosto 1839. La difesa fu affidata a Paolo Scura, avvocato calabro-albanese, che nel 1840 pubblicò l’opera dal titolo “A difesa de’ coloni di Vaccarizzo contro i minori Compagna”. Paolo Scura partiva dal concetto vichiano del progresso legislativo dell’umanità e sosteneva che il giusto e l’eguale sono sinonimi; per questo la prestazione fissa essendo sicura per l’ex-feudatario e rovinosa per il colono era inammissibile. Il tribunale civile con sentenza del 21 settembre 1840 si pronunciò in favore del barone.49
È dunque comprensibile come all’avvento delle sommosse i fratelli Mauro sapessero bene come smuovere la popolazione facendo leva su una ferita aperta. Radunarono, quindi, la popolazione e ne alimentarono l’inquietudine con discorsi sulle antiche ingiustizie.
Lo spazio pubblico veniva dunque occupato con elementi caratterizzanti l’identità del mondo contadino come il tamburo, che normalmente richiamava al lavoro nei campi, ed elementi nuovi della rivoluzione come la bandiera tricolore, attraverso la quale vi era il tentativo di dare una connotazione politica al moto contadino. In realtà i ceti più bassi della popolazione non avevano coscienza del nesso tra politica ed economia che il ricorso ai simboli cercava di introdurre. Come emblematicamente scrisse il Commissario di Barletta recatosi a San Giovanni in Fiore, non lontano da San Demetrio,
la folla ingrossava ed il numero dei miserabili era migliaia. Più centinaia di donne colla bandiera tricolore. Erano avvolte in laceri panni, erano l’immagine stessa della povertà. Tutti gridavano: viva la Costituzione, viva l’Italia, ma tutti domandavano terre da coltivare e pane.50
Per la popolazione i simboli rivoluzionari e le recenti conquiste politiche davano legittimità alle richieste ma non ne comprendevano la portata ideologica e politica. D’altronde come scrisse Luigi Carlo Farini “sono gli stomachi vuoti che fanno le rivoluzioni, non già i cervelli pieni di ubbie”;51 49 Cassiano D., Risorgimento in Calabria: figure e pensiero dei protagonisti
italo-albanesi, Lungro, 2003, pp. 285-289
50 In Basile A., Moti contadini in Calabria dal 1848 al 1870, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania”, 1958, p. 74
e questo era stato pienamente compreso dagli intellettuali calabro-albanesi che si mossero per appoggiare le masse, facendo leva sul bisogno e sull’antico astio nei confronti della nobiltà feudale.
Il governo, dal canto suo, si schierava contro ogni iniziativa popolare e proclamava l’inviolabilità della proprietà privata pur riconoscendo la validità delle richieste dei contadini in materia di usi civici. Il notabilato locale però puntava sulla fame di terra e adoperava, secondo le fonti, un’ideologia e un lessico da classificare come “comunisti” o “socialisti”. In un documento dell’Intendente di Calabria si denunciava Domenico Mauro per aver introdotto nel circondario di San Demetrio e Santa Sofia, paesi calabro-albanesi, “idee di ribellione e Comunismo”.52 Ancora nell’atto
di accusa del magistrato borbonico Mauro era definito come propugnatore delle “idee di socialismo che rendendo tutto comune facevano allettevole il furto”.53 Queste potevano ritenersi espressione di quanto circolava “per
voce pubblica”: si collegava il pensiero dei democratici estremisti con quel poco che si sapeva delle ideologie socialiste e comuniste che andavano affermandosi nel 1848 in Europa.
Gaetano Cingari ha sottolineato come Mauro non avesse velleità comuniste o socialiste; aveva probabilmente letto Saint-Simon e Fourier54 ma li
utilizzava per “una propaganda spicciola”. Quello di Mauro, sostiene Cingari, era piuttosto un “giacobinismo romantico”.55 D’altronde nel 1851
nella sua opera “Vittorio Emanuele e Mazzini”, Mauro affrontava la questione dell’ideologia socialista, criticandola:
Il socialismo non aggiunge nulla alla dottrina di Cristo, poiché questa insegna da duemila anni quello che il socialismo oggi ripete: adveniat regnum Dei super
terram; né aggiunge alcuna cosa alla dottrina filosofica, che prima di esso svolgeva
i diritti e i doveri degli uomini, e porgeva un alto concetto della civil comunanza, consacrando con la ragione quello che Cristo aveva consacrato con la divina autorità della sua parola […] ma la dottrina cristiana e la filosofica si arrestarono innanzi agli ostacoli e alle difficoltà infinite, che ebbero ad incontrare né tentarono di divenire un fatto sociale, imponendosi agli uomini con la forza […] Non di meno il socialismo fu parola stolta imperocché essa errava in due modi: facendo
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52 ASN, Ministero di Polizia generale. Seconda Numerazione. Fascio 3200 VI, Esp. 238, vol. 15 par. 15: “Cenno degli avvenimenti che hanno avuto luogo nel Circondario di S. Demetrio”. Anno 1848. Cosenza, 10 agosto 1848: lettera dell'Intendente della Calabria Citeriore al Ministero di Polizia
53 Atto di accusa e Decisione, cit., p. 30
54 Sull’evoluzione della filosofia socialista cfr. Spini G., Le origini del
socialismo: da Utopia alla bandiera rossa, Torino, 1992
violenza alle leggi eterne della natura: proclamando delle cose vere ma inopportune e non attuabili al presente, e proclamando delle cose non possibili mai.56
Indubbiamente queste riflessioni appartengono ad un periodo ormai lontano dai fermenti del 1848 e derivanti dalla delusione della rivoluzione oltre che dall’esperienza piemontese. Si capisce comunque come Mauro nel 1848, pur non sostenendo idee socialiste, e men che meno comuniste, avesse creato un’atmosfera populista. Infatti insisté sulla necessità di mobilitare le masse contadine contro i proprietari usurpatori e come questa propaganda fosse stata confusa con le nuove ideologie provenienti dall’Europa.57
Nonostante tutto non mancarono da parte delle élites locali tentativi di alfabetizzare la popolazione locale attraverso rituali politici concepiti come azioni culturali in spazi pubblici che potevano essere spazi di sociabilità, come la pubblica piazza, o spazi religiosi. In tal modo si cercò di costruire la nuova identità politica.