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CARATTERI GENERALI DEI CODICI DI CONDOTTA

5.4 Autodisciplina e Consuetudine.

Nel corso della presente tesi abbiamo avuto modo di evidenziare come non solo i codici di condotta ma la stessa categoria dei codici di autodisciplina evidenzi una pluralità di esperienze con caratteristiche comuni ma che differiscono per autorevolezza, diffusione, intensità ed efficacia dei controlli.

Abbiamo quindi proceduto a mettere in luce la spontaneità nell‟adozione delle regole in essi contenute, la diffusione delle stesse all‟interno della

societas più o meno ampia di destinatari, la convinzione da parte di questi

ultimi di osservare una regola in grado di orientare correttamente la condotta al fine di perseguire lo scopo, l‟interesse che quella comunitas pone al proprio interno.

Ora, è forse da qui che dovremmo partire per provare a distinguere il fenomeno dell‟autodisciplina dalla consuetudine.

Va subito detto, in verità, che la distinzione non pare destare particolari difficoltà con l‟eccezione di un unico caso: quello del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale.

Poiché, più in generale, risulta evidente che in tutte le altre ipotesi, siano queste riferibili ai codici di condotta ovvero all‟autodisciplina, si assiste in verità ad una stratificazione di buone prassi che non paiono in alcun modo assistite da quell‟opinio iuris atque necessitatis che rappresenterebbe l‟elemento soggettivo richiesto per il venire ad esistenza della consuetudo

secundum legem.

Ed ancora, non vi sarebbe nemmeno l‟elemento oggettivo, con ciò intendendo quel comportamento osservato e ripetuto per gran tempo (la

diuturnitas) ed esteso ad una collettività sufficientemente ampia di

soggetti, caratterizzati fra loro da una componente omogenea.

Dunque la costante ed uniforme ripetizione di un comportamento per poter essere tale deve avere una sufficiente durata ed una sufficiente ampiezza, ne consegue de plano che – al di là della patente mancanza dell‟opinio - già con riguardo all‟elemento oggettivo pare fin d‟ora di poter escludere anche soltanto la concezione lato sensu consuetudinaria per la quasi totalità dei codici di condotta e di autodisciplina.

Tuttavia, dicevamo, una simile esclusione non appare altrettanto agevole per l‟ipotesi dell‟Autodisciplina della comunicazione commerciale e ciò non tanto e non solo perché è lo stesso Giurì della Pubblicità a riconoscere natura di clausola d‟uso normativo alla clausola d‟accettazione, quanto piuttosto perché, a ben vedere, sembrerebbero integrati gli elementi costitutivi della consuetudine nella genesi stessa del sistema de quo. Il quale come detto ripete la propria origine dalla prima edizione del Code

des pratiques loyales en matière de publicité dalla Camera di commercio

internazionale, risalente al 1937. Proprio quella prima raccolta rappresentò appunto la piattaforma regolativa di riferimento per il primo codice di

autodisciplina in materia pubblicitaria sviluppato nel nostro Paese, a partire dal 1966.

Non sembra allora che quel complesso di regole, frutto della cristallizzazione delle prassi in un determinato settore di mercato, - codificate dalla Camera di commercio internazionale nel 1937, riformulate nel nostro Paese nella prima versione del Codice di lealtà pubblicitaria nel 1966, poi aggiornato nel 1971 con il Nuovo codice di lealtà pubblicitaria, nel 1975 con il Codice di autodisciplina pubblicitaria, successivamente modificato da progressivi aggiornamenti che lo hanno condotto alla sua cinquantunesima edizione del gennaio 2011 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale – rappresenti un vero e proprio corpo di usi normativi concretati da comportamenti costanti ed uniformi, ribaditi per un tempo sufficientemente lungo capace di configurare una diuturnitas e assistiti dalla convinzione da parte di quanti si adeguano alle regole in esame che quei comportamenti siano giuridicamente dovuti? E d‟altra parte se è lo stesso Giurì della Pubblicità a riconoscere, perlomeno nella clausola di adesione, una clausola d‟uso normativo, allora viene da chiedere se non si assista per ciò stesso a quella funzione, esercitata dall‟organo giudicante, di inveramento, di ricognizione e interpretazione- creazione dell‟uso normativo giacchè la dimostrazione della sua vigenza, come è stato detto, risulterebbe dall‟applicazione che ne viene fata in sede giudiziaria.

Certo, i dubbi e le perplessità non mancano, se è vero che parte della dottrina – poca in verità – che si è misurata con il tema in esame ha concluso per un‟incompatibilità, meglio per una vera e propria differenza fra autodisciplina e consuetudine, fondando una simile diversità sulla richiesta omogeneità 112 della società o della collettività che crea, nel

rispetto degli elementi poc‟anzi indicati, la consuetudine.

112 F. CAFAGGI, Crisi della statualità, pluralismo e modelli di autoregolamentazione, op.

Si direbbe insomma che la consuetudine nasca anzitutto in comunità compatte ove tutti parlino una stessa lingua e credano in uno stesso diritto naturale. Di talchè la consuetudine non verrebbe ad esistenza ove dovesse mancare questo idem sentire.

D‟altra parte, riesce immaginabile una collettività più compatta di un settore di mercato in cui tutti i soggetti afferenti decidono di cristallizzare una selezione di prassi osservate da gran tempo?

Viceversa, continua tale dottrina, l‟autodisciplina, ivi compresa quella della comunicazione commerciale, sarebbe uno strumento complementare alla legge per l‟affermazione di norme sociali in una società complessa e conflittuale.

Ora, come detto, nessun dubbio per l‟assoluta incompatibilità dei codici di condotta e di autodisciplina con la nozione di consuetudine, tuttavia riteniamo che per quanto detto e osservato l‟Autodisciplina della comunicazione commerciale rappresenti un unicum all‟interno della categoria e che per ciò stesso, per le sue caratteristiche ampiamente illustrate e analizzate, si possa ad essa attribuire una natura almeno lato

sensu consuetudinaria.

5.5 Per una reale ricostruzione sistematica della categoria dei codici

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