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Interrogativo: possono i codici di condotta e/o autodisciplina svolgere una funzione positiva di concretizzazione dei requisiti d

I CODICI DI CONDOTTA NELLA NUOVA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEAL

4.5 Interrogativo: possono i codici di condotta e/o autodisciplina svolgere una funzione positiva di concretizzazione dei requisiti d

legge?

La più recente e autorevole dottrina in materia di codici di condotta e/o autodisciplina si è recentemente e comprensibilmente interrogata circa la possibilità, che questi ultimi avrebbero, di rivestire un ruolo di concretizzazione, specificazione e integrazione dei requisiti di legge individuati dalla direttiva comunitaria 2005/29/CE in tema di clausola generale95. Più precisamente alludiamo al concetto centrale che caratterizza la direttiva di specie in ordine ad una diligenza professionale incentrata sui concetti di buona fede e pratiche di mercato oneste. In effetti, espressioni come queste scontano un‟indeterminatezza ed un‟ambiguità tali per cui non parrebbe peregrino, ai fini della loro concretizzazione, il richiamo ai contenuti dei codici di condotta e/o autodisciplina.

Già, ma ancora una volta viene naturale chiedersi: a quali codici affidare un simile ruolo? E come eventualmente selezionare gli uni rispetto agli altri? Giacchè di base, pare sfuggire alla dottrina la molteplicità e la diversità di caratteristiche dei codici genericamente richiamati che parcellizzano inevitabilmente qualsiasi tipo di risposta.

In altre parole: come è possibile individuare un‟unica funzione di concretizzazione/specificazione – ammesso che sia possibile – in capo ad una generica congerie di codici, differenti per caratteristiche di autorevolezza, tradizione, efficacia rapportata all‟ampiezza della societas destinataria?

E, anche a voler per avventura riconoscere una possibile unitarietà, non v‟è chi non veda come anche le ipotesi più accreditate di autodisciplina – si pensi a quella dello I.A.P. – si pongano in posizione non certo subalterna o complementare alla disciplina normativa nazionale e comunitaria. Perché, come abbiamo avuto modo di ribadire, l‟atteggiamento autopoietico del sistema di autodisciplina della comunicazione commerciale pare piuttosto rivendicare un‟autonomia figlia di un sistema astatuale che si autogiustifica e che certo non abbisogna del sistema normativo nazionale per addivenire alla propria esistenza. Indubbiamente, il codice ha avuto cura di recepire alcuni degli elementi cardine della direttiva: il concetto di comunicazione commerciale che come tale individua una fattispecie più ampia della pubblicità e che ricomprende tutte le forme di comunicazione attraverso le quali le imprese promuovono i propri prodotti; e ancora il concetto di “consumatore medio” definito per la prima volta dalla nuova disciplina dettata dalla direttiva 2005/29/CE, e assunto immediatamente, nella nuova edizione del codice di autodisciplina, quale parametro di valutazione dell‟ingannevolezza della comunicazione commerciale così come previsto dall‟art. 2 del codice. Ma, come dicevamo, simili “aggiornamenti” non appaiono avvertiti dallo I.A.P. come obbligo di conformarsi ad una disciplina vincolante e gerarchicamente sovraordinata, quanto piuttosto come “migliorie” che il

sistema astatuale e autodisciplinare ritiene di dover apportare per rimanere competitivo nei confronti del sistema normativo ordinario.

Ed il fatto che il Legislatore comunitario ritenga di riconoscere un ruolo ai codici in questione non sposta in alcun modo l‟equilibrio delle posizioni. Certo, quanto detto vale per il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale. E ancora: nel porre simili riflessioni la cautela deve comunque rimanere la stella polare cui rifarsi, giacchè, come detto, non è per nulla pacifico e scontato che si possa individuare un sistema astatuale alternativo a quello nazionale o internazionale nello specifico settore della comunicazione commerciale, ma va comunque liberato il campo da quella convinzione un po‟ troppo tradizionale, secondo la quale l‟autodisciplina si ponga in modo automaticamente subordinato alla disciplina normativa tradizionale. Rimane il fatto che, anche alla luce delle previsioni di cui alla normativa comunitaria e, conseguentemente, a quella del Codice del consumo, non vi è certo alcun tipo di vantaggio per il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, in termini di competitività, nel porsi in contrasto diretto o larvato con essa.

Quanto fino ad ora sostenuto va quindi letto alla luce di una prospettiva e un orizzonte empirico completamente diversi.

In altre parole, non riteniamo francamente plausibile che il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale abbia in alcun modo un ruolo subordinato e dipendente rispetto alla disciplina normativa comunitaria e nazionale, ed in questo senso, dunque, nemmeno complementare o di concretizzazione dei requisiti. D‟altra parte la societas dei destinatari degli effetti del codice non ha alcun interesse a legittimare, in base alle disposizioni della direttiva e del codice del consumo, un‟invasione di campo. Da qui, e anche considerati gli obiettivi passi in avanti fatti da quella disciplina di settore nella tutela del consumatore, la volontà di assecondarne le disposizioni.

Inoltre, la riflessione relativa alla possibile concretizzazione dei requisiti di legge da parte dei codici di condotta e autodisciplina potrebbe essere

condotta certamente rispetto ai codici aziendali o rispetto comunque ad altre esperienze di autodisciplina pubblicitaria che per caratteristiche e tradizioni non possono in alcun modo porsi in alternativa alla disciplina normativa nazionale.

Ecco che allora, rispetto a quelle esperienze ed in teoria anche rispetto all‟autodisciplina della comunicazione commerciale, si possono condurre i seguenti ragionamenti.

In ordine alle previsioni dei codici di condotta e/o autodisciplina che si pongano in aperto contrasto con quelle della direttiva o che risultino con esse comunque incompatibili: si ritiene che, sul piano giuridico, esse non possano imporsi all‟osservanza di alcuno, aderente o meno.

Diverso è il caso invece di regole che innalzino lo standard di tutela rispetto a quello fornito dalle norme della direttiva. Sotto questo profilo ci pare di poter osservare quanto segue.

Appare evidente che una risposta affermativa – la vincolatività per gli aderenti - rischi di compromettere il principio di armonizzazione completa che caratterizza la direttiva. D‟altra parte, così facendo, si rischia di penalizzare il consumatore con un‟armonizzazione al ribasso.

Laddove cioè, un codice di condotta e/o autodisciplina dovesse contemplare regole lecitamente in grado di garantire più elevati standard di tutela, perché dovrebbe ritenersi che le stesse non possano essere vincolanti per la societas degli aderenti? E per quel che concerne i soggetti non aderenti, come risolvere il problema dell‟estensibilità sulla base dei meccanismi sviluppati dal codice di autodisciplina precedentemente illustrati?

Naturalmente un problema di questo tipo introdurrebbe una spinosa questione di competizione fra ordinamenti che non può certo essere affrontata in questa sede. Ma tant‟è.

D‟altra parte ci sembra perlomeno discutibile l‟atteggiamento adottato dalla dottrina che sul punto sosterrebbe che “secondo l‟intenzione del legislatore comunitario, le previsioni della direttiva, nel contemperare le

diverse istanze coinvolte, tengono conto anche dell‟esigenza di non addossare costi eccessivi alle imprese, secondo un principio di proporzionalità” 96.

Una simile valutazione non appare condivisibile, perché ci pare poter rappresentare l‟anticamera di una corsa al ribasso negli standard che svuoterebbe di significato le stesse regole di tutela. E ancora, aggiungiamo, ma perché si dovrebbe accettare un simile effetto nei confronti di coloro che aderiscono al codice e da parte di quei soggetti – i consumatori – che pur non aderenti beneficerebbero come soggetti indiretti nella produzione degli effetti di standard di tutela più elevata? La sensazione è, piuttosto, che in nome dell‟armonizzazione si voglia scongiurare una possibile competizione fra ordinamenti che, semplicemente, rischierebbe di porre in crisi l‟ordinamento comunitario e nazionale rispetto ad un possibile ordinamento della societas degli operatori della pubblicità.

Rimane il fatto che, anche in quest‟ottica, riesce difficile ritenere che le regole dei codici possano, qualora in grado di innalzare gli standard di tutela, concretizzare i requisiti di legge. Più che altro, rispetto a quelli, le regole dei codici, potrebbero eventualmente porsi come un‟alternativa. Alle stesse conclusioni – di non specificazione dei requisiti di legge - si dovrà addivenire, naturalmente, per quelle regole di autodisciplina che perseguono finalità diverse dalla direttiva e dalla relativa disciplina di

96 P. FABBIO, op. prec. cit., p. 721, d‟altra parte simili osservazioni, da noi peraltro

nient‟affatto condivise, non conducono ad un risultato diverso giacchè l‟autore conclude: “Dare rilievo, nella concretizzazione dei requisiti di legge, a regole deontologiche che innalzano lecitamente lo standard di tutela sarebbe perciò, in un‟interpretazione sistematica, altrettanto fuori luogo. A ciò si aggiunga che, potendo in ipotesi aversi codici nazionali o regionali che variano da Paese a Paese o da regione a regione, una diversa soluzione rischierebbe di mettere in discussione l‟obiettivo di armonizzazione piena perseguito dala Direttiva. Infine non è escluso che all‟interno di uno stesso Paese o territorio trovino contemporaneamente diffusione più codici, che in vario modo innalzano lecitamente il livello di tutela del consumatore. Si aggiungerebbe, allora, l‟ulteriore problema tra scelte auto-disciplinari concorrenti”.

attuazione nazionale: decenza, buon gusto, sicurezza e salute dei consumatori.

4.6 L’uso ingannevole dei codici di condotta e/o autodisciplina:

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