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Colonial/postcolonial studies

COLONIAL/POSTCOLONIAL STUDIES

2. Cultural studies e colonial/postcolonial studies

2.3 Colonial/postcolonial studies

Tra le grandi questioni intellettuali dibattute nell’ambito delle nuove tendenze uno spazio consistente è dedicato agli studi sull’ “Alterità”. Gender studies, colonial

studies, imperial studies, postcolonial studies si arricchiscono quotidianamente di

nuovi interessanti contributi, attraverso articoli, conferenze, dibattiti, saggi, monografie. I significativi avvenimenti storici che hanno concluso il secolo precedente e aperto il nuovo, giustificano la centralità del tema delle differenze in questi ultimi decenni. Differenze di razza, “esterne”, e di genere, “interne” hanno, del resto, una base comune nell’opposizione binaria “Sé”/“Altro-da-sé” e nelle prime si manifesta il riflesso delle seconde.4

L’inesorabile processo di globalizzazione, le conseguenze della de- colonizzazione e la centralità del tema del Mediterraneo, con l’apertura delle frontiere europee col Nord Africa e il fenomeno degli sbarchi dei clandestini, hanno reso sempre più urgente una riflessione sul passato coloniale dell’Europa, ovvero sul momento in cui, proprio sulla base della percezione delle differenze, l’Occidente ha iniziato a costruire la propria identità. «Il colonialismo ha dato nuova forma alle strutture della conoscenza umana. Nessuna branca del sapere è rimasta incontaminata dall’esperienza coloniale» [Loomba 1998, trad. it. p. 69], in quest’affermazione si legge la spinta all’indagine sui riflessi culturali del colonialismo in Occidente. La consapevolezza che «la conoscenza non è innocente ma profondamente connessa con le operazioni di potere» [Loomba 1998, trad. it. p. 57], inoltre, indica la strada aperta dal pensiero di Gramsci e seguita dagli storici e teorici della cultura che si sono dedicati al tema coloniale.

Visioni eurocentriche hanno fortemente influenzato il giudizio degli occidentali sulle culture degli altri popoli, a noi per lungo tempo - se non ancora oggi - note attraverso un’invisibile lente deformante. Prospettive postmoderniste e poststrutturaliste contribuiscono allo smascheramento delle sottili interconnessioni tra

4 L’effeminatezza, la debolezza e la lascivia, qualità tipicamente attribuite al genere femminile, infatti,

cultura e potere. L’estensione del fenomeno del colonialismo moderno, sia storicamente che geograficamente, l’eterogeneità e la gran mole delle pratiche e dei prodotti artistico-culturali da esso scaturiti, nonché la sua vitalità ancor oggi, in seguito alle sue profonde e multisfaccettate ripercussioni, giustifica la quantità di studi e analisi.

In seguito ai primi pionieristici tentativi d’indagine sulla cultura coloniale proposti in ambito storiografico, attraverso l’esame di racconti di viaggio e di esplorazione ottocenteschi, la diffusione dei cultural studies ha significativamente scosso gli studi sul colonialismo [Labanca 2000, p. 149]. L’origine geografica dei

cultural studies ha stimolato, a partire dagli anni Settanta, riflessioni sul peculiare

sostrato socio-culturale della realtà anglosassone, segnata dal passato coloniale, reso ancora attuale dai processi di decolonizzazione. Le prime analisi sull’identità etnica inglese, espressa dal concetto di Englishness, condotte al Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham da Stuart Hall e da altri studiosi, rappresentano il punto di partenza di un filone di studi oggi in grande fermento.

Le particolari contingenze storiche che hanno caratterizzato la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, hanno in seguito esteso l’interesse sul passato coloniale del vecchio continente anche ad altre nazioni protagoniste nel passato di disegni imperialisti. I processi di decolonizzazione e le rivendicazioni nazionaliste dei paesi sottomessi hanno parallelamente risvegliato l’attenzione nei confronti di ciò che il colonialismo ha tentato di soffocare e nascondere, alimentando una prospettiva post- colonialista. L’ampia rilevanza, l’attualità e la vastità dell’argomento sono testimoniate da un diffuso e animato dibattito che ancora oggi sottende l’impiego di termini chiave quali colonialismo, imperialismo, neocolonialismo, postcolonialismo, la cui ambiguità è ulteriormente accentuata dall’uso di forme ibride, come le parentesi tonde intorno al prefisso post ((post)colonialismo).

Senza entrare nel complesso dibattito terminologico che accompagna gli studi sul colonialismo,5 cosa che esorbiterebbe dai nostri fini, utilizzeremo il termine ‘coloniale’ per indicare quegli studi concentrati sull’analisi di prodotti nati dall’esperienza coloniale, narrazioni letterarie, rappresentazioni iconografiche, costruzioni architettoniche, prodotti artistici e musicali e quant’altro, e ‘postcoloniale’ per quegli studi che, sulla base di un approccio post-strutturalista, aperto alla

5 Per una più approfondita trattazione delle questioni terminologiche inerenti i cultural studies sul

considerazione di una molteplicità di storie possibili per restituire la totalità della storia, applicano a tali indagini una prospettiva alternativa a quella ufficiale. In tale accezione, dunque, il prefisso ‘post’ va inteso non come successivo al colonialismo, cosa che ne implicherebbe la cessazione, non sempre effettiva,6 ma come «contestazione del dominio e dell’eredità coloniali» [Loomba 1998, trad. it. p. 28]. Seguendo la definizione di Jorges de Alva, dunque, intendiamo per ‘postcoloniale’ l’adozione di una posizione «che si oppone alle pratiche e al discorso imperialista/colonizzatore» [Alva, in Loomba 1998, trad. it. p. 28].

Quale branca dei cultural studies, gli studi sul postcolonialismo perseguono il tentativo di leggere nei prodotti culturali i riflessi dell’ideologia, una concezione, come abbiamo visto, ereditata dal pensiero di Antonio Gramsci, di primaria importanza per i nuovi orientamenti. Istanze postmoderniste e decostruzioniste hanno arricchito gli studi di nuove direzioni d’indagine ed oggi non solo i testi vengono letti sulla base del contesto, ma anche i processi storici e sociali vengono considerati «testuali», in quanto:

possono essere recuperati solo attraverso la loro rappresentazione e tali rappresentazioni includono strategie ideologiche e retoriche quanto i testi letterari.

[...]

Il colonialismo […] dovrebbe essere analizzato come se fosse un testo, composto di pratiche materiali e di rappresentazione, disponibile attraverso un ventaglio di discorsi come quelli espressi dalla letteratura scientifica, economica, letteraria e storica […] dall’arte e dalla musica […]» [Loomba 1998, trad. it. p. 103].

Le risposte ad un tale stimolo sono numerose e metodologicamente variegate, accomunate soltanto dall’oggetto d’investigazione. In una tale varietà di analisi, tuttavia, è possibile individuare dei filoni di studio che fanno capo a singoli studiosi, a loro volta legati a importanti teorie filosofiche preesistenti. Tra questi, rivestono una posizione di primaria importanza, in una prospettiva più esplicitamente post- colonialista: Edward Said, Gayatri C. Spivak e Homi K. Bhabha, rappresentanti rispettivamente delle correnti storicista, decostruzionista e psicanalitica. Quest’ultima, rappresentata da Homi K. Bhabha, ispirata dalla psicanalisi lacaniana, concentra la propria attenzione sul soggetto coloniale e sull’incontro e scambio tra colonizzatori e

6 L’attuale fenomeno della globalizzazione è infatti di frequente considerato quale ultima fase del

colonizzati. Gayatri C. Spivak, invece, applica una prospettiva decostruzionista ai testi, sulla base di una definizione del discorso coloniale come prodotto retorico degli assiomi imperialistici con particolare riferimento alle questioni di razza e genere. Edward Said, invece, legato alla teoria del discorso di Michel Foucault, interpreta il colonialismo come fase attraverso la quale l’Occidente “crea” un proprio Oriente sul quale espiare colpe, proiettare desideri, paure, e attraverso il quale, contemporaneamente, definire la propria identità sulla base del principio dell’«opposizione binaria»; in tal modo l’Occidente ha potuto garantire la propria egemonia politica e culturale sull’Oriente.

Edward Said è uno dei teorici e storici della cultura più in vista negli ultimi trent’anni. Il suo saggio Orientalism [Said 1978], uscito per la prima volta in traduzione italiana soltanto nel 1991, è considerato una delle pietre miliari degli studi sul postcolonialismo ed è meritevole di aver sollevato il problema del rapporto Oriente-Occidente a livello globale. La teoria dell’orientalismo7 in esso sviluppata ha rappresentato per lungo tempo la risposta a complesse questioni sulla relazione Est- Ovest ed ha aperto la strada ad ulteriori analisi relative alla rappresentazione occidentale dell’Oriente, non solo nella letteratura ma anche nell’arte visiva, nella fotografia, nel cinema, nell’architettura e nella musica. Nel corso del tempo, inoltre, lo stesso Said ha approfondito e riformulato le proprie posizioni ed ha stimolato nuove prospettive volte a promuovere punti di vista alternativi. Dal canto suo, Said supera il principio dell’opposizione attraverso una possibile critica, che, con una metafora musicale, ha definito «contrappuntistica», in grado di proporre letture «contro- imperialiste» che si oppongano ma allo stesso tempo convivano con quelle ufficiali: «Se riesaminiamo l’archivio della cultura, cominciamo a rileggerlo in modo non univoco, ma “contrappuntistico”, con la percezione simultanea sia della storia metropolitana che viene narrata sia di quelle altre storie contro cui (e con cui) il discorso dominante agisce» [Said 1993, trad. it. p. 76]. Come nel «contrappunto della musica classica occidentale vari temi si oppongono l’uno all’altro, e soltanto

7 Il significato del termine orientalismo muta con Said la propria valenza, conosce un significativo

slittamento, «one of normative tone»: se precedentemente il temine indicava «the study of the languages, literature, religions, thought, arts and social life of the East in order to make them available to the West, even in order to protect them from occidental cultural arrogance in the age of imperialism», con Said «far from protecting oriental cultures from overwhelming imperial power, far from permitting eastern cultural forms to survive, Orientalist studies became themselves an expression of intellectual and technical dominance and a means to the extension of political, military and economic supremacy. Orientalism came to represent a costruct, not a reality, an emblem of domination and a weapon of power…» [MacKenzie 1985, p. xii].

temporaneamente viene data la preminenza a questo o a quello; eppure nella risultante polifonia c’è concerto e ordine, una interazione reciproca organizzata» [Said 1993, trad. it. p. 76], così i «temi contro-imperiali» possono essere letti in alternativa a interpretazioni dominanti di grandi capolavori della cultura occidentale [Arac 1998, p. 57]. Ciò consente a Said di recuperare quei capolavori della letteratura vittime della cosiddetta politics of blame, perché connessi con azioni politiche deplorevoli, come schiavitù, imperialismo e simili. Anche nella critica musicale simili posizioni consentono di rivedere giudizi e di riabilitare figure finora vittime della loro posizione politica, com’è il caso di Edward Elgar. Se la critica letteraria ufficiale ha teso a dissociare i capolavori dalle bad politics, «contrapuntal criticism brings the writing and politics together» [Arac 1998, p. 58]. In tale prospettiva emerge anche una percezione nuova della storia, secondo la quale «many voices produce a history» [Said, in Arac 1998, p. 58]. Recuperata la scissione forzata tra cultura e politica, Said cerca dunque di individuarne le dinamiche, l’interrelazione e di svelare la loro complessità, giustificando la necessità di produrre alternative alle interpretazioni predominanti di quei prodotti culturali connessi con i progetti coloniali: «alternative sources, alternative readings, alternative presentation of evidence» [Said, in Arac 1998, p. 60]. In tal modo egli rinforza l’originario obiettivo «to challenge that

hegemony» [Arac 1998, p. 60].

La recente teoria e critica postcoloniale, tuttavia, mette in discussione la concentrazione esclusiva sulla rappresentazione e sul discorso proposta dalla teoria letteraria e culturale, la quale, per Ania Loomba, finisce per sostituire «lo studio degli eventi e della realtà materiale» [Loomba 1998, trad. it. p. 103]. Leggere il «colonialismo come testo» ha paradossalmente portato ad isolarlo dalle sfere dell’economia e della storia, dunque si «ripete l’isolamento conservatore e umanista del testo letterario dal contesto in cui è stato prodotto e trasmesso» [Loomba 1998, trad. it. p. 105]. Ciò tuttavia, come sostiene la studiosa di origine indiana, è insito nella stessa fisionomia della teoria postcoloniale, nata, come abbiamo visto, dagli studi di critica letteraria inglese [Loomba 1998, trad. it. p. 104]. Il riconoscimento dell’esistenza di «una profonda relazione simbiotica fra le pratiche discorsive e quelle materiali dell’imperialismo» [JanMohamed, in Loomba 1998, trad. it. p. 108] ha di recente stimolato nuovi studi basati sull’osservazione di «connessioni molteplici e intricate, sottili e a volte contraddittorie fra le rappresentazioni, le istituzioni e le politiche coloniali» [JanMohamed, in Loomba 1998, trad. it. p. 107]. «Gli aspetti

culturali, discorsivi e rappresentativi del colonialismo», dunque, «non devono essere pensati al di fuori degli aspetti economici, politici e militari» [JanMohamed, in Loomba 1998, trad. it. p. 107].

Un altro limite della teoria postcoloniale è inoltre rappresentato, come abbiamo già visto, da una forzata limitazione all’interno dell’orizzonte degli studi di letteratura inglese. Recenti analisi hanno invece elevato a dignità di studio anche quei testi nati dall’incontro e dallo scambio coloniale: la produzione di scrittori nati in territori ex-colonie europee, sia nella propria lingua originaria che in quella degli ex- colonizzatori, forme culturali ibride, come tradizioni musicali degli indigeni delle colonie trascritte in notazione occidentale per la pratica vocale e strumentale della borghesia coloniale.8

Al di là delle prospettive decostruzioniste e postmoderniste, i cultural studies sul colonialismo contano oggi numerosi contributi che vanno ad arricchire, come abbiamo visto, anche l’ambito più specificamente storiografico. Un altro dei terreni particolarmente battuti nei cultural studies sul colonialismo è quello della propaganda, realizzata attraverso le molteplici forme della comunicazione. Tra i primi e principali testi su questo argomento citiamo Propaganda and Empire di John M. MacKenzie [MacKenzie 1984], un’indagine sulle diverse strategie di persuasione dei sudditi circa i vantaggi apportati dall’Impero britannico, attraverso i numerosi canali della propaganda. MacKenzie, la cui trattazione si limita al terreno della letteratura e dell’arte visiva, stimola significativamente, come vedremo, ulteriori studi in altri settori artistici, tra i quali anche la musica.

Al di fuori dell’ambito anglosassone, la prevalenza di studi orientati verso quella che abbiamo definito una prospettiva coloniale piuttosto che postcoloniale, si spiega alla luce di specificità legate alle singole realtà storiografiche nazionali. In Italia, ad esempio, il tardo risveglio d’interesse nei confronti della cultura del periodo coloniale determina ancora oggi il proliferare di indagini sui prodotti del colonialismo. La reticenza nei confronti dell’affermazione dei cultural studies in ambito accademico, inoltre, giustifica il prevalere di posizioni di questo tipo. Tuttavia, recentemente hanno visto la luce anche in Italia studi, testimonianze e riflessioni che chiamano in causa la condizione dell’ “Altro” colonizzato. Si può leggere in questa

8 Vedi più avanti, Par. 3.2.

prospettiva anche nel recupero di quei prodotti culturali coloniali finora screditati, mutilati nel loro valore artistico a causa delle accentuate relazioni con la politica.

Letteratura, architettura, pittura, cinema e di recente anche fotografia coloniale sono frequentemente oggetto di studio, contando oggi numerosi contributi. Prodotti all’inizio irrimediabilmente scartati da uno sguardo pregiudiziale, vengono oggi riconsiderati e vagliati quali interessanti testimonianze dell’esperienza coloniale.