In un’eloquente immagine pubblicata sul periodico «L’Italia coloniale» in occasione della Prima Mostra Internazionale d’Arte coloniale del 1931, la didascalia recita: «Il Duce fa vibrare le corde di un’arpa araba» [ITC ottobre 1931, p. 164; Appendice III, Figura 1]. L’apparente ingenuità della descrizione del ritratto, raffigurante il Duce nell’atto di pizzicare le corde di una lira abissina esposta nella sala della Mostra Eritrea con l’orecchio destro teso all’ascolto, è in realtà un palese gesto propagandistico e riassume, in una semplice espressione, l’atteggiamento del regime nei confronti delle colonie e, di riflesso, degli strumenti musicali coloniali.
Durante la prima fase del processo di espansione in Africa, l’attenzione per gli strumenti musicali tradizionali delle società coloniali in Italia va ricondotta al più
247 Probabilmente una copia dei due dischi era presente presso l’archivio storico dell’IsIAO., poi sparita
nel processo di riordino e ricollocazione. Ringraziamo il Prof. Francesco Giannattasio per questa informazione.
248 Comuncazione via e-mail di Cinthya Tse Kimberlin del 4 giugno 2009. La studiosa americana ci ha
informati di aver ricevuto i sei dischi a 78 rpm da Kidane Isaac nel 1964, durante una missione ad Asmara, alla quale ha partecipato come volontaria. Abbiamo riscontrato, attraverso una procedura comparativa, che le registrazioni in oggetto appartengono alla collezione realizzata col sostegno del ricco commerciante eritreo di Addis Abeba Salhed Ahmed Checchia, di cui parla il Barblan. I dischi hanno subito un grave danno durante uno spostamento in nave per gli USA, ma la studiosa è riuscita comunque a riversarli su nastro usando un registratore Nagra 4.1. Ringraziamo C. T. Kimberlin per averci fornito queste informazioni.
generale interesse nei confronti degli oggetti dimostrato dagli antropologi nazionali di orientamento positivista. La tendenza a ricostruire «elementi della vita sociale e psichica dei popoli» [Leydi 1994, p. 22] attraverso gli oggetti da essi prodotti deriva principalmente dal pensiero dell’antropologo, etnologo, medico e scienziato Paolo Mantegazza.249 In linea con le teorie evoluzioniste in voga durante il positivismo e operanti strumentalmente per tutta l’epoca fascista - alla luce delle quali, attraverso il metodo comparativistico, si leggono le culture africane - gli strumenti musicali coloniali vengono collocati allo stadio iniziale dello sviluppo della cultura musicale. Seguendo il pensiero di Herbert Spencer, infatti, il primitivo è assimilato al bambino e così lo stadio di evoluzione del suo pensiero.
Le prime manifestazioni espositive di fine Ottocento ricevono un forte stimolo proprio da tali concezioni [Leydi 1994, pp. 22-24]. In questa prospettiva, gli strumenti musicali non vengono considerati per la loro funzione specifica, ma piuttosto in quanto oggetti, veicoli di informazioni etno-antropologiche nonché feticci del presunto primitivismo delle popolazioni indigene. Infatti, l’aspetto rudimentale, la rozzezza della fattura, che spicca al confronto con gli strumenti della tradizione colta occidentale ben noti ai visitatori delle mostre, non può che innescare un meccanismo psicologico volto a giustificare il dominio del civilizzato sul barbaro, al fine di condurre quest’ultimo al progresso. La possibilità per gli occidentali di accompagnare le popolazioni meno evolute, in questo caso africane, verso il cammino per la civiltà diviene dunque una delle principali giustificazioni ideologiche a sostegno del colonialismo: nel caso dell’Italia, come suggerito dalla didascalia prima enunciata, il potere imperialista è in grado di «far risuonare» la cultura africana ormai ferma ad uno stadio di arretratezza.250
Durante il ventennio fascista, le occasioni espositive si moltiplicano, nella madrepatria e nelle colonie, e l’esposizione degli strumenti musicali assume una funzione sia propagandistica che commerciale.251 Nel primo caso permane
249 Paolo Mantegazza (1831-1910) è stato fondatore della «Società italiana di antropologia e etnologia»
e del primo «Museo nazionale di antropologia»; egli è stato inoltre un importante divulgatore del positivismo e dell’evoluzionismo in Italia, attivo promotore e organizzatore di iniziative culturali nonché deputato e senatore [Labanca 1992a, p. 71].
250 La metafora del potere degli italiani di risvegliare la cultura “pietrificata” delle popolazioni africane,
accompagna tutto il periodo coloniale a sostegno della missione civilizzatrice.
251 Gli strumenti musicali coloniali compaiono tra le voci del fatturato di vendita della Fiera di Tripoli -
concepita come fiera campionaria, con la commercializzazione di una minima parte di oggetti esposti - che nel 1934 ammonta al 2, 9% del ricavato [AT 4/4/1934].
l’atteggiamento razzista sostenuto dalle teorie evoluzioniste, nel secondo trova alimento il mito dell’esotico dell’Italia coloniale tra le due guerre.
Considerati quali manifestazioni dell’arte indigena, gli strumenti musicali vengono collocati nei musei nazionali252 e nelle numerose mostre coloniali, vere e proprie vetrine dei bottini africani. Il valore di feticcio attribuitovi si esplicita, in quest’ultimo caso, attraverso la loro inclusione tra le «dovizie artistiche delle nostre terre d’oltremare» [Scaparro 1934, p. 250], accanto all’artigianato del legno, dell’oro, dell’argento, del rame e così via. Il fine espositivo è esplicitamente quello di «[…] conoscere e illustrare una delle più interessanti attrattive turistiche […] [e] – con l’aumentato smercio di prodotti caratteristici dell’artigianato indigeno – fare un’intelligente propaganda coloniale […] » [Scaparro 1934, p. 250].
Tra le prime esposizioni nazionali ad ospitare strumenti musicali tradizionali dell’Africa italiana di cui si ha notizia, la IV Esposizione nazionale di Palermo del 1891-92 dedica una sezione all’Eritrea, il primo dominio italiano. Sul modello delle esposizioni internazionali, la mostra è arricchita dalla presenza di gruppi indigeni invitati a dimostrare i modi di vita e le tradizioni locali [Leydi 1994, p. 27].
Come per le raccolte etnografiche, sono spesso esploratori e ufficiali coloniali ad inviare nella madrepatria collezioni di strumenti musicali delle colonie destinate ai musei. Una testimonianza ci è fornita, ad esempio, dal resoconto di Gustavo Pesenti [Pesenti 1910, p. 422], come dalle collezioni Pantano (1910), Ricciardi (1922), e Bricchetti Robecchi del Museo Nazionale Preistorico Etnografico “L. Pigorini” di Roma. Manca, tuttavia, uno studio sull’argomento che andrebbe probabilmente condotto anche sulle testimonianze inedite di coloro che sono entrati a contatto con i territori coloniali.
Gli strumenti africani in Italia, tuttavia, restano a lungo ancorati allo status di «suppellettile da museo» e non sembrano stimolare la curiosità degli ambienti musicali nazionali. Soltanto in un unico caso, grazie all’iniziativa di uno dei protagonisti della ricerca etnomusicologica italiana della prima metà del Novecento, Giulio Fara, gli strumenti coloniali riescono a varcare la soglia dell’istanza espositiva fine a sé stessa, ma, anche questa volta, lo sguardo etnocentrico è preservato.
252 Le principali raccolte di strumenti africani erano al tempo custodite in diversi musei di Roma, come
il Museo Lateranense, con la collezione messa assieme dai padri missionari, il Museo Nazionale di Preistoria e di Etnografia (oggi Museo Nazionale Preistorico Etnografico “L. Pigorini”) e il Museo Coloniale Italiano (oggi Museo dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente).
L’iniziativa appare, senza dubbio, sintomo di un interesse e di una sensibilità nuovi, paralleli al fermento degli studi sul folklore nazionale nei confronti delle tradizioni extraeuropee: che il canto popolare rappresenti una preziosa manifestazione, depositaria di significati indispensabili alla comprensione profonda della cultura delle popolazioni rurali, inizia ad essere contemplata quale verità non solo per la madrepatria ma anche per le sue colonie. Fara, tuttavia, considerati gli orientamenti, promuove l’iniziativa soprattutto in un’ottica evoluzionista.
In quegli anni - come d’altra parte anche oggi - l’Italia, in materia di conservazione dei beni musicali, si trova arretrata rispetto alle altre capitali europee dal grande passato musicale (Germania, Inghilterra, Belgio) e all’America; ed è interessante rilevare come proprio il confronto con altre tradizioni musicali, sollecitando più profonde riflessioni sull’identità culturale, oltre alla necessità di ribadire la propria superiorità, abbia portato alla conquista di luoghi deputati all’esposizione e conservazione degli strumenti. A battersi per un aggiornamento del paese in tale direzione è il folklorista sardo Giulio Fara, strenuo sostenitore «[...] dell’utilità, della necessità anzi, di un museo strumentale per l’onore dei nostri studi e per non dover arrossire ad ogni bacello straniero.» [Fara 1932, p. 427]. Nel 1932, Fara, a quel tempo bibliotecario e docente di Storia della Musica al Liceo Musicale “G. Rossini” di Pesaro, riesce a realizzare il progetto attraverso la collezione di un nucleo di strumenti provenienti dalle colonie africane offerto all’istituzione dai Governatori di Eritrea, Somalia italiana e Tripolitania [Fara 1932, p. 422].253 Nasce così il «Museo strumentale del Liceo Musicale “Rossini” di Pesaro». Si tratta in realtà di «un primo gruppo di museo strumentale. Per ora ospitato nei locali della Biblioteca» [Fara 1932, p. 422]. Come affermato dallo stesso Fara, tuttavia, la raccolta rappresenta una prima conquista delle tenaci rivendicazioni degli studiosi del tempo per un museo strumentale in Italia [Fara 1932, pp. 421-422].
In linea con l’ideologia coloniale, gli strumenti musicali etnici vengono visti quali veicoli a sostegno di una comune origine culturale, a partire dalla quale, in un’ottica evoluzionistica, quelli moderni occidentali rappresenterebbero il punto di arrivo del «cammino percorso» dall’organologia [Fara 1932, p. 422], mentre quelli dei luoghi allora remoti della Terra, lo stadio di partenza. Ed è in quest’ottica che va letta
253 In realtà una minima parte di strumenti musicali del Museo proviene anche da altre regioni: Congo,
l’iniziativa di Giulio Fara.254 Nell’articolo dedicato alla presentazione della collezione coloniale, lo studioso ne sottolinea il duplice valore storico e politico:
[…] Il nucleo iniziale del museo strumentale del Liceo “Rossini” si compone, nella quasi totalità, degli strumenti musicali in uso presso i popoli indigeni delle nostre belle colonie. Dono munifico dei R. Governi dell’Eritrea, della Somalia Italiana e della Tripolitania, hanno [gli strumenti musicali in uso presso i popoli indigeni delle nostre colonie], oltre al valore intrinseco come documenti della storia della musica ad essi attibuito dai musicologi, un valore dirò così ideale o sentimentale per i sacrifizi che alla patria sono costate quelle terre lontane. [Fara 1932, p. 422]
E di seguito non risparmia considerazioni ironiche:
Chi può dire che fra i barbari tamburi e i corni e conchiglie di questa raccolta qualcuno non abbia col suo rullo o il suo squillo servito ad incitare le orde selvagge contro i nostri soldati? [Fara 1932, p. 422]
Il catalogo del «Museo strumentale del Liceo “Rossini” di Pesaro», pubblicato sul numero del novembre 1932 del periodico «Musica d’Oggi» a cura dello stesso promotore [Fara 1932], risente dell’immaturità degli studi etnografici ed organologici: il sistema di classificazione impiegato non si riferisce a quello proposto da Mahillon ma a quello tradizionale risalente a Praetorius («strumenti a corda», «a fiato», «a percussione») e Fara indica spesso gli strumenti con nomi impropri (bum - tromba ricavata da una conchiglia, Somalia; beghenà - lira, Eritrea; cirà violino monocorde, Eritrea; ghanu - salterio, Tripolitania); tuttavia, lo studioso si premura di indicare la provenienza geografica e la popolazione presso la quale lo strumento è in uso (non ne conosciamo, però, il grado di esattezza). La collezione è a tutt’oggi custodita presso il Conservatorio (ex-Liceo Musicale) “Rossini” in due bacheche collocate al piano superiore.255
Rispetto all’epoca liberale, durante il Ventennio le immagini degli strumenti musicali coloniali si moltiplicano anche nella stampa periodica - senza tuttavia offrire informazioni esplicative a riguardo - e vedono la luce, sebbene in prossimità della conclusione del periodo coloniale, le prime pubblicazioni organologiche specifiche, di
254 Ringraziamo Gian Nicola Spanu per aver confermato questa ipotesi.
255Ringraziamo il Prof. Pierluigi Petrobelli e Marta Mancini, attuale bibliotecaria del Conservatorio “G.
Rossini”, per le informazioni relative alla collezione di strumenti etnici dell’istituzione pesarese. All’inizio degli anni Settanta, l’etnomusicologa americana Jean Jenkins, responsabile degli strumenti musicali etnici dell’Horniman Museum di Londra, sollecitata dall’allora bibliotecario Prof. P. Petrobelli, provvide ad una catalogazione della collezione. Purtroppo il lavoro non è stato pubblicato e risulta ad oggi inaccessibile. Tuttavia in Mancini 1992, p. 247, nota 15, è riportato: «Nella catalogazione della Jenkins la collezione di strumenti comprende 8 idiofoni, 22 membranofoni, 15 cordofoni e 19 aerofoni».
certo superficiali nell’approccio agli occhi dell’organologia attuale, ma sintomo di un interesse che stava maturando.256 Una distinzione va certamente fatta per gli strumenti nordafricani, più sofisticati rispetto a quelli dell’Africa orientale, simbolo di una cultura più evoluta per il più vicino contatto con il mondo arabo.
Al di là delle mostre ed esposizioni è possibile all’epoca avvicinarsi alla cultura musicale materiale delle colonie africane attraverso le illustrazioni degli strumenti musicali apparse sulle riviste di largo consumo, in prevalenza quelle coloniali, come «L’Italia Coloniale». Gli strumenti vengono non di rado ritratti in situazioni performative che, nella maggior parte dei casi, ne esaltano l’aspetto rudimentale, contribuendo a rinforzare l’ideologia razzista nei confronti delle popolazioni dominate.257 Le didascalie che accompagnano le immagini, come abbiamo visto in quella che dà il titolo a questo paragrafo, mancano di precisione sui nomi degli strumenti a vantaggio di formulazioni retoriche.
Da una prospettiva del tutto differente, si nota come immagini di strumenti musicali della tradizione occidentale impugnati e suonati dagli indigeni, soprattutto militari, proliferano nella produzione a stampa propagandistica come simbolo di una raggiunta integrazione e sottomissione della popolazione locale al Governo coloniale.
Al di là della collezione del Conservatorio di Pesaro, l’unica copiosa raccolta di strumenti coloniali di cui si conosce l’attuale esistenza è quella dell’IsIAO. Tuttavia, questi “sedimenti” della cultura coloniale risultano attualmente inaccessibili,258 a dimostrazione di come «in Italia ancora non sembra giunto il momento di affrontare in termini critici il nostro passato coloniale, almeno a livello di massa. Qualsiasi possibile intervento di riapertura del Museo [coloniale], anche temporaneo, rimetterebbe in discussione il ruolo italiano in Africa nell’immaginario collettivo; nell’odierna società multietnica una simile operazione, segnale indiscutibile della maturità politica, è purtroppo ancora rimandata ad un’altra epoca» [Castelli 1992 p. 121].
256 Tra le rare pubblicazioni esclusivamente dedicate all’organologia degli strumenti musicali coloniali
in epoca fascista, citiamo, per la Libia: Cangini 1927, pp. 377-382 e per l’Africa orientale italiana: Barblan 1941. Precedentemente, il primo testo coloniale a riservare uno spazio agli strumenti musicali della Libia risale al 1912. L’autore, Arcangelo Ghisleri, sugella la breve trattazione con una citazione da uno studio sulla musica araba del 1906 attestante il processo di italianizzazione in atto in quella tradizione musicale [Ghisleri 1912, pp. 104-106 ].
257 Tale atteggiamento si rafforza nel dopoguerra, com’è testimoniato dalle illustazioni inserite nel
volume sull’etnografia, a cura di Ester Panetta, della serie L’Italia in Africa [Panetta 1963, p. 176-177].
258 Gli strumenti etnici dell’IsIAO. sono oggi custoditi presso il deposito di Palazzo Brancaccio situato