Nulla fa presagire che possa accadere qualcosa quella no e del 7 luglio 1937. L’unica realtà è un caldo torrido. Per il distaccamento giapponese di sorveglianza al ponte Marco Polo è un giorno come gli altri. Sono dieci gli uomini, comandati da un sergente, che devono restare svegli fino all’alba. Sei sono comodamente seduti accanto alla mitragliatrice, appoggiati ai sacchi di sabbia che le fanno da corona.
Gli altri qua ro, a due a due, vanno su e giù per il ponte in direzioni inverse, con il fucile in spalla. Gli altri militari del presidio, oltre cento, dormono in una casa accanto al ponte, requisita alla municipalità locale.
Da tempo i giapponesi avevano terrorizzato in maniera brutale gli abitanti della zona di Lugouqiao, con arresti ingiustificati, in alcuni casi con torture e uccisioni. La lezione era servita, adesso ritenevano che nessuno avrebbe osato sfidarli. Avevano avvertito che a ogni timido a acco avrebbero risposto con una violenta rappresaglia. Per i cinesi quel ponte che portava il nome del grande esploratore veneziano è un simbolo, oltre che una bellezza artistica. È una memoria dello splendore imperiale. Si chiamava originariamente ponte del Fosso Nero ma poi aveva preso il nome del celebre viaggiatore italiano che lo aveva elogiato nel Milione per le sue particolari linee archite oniche e gli oltre qua rocento leoni decorativi che ornano la balaustra, simboli del potere. Ricostruito e in parte modificato nel 1698 su ordine dell’imperatore Qing con le undici arcate a uali, il ponte e il luogo in cui sorge sono stati anche fonte di ispirazione per artisti e scri ori, che vi hanno ambientato i loro poemi romantici.
Il ponte si trova in una posizione strategica perché consente di a raversare il fiume Yongding, un affluente del fiume Hai, sulla strada che collega Pechino alla valle del Fiume Giallo.
Quella no e di luglio i pochi soldati giapponesi di presidio sono convinti che tu o sarebbe trascorso tranquillo. C’è solo da a endere l’alba per il cambio di guardia e poi andare finalmente a dormire.
Non c’è alcun rumore, solo il fruscio dell’acqua che scorre. Il sergente guarda l’orologio da polso illuminandolo con una torcia.
Eppure, in quella quiete le cose cambiano all’improvviso. Alle qua ro e mezzo un crepitio di colpi rimbalza sui lastroni di pie tra che pavimentano il ponte, qualcuno sta sparando da una delle due rive. È buio. Chi ha aperto il fuoco è prote o dall’oscurità e dalla fi a vegetazione. I giapponesi provano a rispondere ma non riescono a capire da quale direzione arrivino i colpi, l’ordine è quello di ge arsi subito a terra. L’episodio è poco più di una scaramuccia, dura meno di un minuto, eppure entrerà nella storia perché, dopo mesi di tensione, segna l’inizio della Seconda guerra sino-giapponese. Come l’incidente di Mukden del 1931 era stato l’occasione per scatenare l’invasione della Manciuria, così la sparatoria del ponte Marco Polo diventa il casus belli per invadere, in base a un piano preordinato da tempo, quelle parti della Cina ancora non assogge ate a Tokyo.
L’a acco viene addebitato alla resistenza cinese, e per i giapponesi dell’epoca, fedeli a un sistema di pensiero retorico e guerrafondaio, si tra a di un inammissibile gesto di sfida che merita una rappresaglia.
Gli storici, però, si sono a lungo interrogati sulla reale dinamica dei fa i, avanzando l’ipotesi che l’incidente fosse stato provocato dagli stessi giapponesi, allo stesso modo dei tedeschi con il falso a acco di Gleiwi , quando il 31 agosto 1939, travestiti da soldati polacchi con le divise di Varsavia, simuleranno un a acco alla stazione radio della ci adina della Slesia meridionale.
Per Tokyo, provocato o meno, l’incidente sul ponte diventa il pretesto per dare avvio a una «guerra lampo», che non pochi studiosi indicano come l’inizio della Seconda guerra mondiale in Asia. L’ondata giapponese è inarrestabile: il 29 luglio già occupano Pechino, immediatamente dopo Tianjin (Tientsin), il più importante porto della Cina se entrionale. I nipponici si impossessano delle strade principali e delle reti ferroviarie. Sebbene l’esercito nazionalista sulla carta fosse poderoso, con un milione e
se ecentomila effe ivi, più cinquecentomila riservisti, la superioritàp tecnologica e operativa dei giapponesi si rivela schiacciante.
D’altra parte, nei mesi precedenti la Cina era stata ulteriormente indebolita da uno strano episodio che prende il nome di «incidente di Xian». Nell’o obre del 1936, infa i, Chiang Kai-shek aveva esortato il generale Zhang Xueliang, signore della guerra della Manciuria e figlio di Zhang Zuolin, a intraprendere un’azione militare per annientare definitivamente le basi comuniste nel Nord dello Shaanxi. Zhang disponeva di un nutrito esercito di quasi duecentomila uomini, ben equipaggiato. L’a acco era stato più volte promesso ma mai concretizzato e Chiang, per rompere la rilu anza del generale alleato, si era recato di persona a Xian, sede del quartier generale.
Accolto all’apparenza con grandi onori, Chiang era stato subito dopo messo agli arresti in una residenza di lusso. Zhang Xueliang aveva fa o sca are quello che verrà definito il «rapimento di Chiang».
Zhang, ex signore della Manciuria, ha sempre in mente la riconquista della sua terra e subordina il rilascio del «suo leader»
all’acce azione di una serie di condizioni, prima fra tu e la creazione di un fronte unitario con i comunisti per comba ere i giapponesi, poi la costituzione di un governo di unità nazionale e la liberazione dei detenuti politici. Mao suggerisce a Zhang Xueliang di uccidere Chiang Kai-shek, prenderne il posto e tra are con lui. Il governo nazionalista di Nanchino è sconcertato e tentennante, si divide tra chi vuole l’immediata rappresaglia militare e chi, come la moglie di Chiang, teme per le sorti del sequestrato.
Alla fine, la questione si risolve per intervento dell’Unione Sovietica, il principale sponsor dei comunisti cinesi ma con forti influenze anche sui nazionalisti. Un telegramma da Mosca ordina di liberare Chiang Kai-shek e di lavorare insieme a lui alla costruzione di un fronte unitario contro il Giappone.
Zhang Xueliang è costre o a seguire Chiang a Nanchino, dove subirà la corte marziale e una lunga detenzione domiciliare, fino al 1991, a Taiwan. Morirà nel 2001, a cento anni, alle Hawaii, e oggi è
celebrato dal Partito comunista come un eroe nazionale, proprio per il rapimento di Xian.
Sul piano ta ico, Zhou Enlai è favorevole a una guerra a tu o campo contro i giapponesi e a una fa iva collaborazione con i nazionalisti nel «fronte unitario», Mao frena, spinge per una guerriglia mobile e ha il solo vero obie ivo di consolidare la forza armata comunista ed espandere la sua area di influenza. I comunisti si espandono in varie aree della Cina se entrionale creando nuove basi nello Shaanxi-Chahar-Hebei, nello Shaanxi-Suyiuan e anche nello Shandong.
Nel dicembre del 1936, Zhou Enlai per la parte comunista e Chiang Kai-shek per il Kuomintang so oscrivono formalmente un accordo che sancisce la fine degli scontri e un’alleanza in chiave antigiapponese. L’ordine impartito da Mosca ai comunisti cinesi è chiaro: «È sbagliato tra are Chiang Kai-shek alla stregua dei giapponesi […] Dovete adoperarvi per la cessazione delle ostilità tra l’Armata Rossa e l’esercito di Chiang Kai-shek e per la firma di un accordo […] in funzione di una lo a congiunta antigiapponese».17 A Stalin, almeno di facciata, non si può dire di no.
Il Kuomintang, per effe o di questo pa o, riconosce anche la potestà del Partito comunista sulla sua «base», sancendo il diri o ad avere una sua zona d’influenza autonoma, denominata il Soviet di Yanan, che riunisce le province di Shaanxi, Gansu e Ningxia, l’area in cui era giunto Mao al termine della Lunga Marcia, e i successivi allargamenti. Il pa o, però, non si trasforma in un’unità sostanziale d’intenti nella guerra al Giappone. I nazionalisti vengono lasciati soli a fronteggiare l’onda d’urto nipponica e la poderosa macchina bellica di Tokyo, mentre Mao consolida le sue posizioni e l’armamento.
L’8 agosto 1937 cade Pechino. In realtà i giapponesi non intendono conquistare tu a la Cina perché non avrebbero uomini e mezzi per controllare un paese così sterminato. Vogliono presidiare i centri nevralgici e le zone minerarie, dalle quali depredare materie prime. Tra la fine di agosto e gli inizi di se embre i nipponici ammassano navi e truppe nella loro concessione di Shanghai, in
vista di un’occupazione totale della ci à. Concentrano una forza di oltre centomila uomini, oltre che una flo a aeronavale. A Shanghai è di stanza anche una consistente forza dell’Esercito nazionalista, le formazioni militari migliori, volute lì da Chiang Kai-shek, che conosce il valore simbolico di questa ci à ed è deciso a resistere, almeno per un certo tempo, per dimostrare al mondo che la Cina esiste.
I giapponesi avevano dichiarato di poter prendere Shanghai in tre giorni, impiegano, invece, tre mesi. La ba aglia è durissima, i nazionalisti cinesi obbligano Tokyo a raddoppiare l’entità della forza impiegata, oltre duecentomila soldati, e a subire perdite pesantissime.
La seconda preda, la più ghio a, subito dopo Shanghai, è Nanchino, la capitale della Repubblica nazionalista di Cina, la sede ufficiale del governo e del santuario che ospita i resti del padre della patria Sun Yat-sen. Il 13 dicembre i giapponesi entrano in ci à e nei giorni successivi all’occupazione si abbandonano a uno degli episodi più bui ed esecrabili della storia dell’Asia, il cosidde o «massacro di Nanchino». Per sei se imane, uccidono uomini, donne e bambini, con l’aggravante degli stupri di massa. Il tribunale militare internazionale dell’Estremo Oriente che ha giudicato i responsabili dopo la guerra ha avanzato la cifra di duecentomila vi ime, parlando di una vera e propria «orda barbarica».18
Gli anni che vanno dal 1937 al 1941 sono i più duri per la Cina. I nazionalisti perdono ampie fe e di territorio ma non capitolano, il Kuomintang porta la capitale a Chongqing e rifiuta un tra ato di pace con Tokyo. Agli inizi del 1939, i cinesi riescono anche a o enere alcune vi orie a Changsha e Guangxi.
La maggiore sofferenza è dovuta alla mancanza di un apparato industriale in grado di produrre armi, anche perché le poche aree produ ive sono proprio quelle occupate dal Giappone. Per effe o del Pa o di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica (il famigerato accordo Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939) sia i nazionalisti, sia i comunisti vedono anche ridurre le forniture di armamenti da parte di Mosca.
Come si sa, le sorti del confli o tra cinesi e giapponesi sarebbero mutate radicalmente per effe o dell’a acco nipponico alla base navale degli Stati Uniti di Pearl Harbor (dicembre 1941) preceduto dall’a acco della Germania all’Unione Sovietica (giugno 1941). La Cina diventa di fa o alleata delle nazioni che si oppongono all’Asse.
Prendono corpo programmi militari di ingenti forniture da parte americana, sovietica e britannica e sopra u o la guerra nel Pacifico rallenta in maniera consistente l’azione giapponese in Cina.
Mao pone in essere una strategia camaleontica, tesa a simulare le sue reali intenzioni, abbandona il radicalismo comunista e proclama la priorità della guerra patrio ica contro i giapponesi. In realtà, da una parte invoca gli aiuti americani e dall’altra non intende irritare i sovietici, impegnati in un sanguinoso confronto con la Germania nazista.
Durante la Seconda guerra mondiale, Xi Zhongxun rimane in una posizione relativamente tranquilla. Non partecipa alle operazioni della resistenza antigiapponese ma presta la sua opera nel partito, all’interno dell’area del Soviet di Yanan. Si occupa, come riporta anche la sua biografia ufficiale, quella consolidata dalla tradizione e dalla propaganda di partito, di «gestire gli affari civili» e garantire gli approvvigionamenti militari. È un o imo uomo di apparato, a ento a far funzionare bene le linee di rifornimento dall’Unione Sovietica verso la Cina. Nella sua biografia si insiste anche sul fa o che in quel periodo Xi Zonghxun sia stato un riformista, capace di
«resistere all’estremismo di sinistra nell’a uazione delle dire ive interne».