Il pomeriggio del 9 se embre 1976 Xi Jinping è in un’affollata aula insieme a qualche centinaio di studenti per seguire una lezione teorica di chimica. Il docente scrive formule alla lavagna e gli allievi prendono appunti. La lezione è iniziata con i soliti consunti slogan che rendono omaggio al presidente Mao, poi si è passati alla dida ica vera e propria. Alle quindici l’altoparlante invita tu i gli studenti e i docenti a lasciare le aule per radunarsi subito nel piazzale della facoltà. Non accadeva di rado, tant’è che la cosa procurava un certo fastidio agli allievi e ai professori, chiamati ad ascoltare i ripetitivi sermoni ideologici. Questa volta è diverso, a parlare da un microfono, che diffonde la voce a raverso gli altoparlanti, è il re ore. «Mao è morto» dice con la voce ro a dalla commozione. Il silenzio cala sul piazzale. Qualcuno piange, qualcun altro in cuor suo pensa che i disastri di una condo a politica criminale possano finire e che per la Cina possa aprirsi una nuova era. L’evento lu uoso concludeva una fase abbastanza complicata per l’intera nomenklatura cinese.
L’8 gennaio 1976, infa i, alcuni mesi prima della scomparsa del Grande Timoniere, era morto anche il primo ministro Zhou Enlai, fedele esecutore delle volontà di Mao ma politico decisamente più pragmatico e aperto. Ai suoi funerali avevano partecipato due milioni di persone, e il fa o era stato le o come un preciso segnale di dissenso verso Mao. A Zhou Enlai la gente riconosceva di aver
evitato, con la sua moderazione, distruzioni e disastri ancora peggiori. Nel 1971 era caduto in disgrazia Lin Biao, il delfino di Mao, accusato addiri ura di aver proge ato una manovra di palazzo contro di lui. Morirà in un misterioso incidente aereo. Dopo quindici anni di Rivoluzione Culturale, la Cina si era riscoperta in condizioni miserevoli, un cimitero materiale e morale. La retorica di regime continuava a invocarla, ma ormai era un conce o che faceva ribrezzo.
In questo deserto di rovine, nel 1972 era accaduto un fa o positivo: la normalizzazione dei rapporti fra Cina e Stati Uniti, suggellata dalla visita del presidente Richard Nixon a Pechino, nel mese di febbraio. Una svolta a lungo preparata e resa possibile grazie alla so erranea a ività diplomatica del segretario di Stato americano Henry A. Kissinger e del primo ministro cinese Zhou Enlai. L’apertura agli Stati Uniti rispondeva a due esigenze: da un punto di vista economico, solo la ripresa delle relazioni commerciali con l’Occidente avrebbe potuto aiutare la Cina a fuoriuscire dalla miseria; sul fronte militare, occorreva arginare l’espansionismo sovietico, che premeva con il suo potente esercito sul confine se entrionale. Lo sconfinato paese governato da Mao non aveva, di fa o, una vera industria, e la stessa produzione agricola, portata avanti con mezzi antiquati, era regredita ai livelli del 1955.
Il 6 o obre 1976, un mese dopo la morte di Mao, sua moglie Jiang Qing e gli altri componenti della cosidde a Banda dei Qua ro (Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan e Wang Hongwen), vengono arrestati. Per i cinesi sono l’essenza del male, il gruppo che ha avuto un potere di vita e di morte su inermi ci adini e che durante la Rivoluzione Culturale ha ordinato le peggiori nefandezze. Scrive lo storico Kai Vogelsang: «Si concludeva così l’era di Mao Zedong. Il suo bilancio era agghiacciante. A causa della politica di Mao morirono 70 milioni di persone in carestie, guerre e persecuzioni politiche. Un’intera generazione era inselvatichita».7
Nell’agosto del 1977, Hua Guofeng, personaggio grigio e senza un largo seguito, che Mao a sorpresa ha designato come suo successore, dichiara ufficialmente conclusa la Rivoluzione Culturale. La vera,
autentica svolta, per la Cina, inizia con l’avvento al potere di Deng Xiaoping, uno dei riconosciuti capi comunisti della prima ora, da sempre indicato come il leader dell’ala riformista. Nato nel 1904, aveva studiato in Francia e in Russia, poi aveva preso parte alla Lunga Marcia, ai Soviet dello Jiangxi e alla proclamazione della Repubblica Popolare. A dispe o dell’aria pacifica che lo connotava, era stato proprio lui a guidare l’occupazione militare e la repressione in Tibet. Nel 1957 aveva assunto l’incarico di segretario generale del Partito comunista, costituendo con Mao Zedong e Liu Shaoqi il vertice del potere cinese. Dopo il fallimento del cosidde o Grande balzo in avanti, Deng concentra la sua azione sull’economia e o iene alcuni successi, facendo ripartire la produzione agricola.
Tu avia, proprio le sue politiche pragmatiche lo rendono inviso all’ala sinistra, quella che coltiva la purezza rivoluzionaria, al punto tale che la fazione massimalista stuzzica le gelosie e i so spe i di Mao, trasformandolo in un bersaglio da abba ere. Per ben due volte, nel 1966 e nel 1976, Deng Xiaoping viene destituito da tu e le cariche e messo in isolamento.
Nel 1977, dopo la morte di Mao, a Deng vengono restituite tu e le cariche e in breve tempo diventa il nuovo leader della Cina, risolvendo la disputa con l’incapace Hua Guofeng. Nel dicembre del 1978, al terzo Plenum dell’undicesimo congresso del Pcc, è incoronato nuovo «leader supremo» della Repubblica Popolare di Cina, titolo che non esiste nella gerarchia istituzionale ma che viene adoperato per indicare il vero capo. Insieme a Deng, tornano alla ribalta anche tu i coloro che erano stati perseguitati perché in qualche modo legati a lui. Migliaia di membri del partito e semplici funzionari, accusati di essere controrivoluzionari e che per vent’anni erano stati confinati in duri campi di lavoro, vengono liberati. Per parecchi di loro, però, è comunque troppo tardi. Sono già morti.
Se Mao aveva conferito a sé stesso un’aura di ascetismo, costruendo un culto della personalità che lo aveva reso un semidio rosso, Deng è cara erialmente e politicamente lontano da queste suggestioni. Gli interessa un potere sostanziale e poco appariscente.
Da un punto di vista istituzionale, lui è solo il vicepresidente del partito e il vicepremier, anche se manterrà per lunghissimo tempo la
p p p g p carica cruciale di presidente della Commissione militare centrale, che equivale al comando delle forze armate. In ogni caso, al di là degli organigrammi, è il vero, incontestato leader a cui spe a l’ultima parola. Non è un caso che tu i i capi di Stato del mondo, quando si recano in Cina, incontrino lui. Le sue massime, a cominciare da quella celebre – «non importa se il ga o sia bianco o nero, finché ca ura i topi è un buon ga o» – sono la traccia di una svolta ideologica e il punto di partenza di nuove strategie.
Deng non demolisce il mito di Mao, anche se in cuor suo lo disprezza, non vuole strappi, semplicemente lo spegne pian piano.
«Faremo un’obie iva valutazione dei meriti e degli errori del presidente Mao. Ribadiremo che i meriti sono principali e gli errori secondari. Ado eremo un approccio realistico verso gli errori che ha commesso negli ultimi anni della sua vita» dichiara a Oriana Fallaci in una famosa intervista concessa al «Corriere della Sera» del 29 agosto 1980.
Questo testo della giornalista italiana è un documento storico di grande valore: «Mao aveva ragione al 70 per cento e torto al 30 per cento» esordisce Deng. Ma la Fallaci, che, a dispe o di quella sinistra italiana che aveva idealizzato Mao, è rigorosa quanto distaccata, lo incalza: «Ci sono molte cose che noi occidentali facciamo fatica a comprendere. La Banda dei Qua ro è accusata di tu e le colpe. Mi è stato de o che, quando i cinesi parlano della Banda dei Qua ro, molti di loro mostrano cinque anziché qua ro dita della mano». La scri rice italiana fa riferimento al fa o che per la gente comune il quinto della banda è Mao.
«Dobbiamo fare una chiara distinzione tra la natura degli errori del presidente Mao e i crimini di Lin Biao e della Banda dei Qua ro»
replica il prudente Deng, maestro degli artifici diale ici. E aggiunge:
«Per la maggior parte della sua vita il presidente Mao ha fa o cose buone… Sfortunatamente, verso il tramonto della sua vita, in particolare durante la Rivoluzione Culturale, egli commise degli errori – e non erano di poco conto – che arrecarono molte sventure al nostro partito, al nostro Stato e al nostro popolo. L’errore del presidente Mao fu un errore politico – e non un piccolo errore.
D’altra parte, della “Rivoluzione culturale” approfi arono due
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cricche controrivoluzionarie guidate da Lin Biao e dalla Banda dei Qua ro, che tramarono per usurpare il potere. Per conseguenza noi dovremmo tracciare una ne a linea di demarcazione fra gli errori del Presidente Mao e i crimini di Lin Biao e la Banda dei Qua ro».8 Deng è un funambolo delle parole e la Fallaci gli obie a che Lin Biao era stato il delfino di Mao.
Deng Xiaoping vuole condurre la Cina su una strada nuova ma è consapevole che, facendolo in maniera brusca, scatenerebbe reazioni pericolose. Il primo a o politico forte è il lancio delle «Qua ro modernizzazioni» (riguardanti agricoltura, industria, difesa nazionale e scienza) che diventano una scelta ufficiale alla terza sessione plenaria del Comitato centrale del Partito comunista nel 1978.
Fra gli esponenti politici riabilitati durante questa nuova stagione politica poi riba ezzata «Primavera di Pechino», c’è proprio Xi Zhongxun, e non poteva essere altrimenti, tra andosi di uno dei personaggi maggiormente legati alla fazione politica di Deng Xiaoping. Già nell’ultima fase del periodo maoista, nel 1974, la sua posizione si era alleggerita perché era stato deciso di avviare una nuova indagine sul caso ormai rinomato del libro dedicato al generale Liu Zhidan.
Nel marzo del 1978, dopo oltre quindici anni di isolamento e un lungo periodo trascorso in una comune di detenzione, Xi Zhongxun è completamente riabilitato in occasione del terzo Plenum dell’undicesimo congresso del Partito comunista, lo stesso che incorona Deng. Zhongxun viene anche ele o membro del quinto Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, di cui poi diventa vicepresidente. È una riabilitazione totale, che prelude a ulteriori incarichi.
Deng Xiaoping ha su di lui idee precise, ne ricorda le capacità di amministratore e quelle di mediatore. La politica del nuovo leader supremo ha dire rici molto chiare: deideologizzare la società cinese, liberandola da quelle costruzioni mentali imposte dalla Rivoluzione Culturale; puntare allo sviluppo economico, capace di far uscire la Cina dalla miseria. Non è un caso che in questo disegno di
rinnovamento su larga scala le riforme economiche siano collocate al primo posto. Nel 1982 vengono abolite le gigantesche comuni agricole tanto care a Mao, il latifondo comunista cede il passo a piccole imprese agricole a conduzione familiare e i contadini tornano a coltivare la «loro» terra (sia pure so o forma di affi o per cinquant’anni), lavorandola secondo un’autonoma organizzazione. I risultati arrivano subito: la produzione aumenta e viene migliorata la qualità dei prodo i, il partito lancia lo slogan «arricchire è glorioso», che fino a qualche anno prima sarebbe stato considerato un’eresia impensabile.
Sempre nel 1978, viene dichiarata chiusa e fallita la politica di autosufficienza economica nazionale: la Cina comincia ad aprire ai capitali stranieri, sopra u o americani e tedeschi, consentendo graduali investimenti. Inoltre, aderisce al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale.
A partire dal 1984, le riforme vengono introdo e anche nelle aree metropolitane, dove si consente la creazione di piccole imprese commerciali e industriali, dapprima limitate a se e dipendenti, poi dal 1988 senza più alcun vincolo. I cinesi hanno sempre avuto una millenaria vocazione ai commerci e colgono immediatamente le nuove opportunità, dando vita a migliaia di piccole aziende. Col tempo, anche le mastodontiche imprese pubbliche cominceranno a disme ere pezzi dei loro apparati, cedendoli a privati. È una rivoluzione, l’inizio del «miracolo cinese», che ha anche concreti risvolti sociali. Un numero sempre più ampio di ci adini che per decenni avevano ritenuto il massimo privilegio possedere una bicicle a, adesso possono acquistare un televisore, un frigorifero e in alcuni casi persino un’automobile.
Tra il 1979 e il 1980 verranno varate le cosidde e «zone economiche speciali», aree geografiche dove la politica dell’iniziativa privata è sviluppata in maniera più accentuata, puntando sopra u o ad a rarre investimenti privati stranieri, con manodopera a basso costo e insediamenti abitativi vantaggiosi. Le zone speciali vengono situate a Shenzhen, a Zhuhai, a Shantou e a Xiamen, ma quella di gran lunga più importante per i risultati che o errà è quella di Shenzhen, nella provincia del Guangdong. L’aspe o interessante da
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so olineare è che tra i protagonisti di questo ambizioso proge o, ritroviamo una nostra vecchia conoscenza, Xi Zhongxun, il padre di Jinping.
È a lui infa i che Deng Xiaoping intende affidare il delicato esperimento. Zhongxun lascia Pechino, dove era ritornato a stare dopo tanti anni, e raggiunge la provincia di Guangdong, per assumere l’incarico di secondo segretario del Comitato provinciale del partito. La sua ascesa è rapidissima, perché nel giro di alcuni mesi è già il primo segretario, mentre nel dicembre del 1979 viene ele o dalla seconda sessione del Congresso del popolo del Guangdong governatore della provincia, incarico a cui associa anche quello di commissario politico della regione militare di Guangzhou (Canton). Una concentrazione di ruoli che gli assicura un grande potere autonomo, molto più sostanziale di quello che si può o enere in uno dei tanti apparati di Pechino.
Le biografie ufficiali di Xi Jinping insisteranno molto sul ruolo avuto dal padre nell’avvio delle riforme economiche, al punto di averlo indicato come il vero inventore delle «zone economiche speciali». L’a ribuzione, in realtà, appare un po’ eccessiva ma che Xi Zhongxun sia entusiasta di poter dare il suo contributo in qualità di dirigente comunista di lungo corso, è fuori di dubbio. «Non possiamo darti risorse economiche da Pechino ma una certa libertà di movimento» gli dice Deng nell’incontro in cui lo investe di questa missione. Quando arriva nella provincia costiera della Cina orientale di Guangdong, il locale governo provinciale sta lo ando per fermare la fuga della popolazione verso la confinante Hong Kong, all’epoca ancora colonia britannica. Tu i vogliono passare dall’altra parte, perché le retribuzioni giornaliere sono incomparabilmente più alte.
Giunto a Shenzhen, principale ci à del Guangdong, Zhongxun è costre o a riconoscere, suo malgrado, la nuda e spietata ogge ività dei fa i: mentre Hong Kong pullula di affari e ricchezza, nei territori cinesi non vede che miseria e degrado. È a questo punto che, cercando di convincere i vertici del partito, comincia a chiedersi, in maniera sempre più insistente: perché non possiamo fare anche noi quello che hanno fa o loro? In fondo, dice tra sé e sé Zhongxun,
l’o anta per cento della popolazione di Hong Kong è fa a di cinesi cantonesi...
Tornato a Pechino per una serie di riunioni, Xi spiega ai rilu anti esponenti del governo nazionale che lo status di «zona speciale»
deve essere inteso come una «zona di libero mercato». «Direte che voglio aprire al capitalismo, sovvertendo uno dei dogmi della nostra ideologia ma io voglio solo liberare le capacità economiche dei cinesi» afferma con coraggio. Nella Cina dell’epoca la posizione che esprime Zhongxun rappresenta ancora un tabù, ma Deng ascolta con interesse, perché già intravede la possibilità di sviluppare – magari in maniera molto graduale – un sistema ibrido e mai davvero sperimentato da nessuna nazione: l’economia socialista di mercato.
Xi Zhongxun chiede anche che il governo provinciale sia lasciato libero di negoziare con le imprese e gli investitori stranieri, prescindendo dalla politica estera di Pechino. Dopo poche se imane, viene chiesto a Xi di proporre uno statuto formale per regolamentare le a ività di tu e le «zone speciali». Nel luglio del 1979 il documento da lui elaborato sarà approvato dal Comitato centrale del partito e poi dal Consiglio di Stato, diventando una pietra miliare di questa storica svolta economica.
L’esperimento delle «zone economiche speciali» si rivelerà un successo, tant’è che oggi Shenzhen, e in generale tu o il Guangdong, sono tra le aree più ricche della Cina, dove si registrano i più alti livelli di reddito pro capite. Qui si sono sviluppate le industrie tecnologiche cinesi e le multinazionali americane. Qui, nel 1990, è nato il Shenzhen Stock Exchange, autonomo mercato finanziario, una delle tre Borse valori della Cina (insieme a quella di Shanghai e Hong Kong).
Com’era prevedibile, gli straordinari risultati conquistati sul campo valgono a Xi Zhongxun l’ingresso nelle sfere più alte della politica cinese. Nel 1981 torna a Pechino, dove viene ele o deputato all’Assemblea nazionale del popolo (il Parlamento cinese), o enendo la presidenza della Commissione legislativa. In tale ruolo, supervisiona l’approvazione e la stesura di molte leggi in materia di liberalizzazione economica.
Nel se embre del 1982, corona la sua lunga ma anche travagliata carriera politica entrando nel Politburo (l’Ufficio politico) del Partito comunista, la stanza dei bo oni, la sede del potere comunista dove si assumono le decisioni più importanti, quelle che ricadono sulla vita di oltre un miliardo di individui. Non per questo, Zhongxun può considerarsi finalmente al sicuro. Se da una parte i successi del Guangdong lo hanno consacrato tra i leader della nuova Cina, dall’altra ne hanno fa o anche il bersaglio preferito dell’ala sinistra, la più conservatrice, del partito, che vede nelle «liberalizzazioni economiche borghesi» un «inquinamento spirituale» del comunismo. Deng, che in privato incoraggia le riforme, in pubblico si pone come mediatore e di tanto in tanto, secondo la prassi del suo machiavellismo politico, è anche disponibile a sacrificare qualche pedina della fazione, quella riformista, che in cuor suo sente più vicina.
Ma c’è anche dell’altro. Nel 1987, deflagra il caso Hu Yaobang, il segretario del Partito comunista costre o alle dimissioni perché accusato di portare avanti posizioni troppo liberali in materia economica e di aver tentato, con la sua condo a riformista, di destabilizzare il dogma del partito unico. Figlio di poveri contadini, Hu era un comunista della prima ora, che, ancora adolescente, si era unito alle formazioni comba enti del partito negli anni Trenta. Poi, con il passare degli anni, era diventato il militante più vicino a Deng Xiaoping, una sorta di suo braccio destro, e ne aveva seguito le ascese e le discese. Negli anni Cinquanta, gli era stata affidata la guida della Lega dei giovani comunisti ma con l’arrivo della Rivoluzione Culturale anche lui era stato epurato, finendo a dare da mangiare al bestiame in una comune agricola. Quando Deng viene richiamato nel ruolo di vicepremier nei primi anni Se anta, Hu lo segue a Pechino e o iene incarichi di primo piano, ma viene riepurato insieme al suo mentore. Dopo la morte di Mao, con il decisivo ritorno ai vertici del potere di Deng Xiaoping, Hu Yaobang è nominato segretario generale del Partito comunista, di fa o il numero due del regime.
Pur sposando in pieno la linea delle riforme economiche e collaborando a ivamente con Xi Zhongxun, con il quale già da
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decenni è in stre o rapporto di amicizia, facendo parte entrambi della cerchia di Deng, Yaobang diventa protagonista, insieme ad altri, di una disputa ideologica che infiamma la politica cinese degli anni O anta, spacca lo stesso fronte riformista e che ruota intorno a una domanda cruciale: se cioè le riforme economiche debbano rimanere solo tali, o preludano, dopo la formazione di un ceto medio dalle cara eristiche ben definite, a riforme anche politiche. Per alcuni, la riorganizzazione dell’economia, con l’apertura al mercato, è solo lo strumento per uscire dalla miseria delle carestie e garantire ai cinesi condizioni di vita più decenti. Per alcune punte più avanzate del riformismo, invece, i cambiamenti economici sono la premessa di quelli politici. Hu Yaobang, tra lo sconcerto del gruppo dirigente, dichiara che il marxismo non è immune da errori e che alcuni aspe i della vita in Occidente sono da apprezzare.
Alla fine del 1986, migliaia di giovani studenti scendono in piazza
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