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Accorciando i tempi di esecuzione e dilatando quelli di com- prensione si è finito per mantenere in essere il bisogno anche do- po il suo soddisfacimento o, almeno, il suo apparente soddisfaci- mento dato che, ottundendo la catena logica degli elementi tec- nici e psichici che portano dalla causa (bisogni) all’effetto (realiz- zazioni tecnologiche), si è potuto deviare la prima verso “altri” ritrovati, opportunamente predisposti. Questi ultimi da prodotti si sono così trasformati in produttori di nuovi e differenti bisogni. Essi hanno condotto a mantenere in essere sempre la causa che li ha generati (ovvero il bisogno che non viene più soddisfatto nella sua “naturale” necessità) affinché possano perpetuarsi come en- tità valide e sussistenti per sé stesse. Questa dinamica, creatasi per mantenere e perpetuare i rapporti di dipendenza fra i vari e- lementi sociali (chiamati di volta in volta e a seconda dei contesti argomentativi e storici: “classi”, “popoli”, “centri di potere”, “li- nee di tendenza”, “caste”, oligarchie, “cartelli”, “vox populi” ecc.) ha finito per influire pesantemente e in maniera determi- nante anche sul pensiero delle genti, degli studiosi, soprattutto di quelli che della “tecnica” (quindi anche della mnemo-tecnica) hanno fatto un cavallo di battaglia senza rendersi conto che, for- se, il cavallo li stava portando proprio verso la battaglia e, come dovrebbe esser noto, nelle guerre si sa come ci si entra ma non come – poi – se ne uscirà fuori.

È una tendenza generale che, nei suoi aspetti principali, assu- me tratti macroscopici osservabili all’imbrunire anche dal tonto stanco e, di mattina, dall’idiota assonnato, ma è durante il giorno che spesso sfugge all’attenzione pure del più attento osservatore sociale. L’arte della memoria in questo contesto dovrebbe essere antitetica alle mnemotecniche ovvero alla riflessione ridotta a tecnica di ragionamento, a procedura standardizzata di memo- rizzazione, ad algoritmo critico. La tecnologia nei confronti della riflessione (e non soltanto scientifica) ha assunto su di sé l’onore di essere modello, prototipo, paradigma e infine sostanza stessa di ogni pensiero, a noi l’onere di non venirne schiacciati. Anzi è parte integrante di questo sistema psicosociale il fatto che le per- sone ricalchino nel loro modo di pensare la logica della tecnolo- gia che, propriamente, è l’annullamento di ogni logica di rifles- sione. Gli uomini quindi pensano e imparano come agiscono: bi-

sogno

soluzione tecnica

bisogno indotto; necessità di sape-

re

conoscenze precostituite

pensiero coatto. Come nel pri-

mo caso manca una conoscenza dei procedimenti tecnici, di ciò che permetterebbe di legare logicamente il bisogno con il bene

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3 1 . C o n c a v i i n u n m o n d o c o n v e s s o

La coscienza critica non si ottiene contenendo tutti gli ele- menti pervasivi della tecnologia, diventando padroni degli effetti del presente stato di cose. Non è ubriacandosi che si comprendo- no le cause dell’alcolismo. Neppure essere astemi però necessa- riamente aiuta a ottenere indicazioni utili a riguardo: ovviamen- te per comprendere la realtà che ci circonda dobbiamo esser so- bri; ciò non garantisce però niente sugli esiti della ricerca, è una condizione quasi necessaria ma sicuramente non sufficiente. Il fi- ne della tecnologia è quello di accelerare quanto più possibile il passaggio tra l’insorgenza del bisogno e la sua soddisfazione at- traverso l’erogazione del bene ritenuto appropriato. A livello “fenomenologico” ciò rappresenta la soppressione di quante più tappe cognitive possibili per rendere, in linea di principio, istan- tanea la soluzione del bisogno; quest’ultimo è indice sempre di u- na mancanza, di un disagio o di un dolore, è quindi una tensione naturale nell’animo umano superare subito tale stato negativo. La tecnica è nata per risolvere, ovvero portare a soluzione, scio- gliere i bisogni. Nel momento in cui però la tecnica è diventata indispensabile per risolvere ogni tipo di necessità, si è trasforma- ta in pensiero onnicomprensivo, è diventata la ragione (il logos) di ogni suo riferimento semantico, è diventata tecno-logia e così da mezzo si è trasformata in fine. Permettendo, come il denaro secondo Marx, di ottenere tutto per suo tramite è diventata essa stessa qualcosa da cercare di perseguire sempre e comunque.

A quel punto la percezione dell’immediata soluzione del bi- sogno per sua intercessione si è fatta sempre più illusoria, si sono tagliati i tempi di attuazione nell’esatta proporzione in cui si sono allungati quelli di comprensione. Con questo processo si otten- gono a fronte di un evidente vantaggio due nefasti risultati, so- stenuti con veemenza dalla forza propulsiva di alcune vecchie co- noscenze dei moralisti cristiani: l’accidia e l’amor proprio. Solle- vare l’uomo dal riflettere e assecondarne le pulsioni “passionali” è lo specchietto delle allodole della tecnologia: il tutto inoltre vien condito con l’apparenza dell’efficienza, tramite l’immedia- tezza dell’insorgenza del bisogno e risolto dalla strategia, con- densata nell’immagine della propria illusione di grandezza, la ri- cetta del suo soddisfacimento. Non a caso la velocità è stata una divinità mitologica per i futuristi, anch’essa figlia della tecnica. Accelerare i tempi, saltare le tappe, arrivare subito al dunque, e- vitare lo scarto del pensiero: questi gli esiti della tecnica come fi- ne, questi gli effetti collaterali del “mezzo” fatto scienza, della tecnologia.

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ne, ovvero ai due elementi che gli agenti nocivi di questa nostra società continuamente corrodono. Esse devono ricostruire ciò che la tecnologia, nei suoi aspetti coercitivi e schiavizzanti, usura. L’arte della memoria deve essere una “scienza” di nessi logici e semantici, deve ripristinare la catena dei pensieri nella sua com- plessità e, aggiungerei, bellezza. Comprendere che il pensiero necessita del “suo tempo” per realizzarsi, che si deve durare la “fatica del concetto”, significa iniziare a liberarsi dalla semplifi- cazione posticcia e anestetizzante di un mondo di furbi, pieno di trappole, in cui dietro a ogni pensiero breve e facile si nasconde sempre una fregatura. Si deve esercitare la memoria prima di tut- to e proprio perché il mondo ci spinge nel senso contrario. L’arte della memoria è una scienza di nessi; là dove la nostra realtà tec- nologizzata tende ad annullare, negare i legami fra le cose sosti- tuendoli con entità fittizie, essa deve cercare di ripristinarli e così facendo ristabilire l’equilibrio individuale.

In definitiva si sono esposti qui soltanto due esercizi (il secon- do dei quali con tre varianti) per la memorizzazione delle imma- gini e un unico criterio per la costruzione di un teatro della me- moria a percorso; anche se poi si è arricchito quest’ultimo con, al suo interno, una strutturazione gerarchica di immagini svolgenti funzione, a loro volta, di teatri. Ciò può costituire uno schema di- namico di riferimento tale per cui da un’immagine se ne possano poi ricavare tutte le altre; ora, nella comunicazione della nostra società, non accade mai così: ogni pensiero è un qualcosa di ato- mico, di sussistente per sé. Ne consegue che tutti i nessi che poi si creano tra i pensieri non nascono dalla volontà del soggetto ma scaturiscono sempre da interessi che lo oltrepassano: così si for- mano le catene di pensieri che ci incatenano ai nostri bisogni pre- costituiti ed eterodiretti. I principi di questa arte sono pochi e fa- cilmente comprensibili ma, stante l’attuale condizione umana, non altrettanto facilmente realizzabili.

Creazione di immagini, disposizione di spazi mentali organiz- zati (teatri della memoria), criteri di collegamento delle immagi- ni, libertà nella strutturazione degli schemi dinamici di pensiero: mi sono concentrato su questi pochi e ben selezionati elementi delle mnemotecniche per esser libero di fare tante osservazioni e di stabilire principi che altrove non si trovano. Essi soli sono es- senziali per aver accesso a una vera arte della memoria. Questa infatti altro non è che una ben precisa disposizione della nostra coscienza nei confronti dei propri contenuti, delle proprie rap- presentazioni; è un punto di vista su sé stessa, è un modo per rap-

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che lo risolve – così nel secondo latita la riflessione, ciò che po- trebbe tenere insieme nella mente di ognuno capacità critica e immaginazione creativa. Nella prima fattispecie non si addiviene alla risoluzione del bisogno, nella seconda non si ottiene nessun valido sapere; in entrambi i casi manca il nesso logico che lega e quindi porta ad adeguata intellezione, la causa (il bisogno e biso- gno di conoscenza) e l’effetto (il bene e il bene della conoscen- za). Vi è una sovrapposizione e un parallelo procedere tra tecno- logia e didattica: entrambe sono semplificate, entrambe portano ad annullare ogni capacità critica e ogni vera creazione intellet- tuale, sopprimendole tramite la sostituzione con surrogati facili da assumere da parte dell’“utente finale” (bellissima espressio- ne!) e adatti da manipolare da parte del “gestore principale” (tri- stissima constatazione).

I bisogni primari però necessiterebbero di soluzioni complete e mirate. Proprio ciò che la tecnologia e il mondo dell’informa- zione non danno ed anzi cercano di posticipare, ritardare il più possibile. Non a caso le multinazionali della nostra epoca sono centri di potere tecnologico e mediatico: esse consolidano il loro potere (e gli altri poteri che per loro tramite si veicolano all’uma- nità) proprio instaurandosi tra l’insorgenza del bisogno e la sua sponsorizzata soddisfazione. La tecnologia e, su tutte, la tecnolo- gia dell’informazione invece taglia i tempi, annulla la consapevo- lezza critica passando subito dalla premessa maggiore del sillogi- smo esistenziale alla conclusione ipertrofica di bisogni contraf- fatti. Là dove tutto ci spinge ad accelerare i tempi, a saltare i pas- saggi, a omettere importanti elementi di comprensione, là si rompe la catena logica della riflessione che diventa così fram- mentata. Dato che non si comprende come nei particolari la tec- nologia si realizzi negli oggetti d’uso, negli strumenti del nostro mondo, ma si nota superficialmente una risposta diretta e una “sequenza istantanea” tra la domanda e la risposta, tra la richie- sta di un bene e l’offerta di un servizio, si deduce che così anche noi dobbiamo pensare. Si salta il processo di elaborazione, nega- to in quanto addebitato completamente alla tecnologia. Ne esce un pensiero parcellizzato, in cui i nessi logici sono spesso sciolti e le deduzioni svincolate da ogni razionalità strutturata.

È la riappropriazione di un pensiero coerente, logicamente consistente e compiuto dal punto di vista immaginativo, ciò verso cui dobbiamo puntare. In questo le mnemotecniche possono es- serci d’aiuto: esse forniscono un valido (seppur limitato) suppor- to all’articolazione del pensiero e all’esercizio dell’immaginazio-

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Le forze oppressive che prendono forma nei vari apparati di potere, ma che hanno origine nel cuore dell’umana natura, sono tante e in azione perpetua; ci vogliono sempre più concavi in un mondo sempre più convesso e se, per puro caso, ci accorgiamo di poter allargare il raggio del nostro orizzonte, esse ci pressano e riducono ancor più la nostra naturale convessità. Esse tendono alla dispersione delle coscienze tramite la sperequazione delle conoscenze e propongono a ogni piè sospinto la banalizzazione sotto forma di semplificazione del complesso, o spacciano per “profondo” la trasformazione di contorti vaniloqui in stucchevo- li misture esoteriche avariate dall’ampollosità del condimento linguistico con cui ce lo propinano. Teoria e azione sono le punte di una forbice che va continuamente allargandosi e che, per gra- vità, ci richiama all’incrocio delle lame, ci spinge ad addivenire alla nostra scissione perché, scivolando lungo l’affilatura, più procediamo in basso e più il nostro taglio si compie. Il perno del- le forbici, la vite che tiene unite le lame è ciò che paradossalmen- te – ma anche necessariamente – porta a termine la nostra scis- sione. Il vertice del nostro angolo convesso ci attira e nel richia- marci a sé ci taglia, ci divide e, in definitiva, in quanto punto di u- nione, tende a separarci.

Alla luce di questo concetto rileggiamo l’ironica battuta di Albert Einstein: «La teoria è quando si sa tutto e niente funzio- na. La pratica è quando tutto funziona e nessuno sa il perché. In questo caso abbiamo messo insieme la teoria e la pratica: non c’è niente che funzioni... e nessuno sa il perché!». Ecco, l’arte della memoria, secondo me, e per quel poco che è oggettivamente pos- sibile, dovrebbe iniziare a riconciliare teoria e pratica, facilitati anche dal fatto che in essa teoria e pratica quasi sempre coincido- no: non si è mai veramente a conoscenza della teoria se non si riesce a metterla in pratica. E una volta appresa, l’arte la si può anche mettere da parte perché – veramente – l’arte della memo- ria in sé non è niente. Ha un valore, certo, ma è di ribellione, al- larga i polmoni dell’anima, riabilita il pensiero per far sì che do- po le sue cure fisiche esso possa tornare a camminare con le pro- prie gambe. Ogni nostro più piccolo sforzo di concentrazione an- drebbe sempre indirizzato a opporsi alle nuove tensioni sociali che hanno un loro corrispettivo e un ben identificabile referente nella sfera cognitiva e che diffondono il loro deleterio e asinto- matico effetto soprattutto nella didattica generalizzata, quindi non soltanto a scuola, ma su internet, al cinema ecc. L’arte della memoria dovrebbe avere una funzione terapeutica per riattivare

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presentarsi il mondo. Tutto ciò parte sempre e comunque da co- me ci raffiguriamo le cose (ecco perché dobbiamo esercitarsi nel rappresentarcele), dal criterio con cui le ordiniamo (ecco il per- ché di un teatro), dal metodo con cui da una ricaviamo, risaliamo alle altre (ecco il perché di uno schema dinamico).

Attraverso alcuni criteri e indicazioni su come parametrizza- re le immagini si sono poste le basi per una corretto sistema di a- strazione mnemonica che sarebbe forse opportuno sviluppare in altra sede. Dato che la nostra metafora è di origine geometrica – e infatti cosa c’è di più geometrico di un cerchio se non, forse, la sua quadratura? – proviamo a considerare il nostro mondo come un angolo tondo; cos’altro è infatti la nostra coscienza? Niente più di un “cerchio tridimensionale”, una sfera di rappresentazio- ni, una bolla di immagini e il nostro io nient’altro che il centro geometrico e il baricentro di questa sfera, il punto di vista sulle proprie illusioni posto al loro interno, all’interno della sfera di cartapesta del proprio universo cognitivo. La prospettiva su sé stessi quindi è sempre un angolo con il nostro io al vertice. Ciò che spero sia emerso è la tendenza a rendere la nostra prospetti- va sulla realtà, per quanto possibile, sempre meno convessa pur non riducendosi a piatta o, peggio ancora, a concava.

Dato che siamo tutti, chi più chi meno, angoli ottusi, quindi convessi, aumentare la visione periferica potrebbe certo portarci a considerare in maniera più olistica il nostro mondo di rappre- sentazioni. Fondamentalmente però restiamo sempre “esseri” convessi e ciò non è detto che sia necessariamente un male se cerchiamo di correggere questa tendenza con due “intenzioni”. La prima è cercare di aumentare un po’ il raggio d’azione; la se- conda di muovere le semirette che ci costituiscono sul piano del- l’esistenza in maniera tale che possiamo ovviare all’ottusità del nostro angolo visuale con la velocità di movimento e quindi con l’abilità di spostare la concentrazione su altri punti. È ovvio che se fossimo angoli concavi perderemmo completamente la nostra capacità di concentrazione e, quindi, di pensiero. Anzi, è quel go- mitolo di forze semiocculte che ci determinano (ovvero che ten- dono “in sé” ad assecondare l’egoismo e l’indolenza soggettiva e, “per sé”, all’oligarchia culturale e politica) a far sì che la nostra dimensione cognitiva si espanda a dismisura in modo che sia sempre più immobile la nostra attenzione, sempre più sclerotica la nostra capacità comparativa, sempre più livellata ogni facoltà critica, dispersa qual si voglia capacità di concentrazione e in- trappolata ogni ipotetica libertà di movimento.

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quegli arti e esercitare quei movimenti che il mondo ci impedi- sce, e un effetto preventivo per contrastare l’osteoporosi dei no- stri pensieri.

Dobbiamo iniziare a camminare tra le nostre illusioni, com- prendere come e quanto esse costituiscano un cerchio all’interno del quale noi ci dibattiamo senza possibilità di uscirne. Una volta iniziato a camminare però la si può benissimo lasciare a casa, chiusa in una stanza con quattro angoli concavi e quattro conves- si, i primi tre volte più grandi dei secondi. Lasciarla là con questa realtà per tre quarti concava di paura e per un quarto convessa d’incoscienza. Lasciarla là a fermentare da sola.

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3 2 . R e i c h e E l t e r n f ü r A l l e . A r t e d e l l a m e m o r i a e d e q u i t à d i d a t t i c a

F

ino ad ora non abbiamo fatto altro che una voluminosa intro-

duzione, resa per altro opportuna da una banale considerazio- ne, precedentemente proposta: l’arte della memoria non produ- ce niente di ostensibile, niente di materiale, non un quadro da guardare, non un foglio scritto da leggere, non una statua da toc- care, non una canzone da ascoltare, non un file da visualizzare sul computer, non un video o una fotografia da proiettare su uno schermo, ma soltanto immagini da ricordare. Questo non è un li- mite ma la sua unica grande “potenzialità”: essa non utilizza in- fatti nessun strumento mediatico, niente a cui la dissociazione tecnologica e l’alienazione sociale possano appigliarsi. D’altra parte è un’arte estremamente “volatile”, impalpabile, è una col- lana di pensieri, un gioco di immagini finalizzato a una trasfor- mazione degli stati di coscienza per altro difficile da definire. Se all’inizio può esser d’aiuto la si consideri pure come un semplice gioco d’abilità, niente lo vieta.

A dispetto del loro stato di quasi completa anonimità, forse le mnemotecniche dell’anima sono le più importanti forme artisti- che della contemporaneità, di un tempo gestito dall’archiviazio- ne strumentale di matrice informatica che solleva la memoria perfino dall’esistere, riducendo la sua (della memoria) attività a procedura di interrogazione di un motore di ricerca e i ricordi ad aggregato strutturato di dati. Forse la vera arte oggi non deve a- vere i caratteri dell’imperitura sopravvivenza materiale, forse deve semplicemente servire a non mandare alla deriva le co- scienze e l’umanità che, sulle coscienze, galleggia. Forse è giusto impegnarsi per ricordare più e meglio da soli proprio perché il mondo del pensiero tecnologizzato (che non è quel che è a caso) tende ad archiviare ogni inezia per poi indurci a ricordare meno e peggio tutti insieme ciò che è veramente importante.

Capitolo 32

Reiche Eltern für Alle.