• Non ci sono risultati.

Direttive politiche per la vita culturale nella Libia coloniale

ISTITUZIONI ARTISTICHE COLONIALI IN LIBIA

3. Direttive politiche per la vita culturale nella Libia coloniale

Le linee-guida della politica culturale coloniale in Libia si possono rintracciare nei tre elementi principali che sono alla base dell’organizzazione economico-sociale del territorio dominato: colonialismo demografico, politica indigena e organizzazione del turismo.

Colonialismo demografico

Il colonialismo demografico, modello coloniale specificamente italiano, si discosta da quelli inglese e francese per la gestione dei territori occupati come colonie di popolamento, oltre che di sfruttamento. In tale prospettiva, l’organizzazione della colonia mira a riflettere quella della madrepatria, non solo dal punto di vista politico- amministrativo, ma anche da quello culturale. Il benessere della popolazione italiana nei territori coloniali – indispensabile al fine di un sempre più massiccio trasferimento - oltre che attraverso mezzi economici (procedure di espropriazione terriera, agevolazioni per le attività commerciali), è perseguito anche attraverso la ricostruzione di un ambiente familiare, nel quale i colonizzatori non avrebbero troppo sofferto la distanza dalla terra d’origine. Tale direttiva politica si riflette fortemente sulla gestione del territorio conquistato, dove la presenza di nuclei appartenenti ad un gruppo etnico diverso per caratteristiche somatiche, lingua, religione e cultura, e per di più con una pretesa superiorità di razza e cultura, impone un totale stravolgimento degli spazi e delle consuetudini locali. Strutture pubbliche e istituzioni culturali contribuiscono a trasformare la colonia in una vera e propria propaggine della madrepatria.

Politica indigena

Se ci soffermiamo sulla capitale che affaccia sul Mediterraneo, Tripoli, in essa convivono - assieme a maltesi, greci, italiani e francesi - due principali gruppi etnici, ebrei e musulmani, popolazioni ricche di tradizioni e rituali propri. Tuttavia, almeno rispetto alle popolazioni dei territori dell’«Africa Orientale Italiana», essi presentano caratteristiche somatiche (pelle bianca) ed elementi della cultura materiale per alcuni

versi familiari agli europei.66 Inoltre, la presenza, sul suolo libico, di testimonianze storiche delle passate occupazioni europea ed islamica influenza fortemente la percezione delle genti e delle città libiche [Fuller 2007, pp. 151-153]. La presunta relazione di stretta dipendenza tra storia e civiltà, asserita in quel periodo, risulta infatti, in quel contesto, fondamentale per la formulazione del giudizio degli italiani sulle popolazioni africane [Fuller 2007, p. 14]. Com’è stato dimostrato da recenti studi sull’architettura, ad esempio, essa influenza fortemente i programmi di pianificazione urbanistica: in Libia si tende a preservare l’esistente, mirando a conservare la configurazione originaria della città, piuttosto che ad una totale distruzione per ricostruire dal nulla (com’è stato - almeno nelle intenzioni - inizialmente progettato per Addis Abeba, la capitale dell’Impero) [Fuller 2007, pp. 151-153]. In Libia le tradizioni locali vengono sfruttate come elemento di attrazione, come le fantasie dei cavalieri arabi che accompagnano le visite ufficiali dei comandanti italiani e i caffè arabi in cui si esibiscono piccoli ensemble di musica d’arte tradizionale araba, e preservate anche per garantire l’ordine civile, considerata la forte opposizione delle popolazioni indigene nei confronti dei dominatori. Inoltre, i rituali che accompagnano il culto islamico, come il richiamo dei pellegrini alla preghiera, cadenzano la vita della colonia, per giunta legittimati, come vedremo, attraverso le moderne tecnologie.

Con la politica indigena di Italo Balbo, l’elemento locale, o meglio, quello arabo-islamico, e la sua cultura, conoscono un’inedita attenzione.67 In linea con la «posizione di “protettore dell’Islam” di Mussolini», Balbo collabora «scrupolosamente con i notabili locali, i capi riconosciuti politici e religiosi della maggioranza arabo-berbera [...] integrati superficialmente nel sistema delle

66 La popolazione della Libia si distribuisce prevalentemente sulla costa, essendo le zone desertiche

dell’interno scarsamente popolate; la maggioranza si addensa nella provincia di Tripoli. Complessivamente la popolazione libica è costituita da gruppi sociali con caratteristiche antropologiche, «retroterra ambientale e modelli di vita» molto differenti. La maggior parte degli indigeni costieri, di carnagione bianca, è araba o arabo-berbera; tra essi già si riscontra una «grande varietà di occupazioni, modi di vita e costumi», in cui si trovano sia pastori nomadi che stanziali. A Tripoli è inoltre presente una minoranza ebraica. Nel resto del territorio, come nel Fezzan, si trovano invece popolazioni negroidi nomadi. All’epoca del dominio italiano, mentre le popolazioni della costa vengono percepite come più vicine alla cultura mediterranea, quelle nomadi degli interni sono considerate riottose e lontane dalla civiltà [Segre 1985, pp. 1058-1059].

67 « [...] va tuttavia riconosciuto a Balbo un nuovo modo di far politica, un nuovo atteggiamento nei

confronti degli indigeni [...]. Per la prima volta [....] un governatore italiano torna a parlare agli arabi di collaborazione e, a modo suo, cerca di realizzarla. [...] Riconoscendo che le popolazioni musulmane delle provincie costiere non possono, per le loro qualità e tradizioni, rimanere più a lungo «relegate allo stadio coloniale», Balbo si propone di svolgere un’opera «di tale portata politica e morale da trasformare la struttura sociale della popolazione; di creare anzi le condizioni necessarie per una più diretta partecipazione di questa popolazione alla nostra vita civile»» [Del Boca 1988, p. 238]. Cfr. Cap. III, Par. 2.

organizzazioni e delle istitutzioni italiane» [Segre 1985, p. 1060]. Nella seconda metà degli anni Trenta, il Quadrumviro giunge fino a proporre di «accordare la piena cittadinanza ai libici», scontrandosi con la politica razziale del regime [Segre 1985, p. 1060]. Tuttavia, com’è stato rilevato dagli storici, il Governatore ferrarese, nell’operazione di rispetto della cultura indigena, punta a «rafforzare l’elemento tradizionale nella comunità araba», respingendo, ad esempio, la soluzione assimilazionista adottata dai francesi per far diventare i sudditi «dei buoni francesi» [Segre 1985, p. 1060]. L’analisi dell’operato in relazione ai sudditi libici, tuttavia, ha mostrato la tendenza degli italiani a porre in evidenza l’immobilismo culturale della popolazione dominata [Segre 1985, p. 1060] e le nostre ricerche in ambito musicale coloniale, in relazione alle iniziative legate alla diffusione della tradizione musicale araba attraverso il mezzo radiofonico (Cap. III, Par. 7), sembrano confermare questa tesi.

Il colore locale assume un’importanza centrale anche a fini turistici e le occasioni di assistere a manifestazioni della cultura indigena si moltiplicano. Per quanto riguarda la musica, da questo punto di vista, l’accento è conferito al connubio esotismo-erotismo realizzato negli spettacoli di compagnie arabe, nei teatri costruiti dagli italiani, dominate da vedette del canto e della danza del ventre, ammalianti incarnazioni della misteriosa donna orientale, riflesso di una visione orientalista rafforzata in epoca coloniale moderna.

Se, dunque, da un lato l’incontro con l’ “Altro” si regge su un’opposizione binaria tendente a rafforzare l’identità specifica della cultura dominante attraverso l’imposizione di forti segni identitari sul territorio colonizzato (edifici pubblici, attività culturali, esposizioni, manifestazioni), dall’altro la specificità culturale delle popolazioni indigene non viene cancellata. Si può parlare, in tal caso, di compresenza delle due culture, a partire dalla quale non si possono non ipotizzare elementi di contaminazione. Qualche raro segno, nell’ambito in cui ci muoviamo, emerge dalla nostra ricerca. Manca, tuttavia, ad oggi, un’indagine volta ad individuarne le modalità di espressione, impedita dalle difficoltà di reperimento delle fonti, spesso oscurate o neutralizzate nel loro valore storico-documentario, invalidato dal più generale processo di cancellazione della memoria storica.68 Le articolate vicende politiche e la

68 Cfr. Cap. II, Par. 3.

totale chiusura nei confronti degli ex-colonizzatori in epoca postcoloniale,69 hanno comportato una forte reticenza nei confronti di questi ultimi ed hanno impedito ulteriori contatti col mondo nordafricano che avrebbero permesso un’indagine più approfondita.

Organizzazione del turismo

Il turismo riveste un ruolo di non secondaria importanza nello sviluppo economico della colonia che affaccia sul Mediterraneo. Durante l’Era fascista, la Libia si trasforma in una meta per le vacanze attraverso una cospicua opera di organizzazione e coordinamento in ambito turistico: edificazione di infrastrutture, organizzazione di crociere dalla madrepatria e dall’estero, realizzazione di esposizioni coloniali di richiamo internazionale, programmazione di una stagione primaverile con manifestazioni artistiche, sportive e d’intrattenimento e pianificazione di itinerari verso l’interno e nei siti archeologici. Con il motto «Visitate la Libia», stampato su cartelloni pubblicitari, riviste e periodici nazionali e stranieri, il regime pubblicizza nella madrepatria e all’estero il più prestigioso dei domini coloniali, dotato di attrattive culturali, naturalistiche e commerciali. Attraverso il turismo, il Governo della madrepatria intende sostenere l’economia della regione e, allo stesso tempo, promuovere la conoscenza del territorio d’Oltremare, già dominio imperiale in epoca romana. La capillare rete di alberghi, servizi e intrattenimenti per i turisti conosce la sua massima espansione e il più alto sviluppo durante la seconda metà degli anni Trenta, con la fondazione della Commissione per il turismo libico e poi dell’Ente Turistico Alberghiero della Libia (ETAL), fondato al fine di coordinare tutte le attività [McLaren 2006, pp. 58-77].

L’organizzazione turistica della colonia ruota principalmente attorno ad una manifestazione commerciale di grande prestigio: la Fiera Campionaria di Tripoli. L’esposizione rappresenta un potente strumento di propaganda coloniale, attraverso l’ostentazione dell’impegno del Governo metropolitano nella promozione del dominio sul Mediterraneo. L’esposizione ha luogo annualmente durante la stagione primaverile, a partire dal 1927 fino al 1939, inizialmente con la durata di quattro mesi, all’incirca tra fine marzo e giugno. Come afferma Brian McLaren, il duplice fine

69 Solo di recente, con l’Art. 11 dell’Accordo italo-libico del 30 Agosto 2008, gli italiani ex-residenti in

politico ed economico dell’esposizione è palesato proprio da «its status as major event on the tourist calendar of Libia.», al quale si collegano eventi artistici e sportivi di prestigio [McLaren 2006, pp. 26-27].

La Fiera di Tripoli si configura come prestigiosa vetrina commerciale per il territorio d’Oltremare. Organizzata sul modello delle esposizioni italiane come la Fiera di Milano, catalizza l’attenzione del Governo coloniale con ingenti sforzi economici: per l’allestimento vengono chiamati alcuni tra i principali architetti della madrepatria (tra cui Felice Nori e Alessandro Limongelli) e tutta la regione è animata da prestigiose manifestazioni di tipo ricreativo-spettacolare che ruotano intorno all’esposizione; durante il periodo fieristico vengono organizzate crociere dall’Italia e dall’estero con scalo a Tripoli. Molteplici ed eterogenee sono le iniziative che coinvolgono i visitatori nella regione libica: stagioni d’Opera e di operetta nei teatri coloniali, spettacoli di prosa delle principali compagnie, concerti da camera dei più illustri musicisti italiani, ultime novità cinematografiche anche in lingua originale, itinerari guidati ai siti archeologici d’epoca romana e prestigiose rappresentazioni di teatro classico nel sito restaurato di Sabratha; un’attenzione particolare viene riservata ai raid automobilistici e ai campionati sportivi. Con lo sviluppo dell’organizzazione turistica, che conosce un culmine nella gestione della colonia da parte di Italo Balbo, l’offerta delle attività si amplia notevolmente e la stagione viene progressivamente prolungata anticipandone l’apertura a ottobre e posticipando la chiusura a fine giugno [«L’Avvenire di Tripoli»,70 22/1/1935]. La visita all’esposizione tripolina da parte di alti ufficiali e massimi rappresentanti del Governo centrale, nonché, come per alcune edizioni particolarmente significative, della famiglia reale e del Duce, contribuisce a dare lustro e notorietà alla manifestazione e prestigio alla colonia.71

70 D’ora in avanti AT.

71 Per una più approfondita indagine sull’organizzazione e lo sviluppo della Fiera di Tripoli si rimanda