«Circolare di notifica.» Così, in un freddo gergo burocratico del partito, venivano nominati gli ordini del Grande Timoniere. Il 16 maggio 1966 Mao Zedong fa illustrare al Politburo del Comitato centrale del Pcc una lapidaria «Circolare di notifica», nella quale, con linguaggio violento, denuncia il pericolo costituito da «elementi della borghesia che si sono infiltrati nel partito, nel governo,
nell’esercito e in varie sfere della cultura, come un branco di controrivoluzionari revisionisti».1
Come spesso accade nella diale ica politica del marxismo-leninismo, si tra a di un rilancio per coprire i propri errori. Il comunismo cinese è in crisi e con esso il suo leader, Mao Zedong. Il Grande balzo in avanti promesso al popolo si è risolto in un clamoroso fallimento, con una gigantesca carestia – causata dalla colle ivizzazione forzata delle campagne – che ha prodo o milioni di morti. L’industrializzazione non c’è stata, la Cina è un panorama di rovine.
Errori su errori hanno condo o al disastro. Quando, alla fine del 1957, era tornato da Mosca, dal vertice dei partiti comunisti, Mao si era convinto che la Cina avrebbe potuto prendere il posto dell’Urss nel ruolo di nazione guida del socialismo nel mondo. Giudicava la leadership di Krusciov molto debole, non carismatica e radicale come quella di Stalin, troppo ripiegata su problemi interni e sopra u o incapace di porsi come sogno utopico per quei popoli che, in uscita dal colonialismo, guardavano al comunismo. «L’Urss»
afferma Mao «sta diventando revisionista.»
La Cina doveva essere la guida delle avanguardie rivoluzionarie.
Il presupposto di questa aspirazione, però, era una rapida industrializzazione del paese, ancora agricolo e rurale. Mao proclama a gran voce un traguardo che si rivelerà assolutamente velleitario: in quindici anni l’industria pesante e l’agricoltura dovevano superare quelle della Gran Bretagna. Allo scopo, fa elaborare un de agliato programma economico, simile ai piani quinquennali sovietici. Prescrive di raddoppiare la produzione cinese dell’acciaio, obie ivo arduo da raggiungere senza adeguati impianti industriali e conoscenze tecniche. Con una delle sue frasi a effe o, definisce l’acciaio il nuovo «maresciallo dell’industria», e ordina che la produzione debba salire dai 5,3 milioni di tonnellate del 1957 ai 10,7 milioni per l’anno successivo. All’intera iniziativa viene dato un nome ambizioso e trionfalistico: Grande balzo in avanti. Tu o viene annunciato in forma solenne nel maggio del 1958.
Tre mesi dopo è deliberata la creazione di milioni di «comuni popolari».
Con una scelta a dir poco azzardata, cento milioni di contadini vengono strappati dal lavoro nelle campagne e fa i diventare di colpo operai. Nelle fa orie vengono allestite fornaci artigianali, alimentate con ogni tipo di legname, compreso quello delle case, e viene fuso qualsiasi metallo, proveniente da ogge i casalinghi e a rezzi da lavoro. Al posto degli utili ogge i della loro quotidianità, i cinesi si ritrovano masse di metallo fuso e informe che non servono a nulla, a voce bassa le chiamano niushi-ge-da (escrementi di animali). Da questo sforzo enorme non si o iene alcun tipo di acciaio. Per farlo occorrono processi industriali complessi e specifiche professionalità, che in Cina ancora non esistono. In più, si provoca persino un danno ecologico, che finirà per pesare gravemente nei decenni a venire: intere montagne vengono disboscate per ricavarne legna da ardere. Le conseguenze nefaste si vedranno nelle stagioni delle piogge, quando non ci saranno più gli alberi a ostacolare detriti e terreno, che franeranno sui villaggi.
Il risultato è che milioni di contadini abbandonano il lavoro dei campi e le a ività che avevano imparato a svolgere dopo lunghi anni di esperienza e di fatiche. Ad aggravare la situazione arrivano i programmi di coltivazione e allevamento intensivi, applicati secondo le teorie dello scienziato russo, molto discusso, Trofim Lysenko. La poca proprietà privata rimasta viene smantellata per cedere il posto a gigantesche comuni agricole che diventeranno autentici lager, luoghi di disperazione e di morte. Nel delirio egualitario si decide che tu a la produzione venga conferita ai capi della comune e che persino le cucine familiari debbano essere smantellate per fare posto alle mense contadine.
Il 1960 è l’anno peggiore, tant’è che Jasper Becker, il corrispondente del «Guardian», lo definirà il «più buio della millenaria storia cinese».2
Lo stesso giornalista americano Edgar Snow, cronista di razza ma in odore di simpatie maoiste, amme e la tragedia di quei mesi. La situazione più grave è proprio quella che si registra nella provincia
di Henan, dove è finito Xi Zhongxun, una volta l’area più fertile della Cina. I campi, prima ricchi di grano, sono disseminati di cadaveri. Le cucine colle ive «rappresentavano l’aspe o più terrificante»3 della follia comunista. Da mangiare ai contadini viene data una «razione di minestra, un intruglio acquoso in cui i cuochi avevano ge ato foglie di patate dolci e di rape, gambi di granoturco macinati ed erbe selvatiche». La razione mensile ufficiale prevede o o chili di riso a testa, cento grammi di olio e cento grammi di carne. Ma le quote assegnate, pur misere, non vengono rispe ate.
La realtà è una dieta da fame, rispe o alla quale viene anche fissata una macabra gerarchia nel metodo di distribuzione: agli intelle uali, agli ex commercianti e ai contadini ex proprietari spe ano le razioni più scarse. Le famiglie, poi, preferiscono alimentare meglio i figli maschi e lasciar morire le femmine, le cui razioni finiscono ai fratelli. Solo i membri dell’apparato di partito vengono nutriti in maniera decente, anzi li si serve ai tavoli di mense speciali. La retorica del regime proclama slogan senza senso: «Una donna in gamba riesce a preparare il pranzo senza cibo».
Non si muore solo di fame. Ovunque, dal villaggio più piccolo alle ci à, le squadre armate del partito danno la caccia al cibo che è stato occultato dalle famiglie, non per avidità ma per mera sopravvivenza. Cercano nelle case, nei cortili, so o i le i, nei pagliai, fanno perquisizioni meticolose e quando lo trovano, anche in piccole quantità, i malcapitati finiscono legati dentro un fosso scavato per terra, dove verranno lasciati morire. Le cronache di quei mesi raccontano la vicenda di una donna sepolta viva con i figli. Le feroci punizioni sca ano anche ai danni di quei villaggi che non raggiungono le quote di produzione prefissate o di coloro che, semplicemente, non falsificano i dati, vista l’impossibilità ogge iva, in quella situazione, a conseguire i risultati.
Di no e, presi dalla disperazione, alcuni contadini vanno alla ricerca dei cadaveri abbandonati nei campi per tagliare pezzi di carne. La storiografia, da tempo, ha documentato questi episodi di cannibalismo. In anni recenti, grazie ai documenti della polizia, è stato possibile ricostruire il caso di una coppia che rapiva e
assassinava bambini, «rivendendone poi la carne come coniglio, a prezzi esorbitanti». Furono giustiziati e la storia fu tenuta nascosta per decenni.4
Le responsabilità di questo disastro, di dimensioni epocali, sono da ascrivere principalmente a Mao Zedong, perché fu lui, più di tu i, a spingere per la colle ivizzazione delle campagne. La scri rice cinese Jung Chang, autrice di Cigni selvatici, un fortunato romanzo venduto in quindici milioni di copie e trado o in 37 lingue nel quale racconta le vicende della sua famiglia, scrive che Mao ha «un disprezzo metafisico nei confronti della realtà. [...] Megalomania e volontarismo s’intrecciano con facilità nella sua mente».5
Alcune vicende documentate hanno un sapore che va oltre il gro esco. Il leader comunista prese in odio i passeri, per esempio, perché secondo lui rovinavano i campi di grano. Problema antico, certo, ma in quella stagione accadde che intere famiglie vennero mobilitate e spedite un’intera giornata nei campi a sba ere ogge i metallici per spaventare gli uccelli. Il culto ossessivo della personalità di Mao, la divinizzazione della sua leadership politica, superarono ogni forma di buonsenso, spiega Chang: «Le iperboli retoriche erano diventate richieste concrete, le fantasie irrealizzabili dovevano tramutarsi in realtà […] L’intera nazione finì per parlare in un modo e comportarsi in un altro: le parole divorziarono dalla realtà, dalla responsabilità e dai reali pensieri della gente. Le menzogne si raccontavano con facilità perché le parole avevano perso il loro significato, e nessuno le prendeva più sul serio».6
All’indomani della nascita della Repubblica Popolare Cinese (1°
o obre 1949) l’approccio alla questione agraria era stato assai più pragmatico e moderato. Sulla scia dell’esperienza maturata nelle zone controllate dai comunisti durante la guerra contro il Giappone, in particolare nello Shaanxi, il partito aveva deciso di espropriare i grandi latifondi e ridistribuire la terra alle famiglie contadine, so o forma di piccoli appezzamenti, tu i di dimensioni uguali. Nel solo 1951, 46 milioni di e ari, circa un terzo della superficie totale di 110 milioni, erano stati smembrati in piccole proprietà familiari.
L’operazione dimostrò di avere una sua logica, visto che già a partire
dal 1952 la produzione dei cereali superò la quantità prodo a nell’anteguerra.7
Questa impostazione, tu avia, si scontrava con il rigore ideologico di cui Mao si sentiva custode. Per molto tempo i moderati avevano cercato di farlo ragionare, suggerendogli di muoversi con un certo gradualismo nella colle ivizzazione e sopra u o di mantenere in funzione le piccole proprietà. Molti, infa i, pensavano che la colle ivizzazione totale dovesse costituire un obie ivo di lungo periodo, preceduto da una fase di industrializzazione in grado di accrescere la produzione di macchinari per l’agricoltura.
Ma Mao non volle sentire ragioni. Bollò gli sce ici come
«vecchie e con i piedi fasciati» (il riferimento era all’uso antico e superstizioso di fasciare i piedi delle donne, provocando loro gravi danni fisici), incapaci di partecipare al futuro. Le sue dire ive si rivelarono tanto chiare quanto disastrose. Furono create comuni grandi come intere province, che si espandevano a orno a ci à agricole. Ogni comune inglobava fino a trecento famiglie, molte di più di quelle delle comuni in Unione Sovietica. I contadini furono costre i a condividere non solo la terra espropriata ma anche gli a rezzi da lavoro, gli animali da tiro e quelli da cortile. I raccolti dei campi, grano e frumento, furono dichiarati beni dello Stato.
All’ingresso di ogni comune campeggiava una scri a che era anche il ritornello di una canzone: «Il comunismo è il paradiso. Le comuni del popolo ne sono i ponti per raggiungerlo. Il comunismo è il paradiso. La comune è la scala. Se costruiremo quella scala, possiamo arrivare fino in cielo».
I risultati furono deleteri. Nel solo 1956 la produzione dei cereali crollò del 40 per cento. Una riduzione così drastica documentata anche in Chinese Village, Socialist State,8 una ricerca sul campo i cui risultati evidenziarono come alla guida delle comuni vi fossero funzionari di partito che si comportavano solo da freddi burocrati per il semplice fa o che, di agricoltura, non capivano nulla. «Si racconta che nel Fujian i contadini mangiassero la corteccia degli alberi, e nella contea di Shunyi, non lontano da Pechino, qualcuno ha riferito che i contadini erano rido i a vivere di una sorta di “torta” di
pula e corteccia. In diverse parti del paese i contadini cominciarono a lasciare le case in cerca di cibo, mentre tra i tibetani del Sichuan e Oinghai scoppiò una vera e propria ribellione».9
Gli animali da allevamento, appartenendo alla comune e non più ai legi imi proprietari, furono non di rado abbandonati al loro destino. Molto spesso, prima di vederseli sequestrare, i proprietari li uccidevano e li macellavano per mangiarli. In questa situazione poteva accadere che il giornale di partito, il «Quotidiano del Popolo», lanciasse appelli surreali nella vana speranza di suscitare un diba ito nella popolazione: «Come affrontare il problema della sovrapproduzione di cibo».10
Va de o che alla drasticità delle scelte agricole si accompagnarono misure violente anche sul terreno delle libertà individuali. Nel 1956 Mao ordinò di introdurre il passaporto interno, una misura che limitò fortemente l’antica e rinomata abilità dei cinesi nei commerci e negli scambi. A partire dal 1958, nelle comuni di Xushui, di Hebei, Hunan e Anhui gli uomini vennero separati dalle donne. La volontà del partito era quella di distruggere la famiglia, un’istituzione molto radicata e forte nella società cinese. «Mao arrivò a chiedersi se ai fini della procreazione non bastasse far incontrare uomini e donne una volta al mese.»11 In molti villaggi un uomo che desiderava sposarsi rivolgeva una domanda al funzionario di partito, il quale gli assegnava una sposa, spesso una donna che il richiedente non aveva mai conosciuto prima. «Venne scoraggiata qualsiasi forma di individualità nell’abbigliamento: uomini e donne vestivano allo stesso modo con pantaloni informi e giacche unisex.»12
Le ultime testimonianze di vita spirituale, sopravvissute alla prima ondata di rimozione dei simboli religiosi del 1949, furono definitivamente abba ute. Chiusi in pochi mesi tu i i templi, i monasteri, le chiese e qualsiasi luogo potesse richiamare alla religiosità.
Nei primi anni Sessanta, la Cina si ritrova dunque in ginocchio per effe o dei fallimenti del Grande balzo. Mao teme per il suo potere, il consenso vacilla così come il prestigio personale. Per uscire dall’angolo, decide di scaricare la colpa del fallimento sui quadri del
partito, e di avviare una grande purga, in stile staliniano, puntando l’indice contro «forze borghesi» che avrebbero boico ato gli sforzi di modernizzazione. In realtà, non esiste alcuna minaccia borghese.
Mao continua ad a accare l’Urss di Kruscev, sostenendo che i
«revisionisti» hanno imposto alla Cina il pagamento di un esoso debito contra o da Pechino per sostenere la Corea del Nord durante la guerra.
Va de o che in seno al Partito comunista non erano mancate voci coraggiose e di buonsenso. Durante una conferenza straordinaria degli alti quadri convocata a Lushan nel giugno del 1959, il maresciallo Peng Dehuai, eroe della Lunga Marcia e ministro della Difesa, aveva scri o una le era garbata a Mao nella quale lo aveva invitato a ripensare la folle strategia economica. Nonostante l’enorme credibilità di cui godeva il maresciallo, Mao lo aveva a accato pubblicamente e con veemenza, definendolo «opportunista di destra» e bollando la le era come «un bombardamento inteso a radere al suolo Lushan». Peng venne destituito e posto agli arresti domiciliari. Non fu l’unico.
Il disastro, però, è talmente evidente che anche il numero due del regime decide di intervenire. È Liu Shaoqi, a cui Mao ha ceduto proprio nel 1959 l’incarico di presidente della Repubblica Popolare.
È indicato dai più come il suo delfino. Il Grande Timoniere si è deciso a fare un passo indietro per mitigare il disagio politico in cui si trova, ma resta però guida del partito, incarico sostanziale nel potere nella Cina comunista.
In una nuova conferenza, nel gennaio del 1962, Mao afferma che la carestia è stata provocata per il se anta per cento dalle calamità naturali e solo per il trenta da errori umani. A quel punto Shaoqi prende coraggio e replica: «No, il disastro è imputabile per il se anta per cento a errori umani e solo per il trenta a calamità naturali». Il tentativo di contrastare le menzogne di Mao gli costerà caro.
Nel 1967 sarà epurato da ogni carica pubblica, arrestato e accusato di essere un deviazionista, anzi «la maggiore personalità del partito colpevole di aver imboccato la via del capitalismo». Finirà in un famigerato campo di rieducazione, so oposto a sessioni di denuncia durante le quali viene ferocemente picchiato. La crudeltà del regime
q p g giungerà a far scrivere a una delle sue figlie vari documenti di protesta facendoli passare come reda i dal padre. Gli saranno negate le medicine per curarsi il diabete e le altre mala ie contra e durante la prigionia. Le condizioni della detenzione lo porteranno alla morte nel 1969, anche se la moglie di Mao ordina di tenerlo in vita fino a tu a la durata del IX congresso del partito, affinché ci sia un bersaglio vivente contro cui indirizzare le inve ive. E, infa i, il primo ministro Zhou Enlai lo bollerà come un «traditore criminale, agente nemico e crumiro al servizio degli imperialisti, dei revisionisti moderni e dei reazionari del Kuomintang».