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La foto

Al centro della foto un uomo con lo sguardo smarrito, basso, quasi incredulo. Sembra un condannato negli ultimi istanti di vita che precedono un’esecuzione. L’espressione del volto tradisce un sentimento di rassegnata disperazione. Pare che si stia domandando:

«E adesso che cosa mi accadrà?». Indossa una casacca scura, ma ciò che lo rende evidente a chi lo osserva è il grande cartello che porta appeso al collo con un pezzo di spago, sopra il quale, a cara eri forti e in ideogrammi cinesi, qualcuno ha scri o: «Xi Zhongxun è un reazionario».

L’uomo è circondato da un manipolo di giovani baldanzosi, due lo tengono per le braccia. Non può certo fuggire ma quella stre a ha un unico scopo: so olineare la sua condizione di prigioniero. Lo sca o lascia intuire che cosa sia accaduto qualche a imo prima: i giovani rivoluzionari hanno trascinato l’uomo sul balcone e ora lo esibiscono come una preda alla folla so ostante. I guardiani e il sequestrato simboleggiano due generazioni distinte del comunismo cinese. Una fotografia, per sua natura, è un ogge o silenzioso, ma gli sguardi e le pose fanno percepire il frastuono del momento.

Il reazionario da esporre alla gogna si chiama Xi Zhongxun, ed è il padre di Xi Jinping, colui che sarebbe diventato il nuovo Mao, signore assoluto della più temibile potenza del pianeta, a uale presidente della Repubblica Popolare Cinese. La foto in bianco e nero risale al 1967, è stata sca ata a Xi’an e all’epoca l’esibizione di un condannato, chiamato a fare autocritica delle sue azioni e dei suoi pensieri in pubblico, è la prassi. Anzi, si tra a di una scena ricorrente: in quei mesi esponenti politici, dirigenti economici,

intelle uali, professori vengono strappati alle loro case e alle loro famiglie, per essere trasferiti in località distanti migliaia di chilometri. Per lunghi anni figli, mogli, mariti, padri, fratelli e sorelle non sapranno più nulla di loro, in molti casi li crederanno morti.

Xi Zhongxun cerca di riordinare i suoi pensieri, di me ere in fila gli eventi delle ultime se imane. Una ma ina del mese di dicembre una pa uglia armata delle Guardie rosse ha fa o irruzione nel suo ufficio di dire ore della fabbrica di tra ori Luoyang. Un luogo scarno, spartano, ben diverso dall’ufficio nel quale aveva lavorato anni prima a Pechino. In pochi minuti è accaduto l’impensabile. I soldati, una ventina, tu i giovanissimi, indossano la tipica «giacca alla Sun Yat-sen», che verrà riba ezzata «giacca alla Mao», simbolo della sobrietà rivoluzionaria che non amme e diversità. Portano il berre o con la stella rossa e una fascia con scri e dorate sul braccio.

Sono armati di fucili e pistole, infilate nelle cinture di cuoio, si intravede persino qualche baione a affilata. Quello che sembra essere il capo, probabilmente il meno giovane, anche se non esibisce i simboli del suo grado, gli urla: «Compagno! Sei in arresto. Devi rispondere dei tuoi crimini controrivoluzionari! Devi venire con noi!». Poche parole, perentorie.

«Ma chi siete? Non avete alcuna autorità. Non avete idea di cosa state facendo. Sono solo il dire ore di questa fabbrica di tra ori. Non mi occupo di politica da tempo» gli risponde. Dal canto suo, Xi Zhongxun aveva provato ad afferrare il telefono sulla scrivania per chiamare la segreteria del partito, ma le sue braccia erano state subito bloccate e poi legate dietro la schiena con una corda.

Pur essendo stato un comba ente, un commissario politico di altro rango dell’Armata Rossa, giunto a un grado pari a quello di un generale, Xi Zhongxun aveva un’aria mite, sembrava un professore universitario. Era stato a lungo il capo del dipartimento della propaganda del partito, avvezzo alle raffinate questioni ideologiche più che ai colpi di mano. Aveva studiato Marx, Lenin e tu i i testi sacri del comunismo.

Condo o all’esterno della fabbrica era stato caricato su un vecchio camion insieme ad altri prigionieri, tu i quadri medio-alti del partito, alcuni veterani come lui della Lunga Marcia. Nessuno aveva

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idea di cosa stesse davvero succedendo o meglio, l’impressione, tragica perché verosimile, era di essere so oposti a un vero e proprio sequestro di persona.

«Non dovete parlare fra di voi! È vietato! Dovete stare in silenzio!» aveva urlato la giovane Guardia rossa che sedeva insieme a loro sul cassone dell’autocarro. A ogni bisbiglio agitava il calcio del fucile minacciando di darlo in faccia a chi violava la consegna del silenzio. Poi, però, il sorvegliante si era addormentato e Xi Zhongxun aveva chiesto all’uomo che gli era accanto: «Dove ci portano?». «Non lo so» era stata la risposta, sussurrata a occhi bassi.

«Ci uccideranno?» aveva continuato Zhongxun. «Non so, penso di no.»Su quel malandato camion c’erano tu i uomini del Partito comunista, che avevano condiviso riunioni e manifestazioni, a volte anche la guerra. Si conoscevano, insomma. Tra alcuni c’era stata una lunga consuetudine, con altri meno.

Xi, in virtù del suo passato, era decisamente l’elemento più prestigioso del gruppo. Sapeva che dall’agosto precedente, dopo i moniti lanciati dal compagno Mao, era iniziata una grande purga, ne aveva parlato con alcuni suoi amici più fidati e ognuno aveva raccontato all’altro quello che aveva sentito in giro. Le giornate scorrevano come sempre, scandite dai turni di un lavoro regolare e tu i facevano finta di nulla. Si parlava poco e lontano da occhi indiscreti, ma l’angoscia tradita dagli sguardi era tanta. Xi aveva paura ma cercava di darsi coraggio e provava a non far trasparire verso la famiglia le sue preoccupazioni. Aveva maturato il convincimento che questa purga, periodica come le altre, avrebbe fa o saltare qualche testa tra i vertici al solo scopo di riassestare i centri del potere comunista.

Lui, la sua purga, l’aveva già subita: dal vertice del partito, era stato esiliato, andando a ricoprire il ruolo di dire ore in un’anonima fabbrica di tra ori. Dalla Ci à Proibita di Pechino, insediamento dei palazzi del potere, al polveroso complesso industriale della ci à di Luoyang, centro abitato della pianura centrale che, pur essendo stata una delle se e capitali cinesi, era retrocessa a capoluogo della provincia di Henan. Oggi è una metropoli con più di sei milioni di

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abitanti ma negli anni Sessanta era un luogo prevalentemente agricolo, con poche fabbriche e a raversata da strade malmesse.

Nel 1962, quando era a capo della propaganda del partito, Zhongxun aveva autorizzato la stampa di un libro commemorativo, la biografia del generale Liu Zhidan, scri a da un accademico di regime, lo storico del comunismo Li Jantong. La pubblicazione era stata decisa per omaggiare uno degli eroi della Lunga Marcia, suo grande amico e compagno. Proveniente da una famiglia di le erati, Liu Zhidan era stato infa i uno dei comandanti più popolari dell’Armata Rossa, e anche un poeta. La prima formazione militare a cui Xi Zhongxun aveva aderito, nel 1933, era stata la sua. Inoltre, Liu Zhidan era stato il fondatore del Soviet di Yanan, la preziosa base territoriale comunista dove Mao, incalzato dai nazionalisti, troverà riparo al termine della Lunga Marcia. La versione ufficiale del regime accreditava la storia che Liu Zhidan fosse morto in comba imento contro i nazionalisti e per questo era stato anche dichiarato «martire della rivoluzione».

Quella che sembrava un’a ività di routine del ministero della Propaganda, l’innocua pubblicazione di un libro commemorativo, come se ne facevano tanti all’epoca, sarebbe diventata invece fonte di seri guai per Xi Zhongxun. Liu Zhidan, come hanno documentato a posteriori alcune fonti, non era morto in uno scontro con i nazionalisti ma era stato fa o uccidere da Mao, il quale lo considerava un potenziale concorrente e ne temeva il prestigio. Il 14 aprile 1936, nei pressi del Fiume Giallo fu colpito dalla pallo ola di un cecchino. In seguito, c’era stata la messinscena della sparatoria con i nazionalisti del Kuomintang.

Per rafforzare la propaganda e la narrazione storica del comunismo cinese, Mao aveva imposto di richiamare esclusivamente alla sua figura l’epica della Lunga Marcia. Pur essendo stato lo sforzo corale di migliaia di militanti, quell’esperienza per certi versi

«fondativa» doveva apparire come la vi oria di un solo leader, poco importava che altri militanti e comba enti avessero rivestito un ruolo chiave sul piano militare e politico.

La vicenda Liu Zhidan ne evocava un’altra, riguardante la figura di Gao Gang, uno dei grandi capi della Lunga Marcia, che con la sua

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autorevolezza di comandante militare si era posto come possibile antagonista di Mao. Epurato nel 1954, Gao Gang si era suicidato nell’agosto dello stesso anno, avvelenandosi. L’episodio era stato talmente lacerante per il partito da guadagnarsi ben presto la definizione di «affare Gao Gang» e, nonostante il tragico epilogo, il comandante lasciò non pochi seguaci.

Gao Gang e Liu Zhidan erano amici, avevano operato a lungo nel Nord della Cina, ma a un certo punto erano finiti nel mirino di Mao, che ne temeva il protagonismo.

Xi Zhongxun si illudeva che quel passato fosse stato dimenticato, che essendo entrambi morti non ci fosse più alcun problema nel pubblicare un libro che ne ricordava le gesta. Si sbagliava di grosso.

Mao temeva anche i fantasmi, poi le gelosie interne al vertice comunista avevano fa o il resto. Qualcuno aveva adombrato l’ipotesi di un complo o messo in opera dall’ala liberale del partito, e in questo senso il libro rientrava in una precisa strategia, tesa a sovvertire il partito e riabilitare la figura di Gao Gang.

Il problema per Xi Zhongxun era di essere stato classificato fra i simpatizzanti di Gao e Liu, ma le cose non stavano proprio così.

Semplicemente, Xi era rimasto legato da affe o e amicizia con i suoi commilitoni dell’epoca della Lunga Marcia. Peccato che nel gioco di ombre e delazioni orchestrato dai potenti cinesi e rinforzato dalle paure ossessive di Mao, bastasse poco per essere equivocati e finire nel tritacarne. Gli era addiri ura piovuta addosso l’accusa di essere la guida di una cricca antipartitica che cospirava contro la Rivoluzione. Il libro era diventato per lui un grosso guaio.

Aveva provato a reagire, a sostenere che si tra ava di un’accusa paranoica ma poi aveva capito che, così facendo, avrebbe soltanto peggiorato le cose, me endo seriamente a rischio se stesso e la sua famiglia. Si era dunque rassegnato a fare autocritica, amme endo colpe e fa i che, in cuor suo, sapeva del tu o falsi. Un calvario di interrogatori e pubbliche confessioni che si era concluso dopo due anni, al termine dei quali era stato spedito per l’appunto a Luoyang.

Era la fine del sogno di una carriera politica di prestigio, per la quale aveva lavorato duramente e a costo di enormi sacrifici, sin dalla

prima militanza nelle fila comuniste. Tu avia, aveva avuto salva la vita e ora poteva ridare serenità alla sua famiglia.

Da quei fa i erano trascorsi cinque anni, durante i quali Xi Zhongxun era stato lontano dai giochi di potere di Pechino. Anzi, aveva pensato bene di recidere ogni legame con i vecchi amici proprio per non alimentare ulteriori sospe i. Si era autoimposto una disciplina di vita spartana. Al ma ino usciva di casa per andare in fabbrica, me endo impegno e scrupolo in quel lavoro che non gli apparteneva.

Soltanto la sera, unica digressione, si concedeva una le ura accurata del «Quotidiano del Popolo», nel tentativo di scrutare, tra le righe degli articoli celebrativi, quei pochi barlumi di verità. Seduto su una malandata poltrona di vimini, Zhongxun analizzava, come fa uno scienziato al microscopio, i necrologi firmati in ordine rigorosamente gerarchico e, come tali, rivelatori degli equilibri di potere esistenti in quel momento. Si fermava a rifle ere, tra sé e sé.

Provando a dare risposte agli interrogativi, i dubbi e i sospe i che la le ura del quotidiano suscitava.

Quando erano giunte le voci di una nuova purga, che andava so o il nome di Rivoluzione Culturale, aveva analizzato la propria situazione, per concludere di essere rimasto assolutamente nell’ombra, insignificante e quindi poco esposto. «Stai tranquilla, non conto più nulla, perché dovrebbero occuparsi di me?» aveva risposto alla moglie, preoccupata quanto lui delle notizie che giungevano da Pechino.