DEI CULTURAL STUDIES SUL COLONIALISMO ITALIANO
2. Breve profilo storico del colonialismo italiano in Africa
Prima di addentrarci nell’analisi dello stato dell’arte dei cultural studies sul colonialismo italiano, offriamo un breve profilo storico della vicenda coloniale nazionale in Africa,21 utile al fine di comprendere con maggiore chiarezza gli argomenti trattati nel corso del nostro lavoro, oltre che le cause delle alterne vicende che ne hanno segnato la storiografia dal dopoguerra ad oggi (Par. 3).
L’interesse dell’Italia nei confronti dell’espansione del proprio territorio nasce in notevole ritardo rispetto alle altre potenze europee. Nonostante fosse appena uscita dal processo di unificazione e ancora afflitta da problemi economici e sociali, l’Italia di fine Ottocento non si lascia sfuggire l’occasione di partecipare allo scramble for
Africa, in cui vede un possibile sollievo dai problemi interni e l’opportunità di sedere
al fianco dei governi imperialisti. La scelta si rivela, però, incauta e avventata, con gravose ripercussioni. L’esperienza coloniale italiana conosce infatti una durata limitata, che si esaurisce nel giro di circa sessant’anni, tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, e un’estensione ridotta a «quei lembi di terra lasciati liberi dalle altre potenze europee» [Rosoni 2006, p. 32], ovvero poco redditizi e difficili da tenere sotto controllo.22 Le difficoltà di governo dei territori coloniali a causa della resistenza delle popolazioni indigene - tutt’altro che in attesa di forze liberatrici o civilizzatrici -, complicate dalle distorsioni dell’ideologia razzista, causano le azioni criminose e violente dei dominatori che si cercherà in seguito di oscurare in nome di un colonialismo bonario e salvifico per gli africani.
La storia del colonialismo italiano in Africa si può riassumere in poche date ravvicinate: la “colonia primigenia”, l’Eritrea, viene fondata nel 1890, in seguito all’accorpamento di singoli protettorati (1882-1890); nel 1889 l’Italia conquista la Somalia, nel 1911 la Libia e, infine, nel 1936, l’Etiopia, l’ultimo Impero d’Africa, bramato dagli italiani sin dall’inizio, ma in grado di resistere strenuamente agli attacchi. Il duro colpo inferto ad Adua nel 1896 dal Paese del Negus, infatti, resta a
21 Per una trattazione approfondita e documentata sulla storia del colonialismo italiano si rimanda a:
Del Boca 1976-1982; 1986; 1988. Per un’argomentazione più sintetica supportata dall’analisi di documenti ufficiali pubblicati nel testo si rimanda a Goglia - Grassi 1981; uno sguardo complessivo in un’ottica postcoloniale è offerto da Aruffo 2007.
22 Lo storico Nicola Labanca ha affermato che «Rispetto agli altri imperi coloniali europei, l’oltremare
italiano si rivelò [...] oltre che uno dei più circoscritti geograficamente, uno dei più poveri economicamente e dei meno vantaggiosi a livello generale» [Labanca, in Aruffo 2007, p. 11]
lungo per l’Italia un evento da vendicare. Durante il secondo conflitto mondiale, l’Italia, sempre più osteggiata dalla resistenza delle popolazioni locali, perde progressivamente tutti i domini, caduti in mano britannica, pagando duramente i debiti di un investimento azzardato, protratti fino all’era attuale.23
L’impresa coloniale italiana in Africa conosce due fasi principali, la prima sotto il governo liberale (1882-1921), l’altra sotto quello fascista (1922-1943). La prima fase è inoltre preceduta da un periodo precoloniale attraverso l’iniziativa di viaggiatori, missionari e avventurieri della seconda metà dell’Ottocento, in seguito supportati da organizzazioni e associazioni «a carattere esplorativo e espansionistico», come la Società Geografica Italiana [Aruffo 2007, p. 21]. Due sono le aree geografiche d’interesse: il Mar Rosso e il Mar Mediterraneo, nodi strategici per i traffici con l’Oriente. Se la prima fase si caratterizza, almeno nel primo periodo, per il tentativo di mediare tra gli ideali risorgimentali e il desiderio di affermazione del prestigio a livello internazionale, con il fascismo si inaugura una politica di potenza che si riflette nella riorganizzazione della società coloniale secondo il modello giuridico-ideologico del dominio diretto. Durante entrambe le fasi, non poche sono le difficoltà di occupazione e di controllo dei territori assoggettati. Un’ampia circolazione di notizie e immagini, infarcite di stereotipi e luoghi comuni, guida lo sguardo verso l’ “Altro” nella direzione di un consolidamento del consenso per la «missione civilizzatrice dell’Italia» nel continente africano [Aruffo 2007, p. 23]. Miti e leggende prendono forma sin dalla fase precoloniale, quando la fascinazione per l’Africa si alimenta attraverso le letterature coloniali inglese e francese [Aruffo 2007, p. 23] per nutrirsi attraverso i diversi canali mediatici moltiplicati durante il fascismo, inquinati dallo sguardo razzista ufficializzato a livello legislativo.
Dopo un debole esordio sotto il governo Depretis, la politica coloniale conosce una prima svolta con il suo successore, Francesco Crispi (1887-1891). Con Depretis il bottino coloniale si limita a piccoli protettorati nel Corno d’Africa, finalizzati prevalentemente ad un «prolungamento di una politica mediterranea triplicista fondata sulle basi commerciali» nel Mar Rosso [Aruffo 2007, p. 27] e funzionali esclusivamente ad una politica di prestigio. L’interesse dell’Italia ad un rafforzamento nel Mediterraneo, nel frattempo, è seriamente minacciato dalla conquista francese della Tunisia: la perdita della possibilità di uno sbocco nordafricano sul mare nostrum, avrebbe definitivamente escluso l’Italia dai rapporti commerciali con l’Oriente.
Crispi inaugura una politica d’intervento [Aruffo 2007, p. 24] che, tuttavia, si rivela dannosa per il Paese: attraverso un’abile strategia di avvicinamento all’Etiopia, l’Italia si aggiudica altre porzioni territoriali abissine che entrano a far parte della colonia Eritrea (dal nome latino del Mar Rosso), fondata nel 1890. Il territorio è in realtà composto da un mosaico di etnie che condividono soltanto l’area geografica di appartenenza ma che differiscono ampiamente per modi di vita, sistemi produttivi, culto, e di cui i dominatori ignorano la «composita configurazione» [Aruffo 2007, p. 34].24 La «supponenza militaristica» [Aruffo 2007, p. 15] e la scarsa valutazione dell’avversario, tuttavia, conducono ad una dura sconfitta nel tentativo di conquistare l’Etiopia e la campagna si chiude con una gravosa perdita da parte delle truppe italiane ad Adua, che segnerà profondamente la storia del colonialismo italiano; la disfatta verrà riscattata soltanto quarant’anni dopo, sotto il regime imperialista di Mussolini. La sconfitta di Adua, «la più pesante imposta ad un esercito europeo “bianco”, cristiano nel continente» [Aruffo 2007, p. 38], inaugura «la parabola discendente» della prima fase dell’espansione in età liberale e inoltre fomenta il risentimento e l’atteggiamento di disprezzo nei confronti del nemico africano [Aruffo 2007, p. 39]. Lo «stereotipo mostruoso», confezionato dai primi militari e viaggiatori [Aruffo 2007, p. 26] gonfi di «alterigia razzista» [Aruffo 2007, p. 38], si rafforza con la dura disfatta, influenzando le rappresentazioni nella madrepatria.
La volontà di vendicare Adua e di «affermare, con la forza, il prestigio italiano nel Mediterraneo» [Aruffo 2007, p. 47], sospinge anche l’espansione in Libia, al tempo sottomessa al dominio ottomano. La conquista della Libia, avallata dai giochi di forza delle grandi potenze europee, giunge a compimento sotto il governo di Giovanni Giolitti. Un ruolo significativo rivestono certi riferimenti storico-ideologici (presenza di resti dell’antica Roma sul territorio libico, insediamenti di ristrette comunità italiane) e il supporto del Banco di Roma con le sue filiali in Nordafrica. Anche l’appoggio degli ambienti intellettuali si rivela fondamentale per il consenso popolare nei confronti dell’impresa coloniale in Libia: i Futuristi ne esaltano la possibilità di redenzione attraverso la guerra (definita la «sola igiene del mondo»), il giornale «Il Regno» di Corradini sostiene l’evoluzione del patriottismo risorgimentale in nazionalismo colonialistico, mentre «L’Idea Nazionale» trova nella “questione di Tripoli” un termine di confronto per il nazionalismo [Aruffo 2007, p. 48]. Il futuro
24 Alla fine del periodo coloniale, dalla forzata coabitazione delle diverse popolazioni scaturisce un
dell’Italia potenza dominatrice nel Mediterraneo è inoltre celebrato attraverso le plurivoche manifestazioni dell’espressione artistica (letteratura, musica popolare, arti figurative), oltre che mass-mediatica. Per la guerra di Libia convergono tutti gli strati della società (ceti industrali, borghesia, proletariato), attraverso un’«alleanza politico- ideologica» espressa «nella formula dell’Italia proletaria» che anticipa il consenso popolare intorno alla guerra d’Etiopia del periodo successivo [Aruffo 2007, p. 48]; vi aderiscono anche gli ambienti cattolici nell’ottica della ripresa della persecuzione cattolica del turco infedele. In un «collegamento storico-mitico-ideale» la Quarta Sponda rappresenta, infine, l’ultimo anello di congiungimento con le conquiste dell’antica Roma e le repubbliche marinare [Aruffo 2007, p. 48].
Come anticipato, la reazione degli indigeni non è quella palesata attraverso i
media e la stampa. Gli arabi non accolgono gli italiani come bramate forze liberatrici
dal giogo del dominio ottomano e oppongono una dura resistenza al governo coloniale sia durante la conquista25 che successivamente, soprattutto in Cirenaica, la regione orientale della costa che affaccia sul Mediterraneo. Negli anni successivi il dominio in Nordafrica vacilla: nonostante le dure e spietate misure repressive adottate dagli invasori e i tentativi di corruzione dei notabili locali, la resistenza libica riesce ad organizzarsi e a mettere a dura prova le truppe italiane. In quest’atmosfera si rinforza lo stereotipo dell’arabo infido e traditore, alimentato dall’«anti-islamismo degli ambienti cattolici» [Aruffo 2007, p. 55].
Con l’avvento del fascismo le aspirazioni di potenza imperialista dell’Italia si rafforzano e la politica coloniale viene addotta a parziale soluzione dei problemi interni (incremento demografico e sottoccupazione). La volontà di Mussolini di «trapiantare in terra africana una “nuova civiltà”, ad un tempo “romana e fascista”», si concretizza nell’adozione del modello del dominio diretto e con la strategia della trasformazione delle colonie - soprattutto la Libia, prolungamento “naturale” della madrepatria - in “colonie di popolamento”. Dopo la “riconquista” del territorio libico, segue una lunga fase di pacificazione, prima militare (terminata nel 1932), poi civile, che si conclude con la realizzazione dell’ambizioso progetto migratorio dei ventimila coloni (1938) sotto il governo di Italo Balbo (1934-40). Quest’ultimo, nella rinnovata situazione in colonia, tenta anche di recuperare il rapporto con gli indigeni nell’ottica
25 Ne resta memoria nella raccolta La battaglia di Tripoli di Marinetti, il quale partecipa alla guerra di
di una politica collaborazionista con gli arabi e di «attutire gli effetti pratici della legislazione antiebraica» della madrepatria [Aruffo 1938, p. 71].26
Nel frattempo, la frustrazione per la sconfitta di Adua prende la forma di un nuovo attacco all’Etiopia. Dopo aver abilmente attirato le simpatie del Negus, sottoscrivendo un trattato di amicizia e appoggiandone l’entrata nella Società delle Nazioni, l’Italia di Mussolini organizza una lunga campagna aggressiva della durata di sette mesi (ottobre 1935 - maggio 1936), alla fine della quale dichiara la fondazione dell’Impero. Un’intensa propaganda, realizzata attraverso tutti i mezzi di comunicazione disponibili e coinvolgendo anche gli ambienti artistici, viene organizzata in brevissimo tempo. Con la guerra d’Etiopia il regime raggiunge il momento di massimo consenso popolare. Nel maggio 1936 i territori del Corno d’Africa, Eritrea, Somalia ed Etiopia, sono riuniti nell’«Africa Orientale Italiana (A. O. I.)» che con la Libia costituiscono il nuovo Impero d’Italia, ideologicamente riapparso «sui colli fatali di Roma».
Sul piano internazionale la Società delle Nazioni, contraria all’attacco di un Paese firmatario, decreta l’applicazione delle sanzioni economiche per la violazione degli accordi societari. L’Italia di Mussolini reagisce chiudendosi in una politica autarchica, attraverso la quale il totalitarismo del regime raggiunge l’apogeo. L’autarchia si riflette in ogni campo del sapere bloccando comunicazioni e scambi con l’estero: in musica, l’«esterofobia fascista», ininfluente durante il primo decennio [Nicolodi 1984, p. 25], si irrigidisce attraverso l’esclusione dalla programmazione degli autori provenienti dai paesi firmatari [Nicolodi 1984, p. 26-27].
Con lo scoppio della guerra, l’Italia perde progressivamente tutti i suoi domini africani, fallendo anche nel tentativo estremo di collaborazionismo con i capi indigeni. La «legislazione razzistica» operante e la «memoria di vessazioni e soprusi antichi e recenti» sulla popolazione civile, gravano sul tentativo italiano [Aruffo 2007, p. 136]. Al contrario, la resistenza indigena si rafforza per mezzo della «convergenza operativa anti-italiana» delle truppe britanniche. Nel gennaio 1943 cade in mano britannica anche l’ultimo baluardo del dominio coloniale: Tripoli.
I danni e le ripercussioni di una determinata politica estera guidano i comportamenti dei governi del dopoguerra nei confronti della vicenda coloniale.
26 Cfr. Cap. III, Par. 2.
L’impero italiano resta di fatto «il più breve impero coloniale europeo», eppure, in quel ristretto lasso di tempo, si crea il «mito imperialistico» sostenuto da un ampio consenso popolare, legato soprattutto alle «aspettative di un favorevole ritorno economico dell’impresa» [Rosoni 2006, p. 32]. A rendere possibile l’ampia circolazione di notizie e immagini sin dalla prima fase di espansione concorrono i nuovi media, prima la stampa ad alta tiratura, che conosce un incremento legato proprio alla curiosità intorno alle “cose” d’Africa, poi la radio e il cinema, protagonisti della costruzione del discorso coloniale e di un immaginario ancor oggi vivi nella cultura nazionale, nutriti dalla fotografia, dalle mostre ed esposizioni - che hanno accompagnato tutte le fasi del colonialismo italiano - dal fonografo e dal grammofono; non ultime, tutte le forme di espressione artistica stimolate dal regime. I prodotti della cultura coloniale, alla luce delle rinnovate scienze storiche e della nuova corrente dei cultural studies, rappresentano oggi fonti indispensabili per la ricostruzione dell’esperienza espansionista italiana, riflettendo sentimenti, aspettative e strategie di potere.