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C ONTRIBUTI DI ETNOGRAFIA MUSICALE ITALIANA IN EPOCA LIBERALE

NELLA LETTERATURA SCIENTIFICA: IL CASO DELL’ETNOGRAFIA MUSICALE

C ONTRIBUTI DI ETNOGRAFIA MUSICALE ITALIANA IN EPOCA LIBERALE

Nella prima fase di espansione coloniale in età liberale il problema dello studio delle popolazioni indigene non riceve una grande attenzione al di fuori delle singole istituzioni a sostegno dell’espansione nazionale. Accanto alle spedizioni scientifiche finalizzate più che altro alla raccolta di dati geo-antropometrici, sono gli «etnografi per caso» – militari o civili coloniali – a fornire i contributi etnologici, a costruire «il sapere coloniale» su usi e costumi locali:

[…] [gli «etnografi per caso»] inventano il mestiere dell’antropologo pur non essendo in origine degli studiosi, e producono importanti capitoli di etnografia coloniale [Sòrgoni 2001, p. 22].

Oltre a promuovere e sovvenzionare le prime spedizioni nei territori del vecchissimo continente, sono spesso le Società Geografiche a farsi principali veicoli dei contributi etnografici. Il «Bollettino della Reale Società Geografica Italiana», rappresenta un’utile fonte per la storia dell’etnologia coloniale italiana. Eterogenei sono gli argomenti degli articoli pubblicati, dalla botanica alla linguistica, dalla geologia all’etnologia, e variegate le firme degli autori, dai più noti antropologi e scienziati, ai più sconosciuti esploratori e funzionari coloniali. Originali contributi apparsi sul «Bollettino della Reale Società Geografica Italiana» restano, in qualche caso, testimonianze uniche per quasi mezzo secolo.

Il primo contributo di etnografia musicale pubblicato sul «Bollettino» in epoca coloniale risale al periodo iniziale dell’occupazione ufficiale della «colonia primigenia»: Saggi musicali dell’Eritrea del capitano E. Fiori. Il lavoro compare in un numero del 1892, gli stessi anni in cui vedono la luce le prime trascrizioni di folklore musicale italiano: una data sicuramente precoce per l’interesse verso tradizioni extra- nazionali, per lungo tempo estranee agli indirizzi di ricerca dei nostri primi studiosi [Giuriati 1995, p. 105]. Le considerazioni del Fiori, come si può immaginare, non si discostano dallo sguardo etnocentrico: i canti e le musiche raccolti vengono presentati attraverso una visione immatura delle manifestazioni sonore indigene, sostenuta da forti pregiudizi razziali.

Il breve lavoro consta di sole cinque pagine corredate da quattro trascrizioni: Andante pastorale - suonato con flauti di canna dalle tribù dell’Altopiano d’Alál (Jnginni), Canto delle Bilene, Suono di guerra degli abissini, Canto degli Adendoa. Per quanto lacunoso nell’approccio e nei risultati, esso lascia trapelare elementi d’un certo rilievo sia per le modalità attraverso le quali si mette in atto il processo di

percezione e rappresentazione dell’ “Altro” colonizzato in era liberale, sia per comprendere la vicenda degli studi sull’etnografia musicale coloniale.

Riguardo al primo punto, dal saggio del Fiori emergono due principali questioni: l’instabilità della vita in colonia e la mancanza di preparazione, sia metodologica che etnografica e musicale, degli «etnografi per caso» [Sòrgoni 2001, p. 22]:

Durante gli ultimi mesi del mio soggiorno in Africa, m’ero proposto, per quanto lo consentivano le mie limitate cognizioni, di scrivere, sotto forma di appunti, alcune riflessioni sul canto e sul ritmo sonoro169 delle varie tribù

che fanno parte della nostra Colonia. [...] [...]

Ma essendo sopravvenuto il mio rimpatrio e mancandomi di conseguenza il materiale occorrente per condurre a termine un lavoro il quale, benché fatto da persona poco esperta in simile genere di cose, avrebbe almeno potuto essere letto a solo titolo di curiosità, dovetti smetterne affatto il pensiero, lasciando che altri più competenti e fortunati di me si accingessero alla non facile impresa.

[…]

Mi duole non poco non potervi unire le parole che li accompagnano, avendo smarriti gli appunti, che ne avevo presi. [...] [Fiori 1892, pp. 770-771]

La prima questione, che giustifica, almeno in parte, la scarsezza di contributi sull’argomento in tutta l’epoca coloniale, è una “costante” del colonialismo italiano, sia per la breve durata dell’esperienza imperialista nazionale, che per le continue azioni di ribellione delle popolazioni locali. Per quanto concerne, invece, la mancanza di un’adeguata preparazione - sia sul versante musicale che etnologico - bisognerà attendere il pieno imperialismo fascista, quando, in qualche caso, veri e propri etnografi-musicisti attivi in ambito nazionale raggiungono i territori coloniali.

Nel lavoro del Fiori le tradizioni musicali indigene subiscono un processo di totale astrazione dal contesto: egli non registra né l’area geografica esatta, né la data, né tantomeno gli interpreti, le modalità e l’occasione dell’esecuzione. Restano ignote anche le circostanze dell’osservazione e della trascrizione (contestuale all’ascolto o in differita). Inoltre, diversamente dai successivi contributi sulle tradizioni musicali delle popolazioni coloniali, il capitano evidenzia una totale indifferenza verso le specificità

delle culture orali tradizionali. Comune alle osservazioni etnografiche coeve, invece, è il tentativo di completa e forzata inquadratura dei canti e delle musiche indigene negli schemi del sistema musicale occidentale, sistema di riferimento di un presunto «linguaggio universale» [Pesenti 1929, p. 26], funzionale al rafforzamento del ben noto concetto della superiorità di razza:

[…] presso tutte quelle genti il ritmo è quasi sconosciuto […] senza saperlo, adoperano il modo maggiore e minore con predominio di quest’ultimo, nonché la 5° (dominante) e l’unisono […]

[…]

Come si vede in questo esempio [Canto degli Adendoa], gli Adendoa non conoscono né la regola degli intervalli diretti, né i loro rivolti […] Però, a differenza degli altri canti, questo si risolve, cioè termina colla tonica; ciò che indica un progresso, e grande. [Fiori 1892, pp. 771-774]

Questo «costante processo di assimilazione» [Giannattasio 2002, p. 399] tra due culture musicali distanti e fortemente caratterizzate è una tendenza comune nel genere etnografico coloniale.170 Come ha giustamente osservato Francesco Giannattasio, è possibile che le modalità della trascrizione, effettuata probabilmente in un momento successivo all’osservazione e all’ascolto, contribuiscano al processo di «‘normalizzazione’ e ‘ipercorrettismo’» [Giannattasio 1992, p. 399] innescato dall’operazione di trascrizione.

Il prevalere di un «auricolar ethnocentrism» [Carpitella 1974, p. 82], inoltre, sembra acuirsi nel caso di una formazione musicale più solida in chi osserva, com’è il caso del generale Gustavo Pesenti,171 musicista e compositore, oltre che militare e ufficiale coloniale. «La delicata relazione fra ‘ascoltare’ e ‘intendere’» [Giannattasio 1992, p. 399], in questo caso, risulta esasperata. Nei contributi del Pesenti sulla Somalia,172 occorsi un ventennio di distanza rispetto a quelli del collega Fiori, l’orecchio eurocentrico è ancor più determinato e inflessibile, e sembra voler inquadrare i canti non solo entro un sistema teorico, ma anche all’interno dell’ambito ancor più ristretto della letteratura musicale eurocolta. Beethoven, Wagner e Haydn sembrano rivivere nelle melodie e nei ritmi dell’Africa orientale:

170 Tale atteggiamento si riscontra tuttavia anche nell’etnografia musicale delle tradizioni popolari

italiane. A tale proposito di veda Carpitella 1974.

171 Gustavo Pesenti (Castel San Giovannni (PC) 1878 – Genova 1960). Per un approfondimento della

vicenda biografica si rimanda a Vetro 2009 e Rabitti 1982.

Il ritmo somalico n. 2) più sopra riportato ha una fortissima rassomiglianza col ritmo dell’allegretto in la maggiore [della Settima Sinfonia di Beethoven]; […].

Noteremo pure che il ritmo n. 3) è lo stesso tema del coro del

Lohengrin al principio dell’atto III. [Pesenti 1910, p. 1420]

In tale ottica, com’è ovvio, la tradizione musicale indigena risulta indebolita e privata di valore:

[…] mentre questo [Allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven] raggiunse il cielo, quello [ritmo somalico n. 2] rimase e rimane un vagito di neonato.

Ma mentre nel ritmo somalico si può continuare indefinitamente ripetendo le due note di cui si compone, Riccardo Wagner seppe darci un coro fresco, armonioso, pieno di grazia e beltà. [Pesenti 1910, p. 1420]

Al Pesenti, tuttavia, va almeno il merito di aver individuato alcune peculiarità, sebbene le più superficiali, della musica tradizionale africana, del tutto indifferenti all’orecchio del Fiori:

Chi leggerà e studierà cotesta musica, proverà forse una delusione per la sua povertà intrinseca, se non abbia presente che l’effetto si ottiene dall’imponenza di moltissime voci all’unissono e, più ancora, dal ripetersi indefinitamente del ritmo o dello spunto o anche della melodia come in alcuni canti iemènici. [Pesenti 1910, p. 1410]

Il riscontro di analogie musicali tra le manifestazioni sonore delle popolazioni dell’Africa orientale e quelle italiane, è ovviamente in relazione con la costruzione di un sistema ideologico funzionale al colonialismo. La rivendicazione di un’unità culturale dimostrata attraverso “prove scientifiche” è di certo una strategia ampiamente sfruttata, soprattutto durante l’Era fascista del nostro colonialismo.

In Libia, come abbiamo visto, la consistente presenza di testimonianze dell’Impero romano viene sapientemente manipolata attraverso un’operazione propagandistica di ampio raggio, con ingenti investimenti che coinvolgono, sebbene marginalmente, anche l’ambito musicale - ad esempio con le rappresentazioni classiche al Teatro di Sabratha. L’insistenza sulle origini comuni con la cultura delle colonie, alla luce delle teorie evoluzioniste, è tuttavia presente come tratto distintivo del colonialismo europeo moderno. I contributi internazionali di epoca coloniale sulla musica africana, ad esempio, rilevano elementi comuni con la tradizione greca, com’è

il caso dei sistemi di intonazione dei cordofoni abissini studiati da Villoteau e ripresi dagli etnografi successivi [Mondon-Vidailhet 1922, pp. 3187-3189].173