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Riflessioni conclusive in tema di codici di condotta nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette di cui alla direttiva

Articolo 27-bis Codici di condotta

1. I consumatori, i concorrenti, anche tramite le loro associazioni o organizzazioni, prima di avviare la procedura di cui all'articolo 27, possono convenire con il professionista d

4.9 Riflessioni conclusive in tema di codici di condotta nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette di cui alla direttiva

2005/29/CE e alla novellata parte del Codice del consumo.

Sulla base di quanto detto, sembra giunto il momento di formulare alcune osservazioni di chiusura che potrebbero rappresentare, per taluni aspetti, un‟anticipazione parziale dei contenuti conclusivi della presente tesi.

In primo luogo, l‟analisi della disciplina in esame ha permesso di rinvenire all‟interno della direttiva 2005/29/CE una definizione certamente efficace dei codici di condotta.

Come detto, anzi, tale definizione pare riflettere quelle stesse classificazioni che la miglior dottrina comparatista ha ritenuto di poter condurre in campi contigui d‟indagine. Più in generale, diremo che la definizione fornita dal Legislatore comunitario pare farsi carico nella sua formulazione della presa d‟atto dell‟immensa congerie di codici di condotta esistente e della notevole differenza di caratteristiche che corre fra le

diverse ipotesi in cui si manifesta il codice di condotta, ancorché – nel caso di specie – si stia facendo riferimento al solo settore di mercato della comunicazione commerciale dunque a quella societas di categoria che ricomprende come destinatari di regole i soli soggetti operatori di quel determinato ambito di mercato, oltre, naturalmente, ai consumatori che a quel particolare settore si rivolgono e debbono poter autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte.

Ne emerge quindi una definizione che prevede – come detto – un approccio empiristico, all‟interno della quale vanno cristallizzandosi le più diverse esperienze di codice di condotta, il quale viene appunto definito dalla direttiva 2005/29/CE all‟articolo 2, lettera f come segue: “un accordo o una normativa che non è imposta dalle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di uno Stato membro e che definisce il comportamento dei professionisti che si impegnano a rispettare tale codice in relazione a una o più pratiche commerciali o ad uno o più settori imprenditoriali specifici”.

Al di là quindi della particolarità di settore – il comportamento dei professionisti che si impegnano a rispettare tale codice in relazione a una o più pratiche commerciali o ad uno o più settori imprenditoriali specifici – non v‟è chi non veda come la natura giuridica dei codici venga ricompresa in un‟ideale progressione di ipotesi che vanno dall‟accordo alla normativa astatuale, come tale slegata, meglio, non imposta da disposizioni eteronome siano esse legislative, amministrative o regolamentari. Tale definizione, come detto, non soltanto ben riflette la varietà di ipotesi ed esperienze di codici di condotta esistenti ma introduce finalmente la convinzione che per la definizione di codice di condotta non esista un‟unica valutazione capace di valere per tutti i casi – troppo diversi fra loro – ma piuttosto vada formulata attraverso un‟analisi del caso di specie che permetta di concludere per un codice con caratteristiche di mero accordo fra le parti ovvero per un corpo di regole autoposte dalla societas

dei destinatari di settore, atto a rappresentare una vera e propria normativa astatuale che si è determianta in via autopoietica.

Fin qui, come detto, il primo ordine di valutazioni conclusive.

Come precedentemente osservato, vanno poi aggiunte quelle osservazioni relative alla possibilità di distinguere, finalmente, i codici di condotta da quelli di autodisciplina ricordando che se è vero che un codice di autodisciplina è sempre un codice di condotta non è altrettanto pacifico che possa dirsi il contrario. Ciò perché nel primo va riconosciuto un quid

pluris, determinato dalla previsione di un apparato procedurale, di

controllo e sanzione che certo non può riscontrarsi in qualsiasi codice di condotta che, anzi, nella sua manifestazione più elementare, e non certo infrequente, si risolve in una raccolta di regole etiche, volontarie e certo non vincolanti che nulla hanno a che vedere con le ipotesi di autodisciplina che godono, nel panorama attuale, di maggior autorevolezza ed efficienza.

In buona sostanza, è fuor di dubbio che i codici di condotta si risolvano in molti casi in ipotesi di accordo fra le parti private, raccolte di regole etiche, financo morali, del tutto volontarie che hanno come scopo precipuo quello di suggerire dei modelli di condotta che raccolgono le buone prassi comportamentali maturate in un determinato contesto. L‟efficacia vincolante di tali codici è evidentemente di scarso impatto, per non dire inesistente, proprio perché le caratteristiche delle regole sono quelle proprie di previsioni per così dire programmatiche, sprovviste di una qualsivoglia componente sanzionatoria e di profili dinamico-applicativi di sorta.

Paiono queste, come detto, le caratteristiche dei codici individuali, aziendali, di responsabilità sociale d‟impresa e che ben poco hanno a che vedere non solo con la norma giuridica ma financo con la norma privata. Ma potremmo dire altrettanto per il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale?

Francamente, noi crediamo di no. Perché comunque la si voglia intendere non v‟è dubbio che lo stesso impianto, lo stesso apparato sanzionatorio, l‟architettura sostanziale e processuale del sistema individuato dal codice

de quo è non solo di ben altro respiro ma financo di ben altra natura. Che

poi quella natura giuridica debba identificarsi in quella contrattuale o in una alternativa, magari di nuova ipotesi di centro di produzione astatuale di norme è questione diversa. Ma certamente è incontrovertibile la differenza che corre fra il codice di condotta e quello di autodisciplina che, fin dal significato proprio della parola, punta a dettare in via autopoietica una regolazione figlia delle buone prassi stratificate nel tempo, condivise da una sempre più ampia societas di destinatari, e raccolte in un corpo di regole che pongono da subito le conseguenze financo afflittive della mancata osservanza, conseguenze che un determinato soggetto, individuato dagli stessi aderenti, si premurerà di applicare a seguito di un determinato iter procedurale.

Sotto altro profilo, abbiamo altresì escluso che le regole dei codici possano, anche nell‟ipotesi in cui siano in grado di innalzare gli standard di tutela, concretizzare i requisiti di legge individuati dalla direttiva. Più che altro, rispetto a quelli, le regole dei codici, sembrerebbero eventualmente porsi come un‟alternativa.

E del resto la sensazione è stata piuttosto quella che in nome dell‟armonizzazione il Legislatore abbia voluto scongiurare una possibile competizione fra ordinamenti che, semplicemente, rischierebbe di porre in crisi l‟ordinamento comunitario e nazionale rispetto ad un possibile ordinamento della societas degli operatori della pubblicità.

Rotta quindi l‟idea di una definizione generale ed astratta, valida per ogni ipotesi di codice di condotta, rotto il binomio condotta-autodisciplina nella sua connotazione di automatica equivalenza di significato delle parole, messo perlomeno in crisi la concezione di pacifica subalternità dei codici di condotta – perlomeno nelle loro manifestazioni più autorevoli – alle disposizioni di legge, è ancora il caso di osservare come la realtà dei

codici, inserita nel più generale disegno delle pratiche commerciali scorrette, possa a sua volta rappresentare una causa determinante di quelle stesse pratiche ogniqualvolta essi vengano utilizzati come strumenti di condizionamento delle scelte del consumatore. Alludiamo, come visto in precedenza ai casi di uso ingannevole dei codici e, ancor peggio, all‟affermazione non veritiera del professionista di essere firmatario di un codice di condotta o all‟affermazione non veritiera che un codice di condotta abbia l‟approvazione di un organismo pubblico o di altra natura: ipotesi da valutarsi come pratiche commerciali in ogni caso ingannevoli. Sembra evidente dunque – alla luce di tutte le osservazioni formulate – che quell‟ampia categoria di codici di condotta e/o autodisciplina che il Legislatore comunitario vorrebbe relegare ad una funzione ancillare, subordinata e di mera integrazione a quella del sistema individuato dalle norme comunitarie e poi attuative nazionali, appare invece sempre più come un animale selvatico e fuori controllo, tutt‟altro che domato e mansueto, e come tale per molti aspetti destinato a rimanere indipendente.

Va detto però che, forse, nel settore che qui ci interessa, la componente dell‟autodisciplina e non dei codici di condotta che indubbiamente possono rappresentare uno strumento adiutorio, per quanto spuntato e inefficiente, di quello propriamente normativo, potrebbe offrire una valida alternativa, per caratteristiche di efficienza e autorevolezza, al meno competitivo sistema interno e ordinario.

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