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ché la falsa speranza che sia più semplice imparare ripetendo. Ciò dà anche un senso di sicurezza. Vi è infine la componente vanesia di ognuno di noi che evita di praticare nuove strade per paura di non essere all’altezza. Certo se si crede di studiare le m- nemotecniche per entrare nel guinness dei primati allora è gioco forza abbandonare prima ancora di cominciare e trovare un’in- finità di scuse. Il fatto è che non si deve diventare bravi come un professionista ma semplicemente un po’ più bravi di quello che eravamo noi stessi ieri. Le mnemotecniche infine, e per ribatte- re a un’altra obiezione fasulla ma che viene spesso avanzata, non insegnano (o almeno non dovrebbero insegnare) a memo- rizzare in maniera meccanica e statica ma attiva e dinamica, creando collegamenti fra le immagini ma, per loro tramite, an- che fra i concetti. Quindi non si tratta di una memorizzazione li- mitata alle “parole” ma implica anche una seria e profonda ri- flessione, nonché analisi, di ciò che si sta imparando. Insomma una qualsiasi materia di studio appresa con le mnemotecniche viene, o può venire, imparata in maniera più profonda e più “ri- flessiva” che non con qualsiasi altro metodo. Le mnemotecniche sono l’unica metodologia didattica che non è possibile ridurre alla ripetizione a pappagallo; tutte le altre forme di didattica lo sono, se non sempre direttamente, almeno indirettamente sì.

Insistere sulla critica alla ripetizione meccanica non è un puro esercizio di stile. Purtroppo la pedagogia, per quanto disciplina molto studiata, in questo è avanzata poco o niente; tutte le meto- dologie didattiche che è possibile imparare all’università alla fine si rifanno sempre alle solite procedure fatte di analisi del testo, sintesi, rielaborazione, ripetizione, interazione sociale, test, pro- tocolli di ricerca, tecnicismi vari ecc. Certo, ogni tanto viene fuo- ri una nuova moda ma che alla fine, levata la panna dal latte, pro- duce sempre lo stesso burro. In questo, il sistema classico dell’ar- te della memoria e la sua disciplina madre (la retorica) restano fondamentalmente insuperati. Anzi andrebbero recuperati ma non come è stato fatto fino ad ora, come fossero un rimasuglio da gettare e rigirare nel calderone della semiotica, della semiologia e di tutte quelle teorie della comunicazione iper-pubblicizzate. Un esempio che dimostra quanto sto sostenendo ce lo fornisce il comunque buon libro di Mario Polito (Guida allo studio: la me-

moria); riporto una sentenza che, se non completamente rifiuta-

ta, va sempre e comunque ridefinita: «L’informazione entra a far parte del deposito a lungo termine solo in seguito a una ripetizio- ne di mantenimento o a una ripetizione elaborativa».

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quando non addirittura deleteria) tutto è “meglio”, anche non studiare affatto; ma credere che memorizzare ripetendo, riflet- tendo e argomentando con proprie parole sia il modo migliore per memorizzare o imparare è una poco pia illusione. È un mero pregiudizio “intelletualoide”: ovviamente una ripetizione “atti- va”, ovvero ripetendo e argomentando con proprie parole e tesi i concetti da imparare, è di maggior aiuto alla memorizzazione che non la meccanica ripetizione delle parole che, vale la pena puntualizzarlo, resta comunque la forma di memorizzazione quasi esclusivamente e universalmente utilizzata. Domandia- moci però in cosa consista la maggior efficacia della ripetizione “attiva” rispetto alla ripetizione meccanica. Purtroppo qui “ca- sca l’asino”, nel senso che generalmente si tende a trovare moti- vazioni quali: «si attiva questo», «si diventa maggiormente con- sapevoli di quell’altro»; gli psicologi e i pedagogisti poi si lancia- no in tutta una serie di riflessioni fasulle – tanto più sbagliate quanto più si basano sul “senso comune” (che spesso viene na- scosto dietro tutta una coltre di procedure pseudoscientifiche, protocolli di ricerca ecc.) – e su ciò che è logico “concludere”. Tutta questa brava gente (psicologi, pedagogisti, professori e in- segnanti di ogni sorta) devono necessariamente sbagliarsi dato che i mnemotisti ricordano molte più cose di loro e con uno sfor- zo molto, ma molto minore.

Il vantaggio della ripetizione attiva (e di tutte le metodologie didattiche che a vario titolo su essa si fondano) da parte dello studente è determinata dal fatto che egli si trova costretto a pen- sare per immagini, a creare immagini proprie sui concetti che vuol memorizzare ma, comunque, tale tipo di ripetizione fa leva sulla parte finale e assolutamente marginale della memoria, la rievocazione. La ripetizione, anche quella attiva, è una pratica erronea proprio perché presuppone ciò che ancora non è stato fatto: la memorizzazione. Quest’ultima attività, come già detto, presuppone che le nuove conoscenze da fissare nella memoria, e quindi di per sé instabili, debbano disporsi su un piano già con- solidato (il teatro, qualunque esso sia), su una struttura stabile. Il mero ripetere invece mantiene le nuove conoscenze soltanto sul loro piano dialogico, quindi instabile e così non si fissano che parzialmente nella memoria. Deve esser chiaro che non si impa- ra ripetendo, quindi anche una ripetizione “attiva”, “rielabora- tiva”, presuppone ciò che ancora non è stato fatto né, evidente- mente, si ha intenzione di fare. I motivi sono semplici da trova- re: rigidità mentale, abitudine e indolenza in primo luogo, non-

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mo appreso, l’evolversi dei nostri discorsi. Anzi tanto più la persona è dotata in immaginazione, fantasia, eloquenza tanto più creerà pensiero e tanto meno l’esercizio servirà alla memo- rizzazione a lungo termine. L’ordine però dovrebbe essere sempre in considerazione dello schema mentale naturale della nostra mente.

3. L’associazione, come già detto, deve “andare” per orizzontale, ovvero deve procedere di immagine in immagine, o di concet- to in concetto. L’associazione può certo essere, ed anche ne- cessariamente lo deve, tra immagine e concetto ma il legame, come mostrato avanti, deve sempre procedere dal simile al si- mile, quindi da un’immagine a un’altra immagine; i concetti in- vece devono procedere “parallelamente”, su un altro piano di riflessione. Il significato delle immagini, ovvero il rapporto che le lega ai loro propri concetti, deve scaturire da una “sorta” di parallelismo “psico-metafisico”. Se si pensano le immagini giu- ste nell’ordine corretto anche i concetti emergeranno dalle ac- que torbide del pensiero e si isseranno quasi per moto interno verso la luce dell’intellezione. Detto altrimenti deve esser già tutto nell’immagine il riferimento al concetto, e ciò vale tanto che il collegamento abbia natura metaforica o puramente con- venzionale. Se si cerca un “medio terzo” tra l’immagine e il suo concetto ecco comparire lo sforzo, perché si richiede alla men- te un balzo di livello, di passare forzatamente dal livello delle immagini a quello dei concetti pur continuando a immaginare. Ripetiamolo, qui è l’origine dello sforzo mnemonico che va, per quanto possibile, eliminato.

Esiste un motivo per cui queste tre condizioni sono fondamenta- li e ineludibili? A mio avviso sì e, considerando i tanti filosofi e psicologi che ci hanno scritto sopra, non ho timore di dire «non soltanto secondo me». La nostra storia individuale e, su un altro piano speculativo, la storia del nostro genere, dimostrano che il pensiero umano ruota intorno ad alcuni “principi” cardine, ad al- cuni contenuti rappresentativi fondamentali e fondativi. Tali i- dee sono degli universali e, al tempo stesso, sorgenti del nostro pensiero. Si tratta di idee che rappresentano il “modello” e al tempo stesso la fonte da cui sgorgano le altre idee. Le mnemo- tecniche devono identificare, circoscrivere e renderci consapevo- li dell’importanza di tali idee. Devono però fare anche qualcosa di più, devono comprendere i meccanismi mentali che “sovrin- tendono” a tali idee, farli propri e applicarli alle tecniche di me-

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Questo è vero e falso al tempo stesso: è vero perché se si è pa- droni del soggetto lo si ridiventa anche delle aggiunte al sogget- to. Uno studioso del pensiero di Wittgenstein ha bisogno di po- che ripetizioni, anzi nessuna, per memorizzare le informazioni nuove che acquisisce alla lettura di un nuovo saggio critico su Wittgenstein. La rielaborazione in quel caso viene in automatico e quasi senza sforzo alcuno. Se invece si considera per “rielabo- razione” il ripetere quel che si è letto con parole diverse da quel- le scritte, cercando di esprimere i concetti con parole proprie, c’è da dire che il risultato non è proporzionato allo sforzo effettuato. Certo prima che ripetere a pappagallo tutto va bene, ma se l’al- ternativa è fra ripetere rielaborando con parole e pensieri propri oppure ripetere affidandosi a un teatro di immagini, allora non ho dubbi ad affermare che la seconda è la risposta giusta. Ovvia- mente poi, rievocando le immagini, si può ripetere e rielaborare i contenuti con pensieri e parole propri. Una cosa non esclude l’al- tra, tenendo fermo però il punto che una cosa funziona meglio dell’altra.

La tesi della rievocazione elaborativa si poggia sul principio dell’associazione: è più facile ricordarsi qualcosa creando asso- ciazioni proprie. Questo è indubbiamente vero ma con dei limiti e delle precisazioni ben definite.

1. L’associazione deve essere tra la cosa nuova e una cosa che si conosce bene. Rielaborando invece si finisce spesso per legare concetti nuovi a immagini, a pensieri nuovi. È certo un ottimo esercizio di creatività, senza il quale lo studio e il lavoro sareb- bero sempre, e per tutti, ottusi, noiosi e infruttuosi, ma la bontà di tale pratica svanisce presto se non si adottano gli op- portuni “contrappesi”. Legare infatti il nuovo concetto alla rappresentazione improvvisata sul momento non aiuta a ricor- dare e spesso succede che si esprimono, parlando con gli altri o pensando tra sé, pensieri nuovi ed eccezionali che ci riempiono di gioia ma poi al momento che si cerca di ricordarli, magari per metterli per scritto, accade che non ce li ricordiamo più, oppure non ce li ricordiamo nella loro interezza e nell’insieme coerente e col filo logico con cui li avevamo all’inizio pensati. Tutti abbiamo provato frustrazioni del genere.

2. Le associazioni che si fanno nella rievocazione elaborativa do- vrebbero essere tra loro ordinate. Accade spesso invece il con- trario, ci lanciamo in rielaborazioni nel ripetere con parole e pensieri nostri seguendo, più che il filo logico di ciò che abbia-

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fetta esecuzione dell’astrazione “coerente”, quella cioè che parte dal percepito per giungere al rappresentato.

Deve quindi esserci un’identità del tempo e dello spazio tra ciò che si pensa e la rappresentazione che ce lo deve evocare; pensare un concetto nella sua eterea astrazione, oppure colle- gandolo a un’immagine simbolica, pur essa con elementi domi- nanti di carattere formale, rende difficoltosa e forzata tanto la memorizzazione quanto la rievocazione. Una cosa va sempre pensata in relazione al momento e al luogo in cui la si pensa o si pensa essa debba stare.

La memorizzazione passante per lo sforzo rappresentativo quindi non deve farci cincischiare sull’immagine, deve essere un atto rapido, deciso e perentorio. Se devo ricordarmi di comprare le mele, mi immaginerò una bella ragazza nuda sul banco del mercato con dietro “due belle mele rosse” che mi grida: «Com- prami!». Deve essere un’immagine che mi rappresento veloce- mente e una volta per tutte; non devo starci a ragionare sopra. Il tempo dedicato alla rappresentazione non è mai proporzionale alla durata del ricordo se, ed è un se rilevante, si adottano le op- portune misure di edilizia cognitiva. L’immediatezza della rap- presentazione, l’esattezza dell’immagine ottenuta e l’adeguato coinvolgimento emotivo attribuitale non inficiano minimamente la teoria per cui il ricordo prodotto dalle mnemotecniche è qual- cosa di “naturale”; né pongono il tutto sul mero piano intuitivo. Il fatto che un soggetto allenato si crei istantaneamente immagi- ni mnemoniche delle cose che deve ricordare non significa affat- to che il suo sia un lavoro “intuitivo”. Al contrario si tratta di un lavoro deduttivo molto complesso che egli, per estro ed eserci- zio, riesce a sintetizzare in un attimo.

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morizzazione. Questo argomento da solo necessiterebbe di un trattato per venir degnamente affrontato quindi, pur a malincuo-

re, devo lasciar cadere l’argomento1.

La scala di valori dell’immaginazione è in realtà una pirami- de alla cui base c’è l’infinita gamma delle qualità sensibili rite- nute reali e al vertice l’indistinta coscienza di sé. Il pensiero u- mano si struttura in considerazione di quelle che sono le idee che, con più forza, si sono imposte nella coscienza. L’entità del- l’impatto sensibile, della paura e di altri sentimenti “fondamen- tali”, decide della possibilità di un’idea di diventare un’idea car- dine per il pensiero umano. La prima volta che una cosa viene conosciuta assume i caratteri della novità e la passione che ac- compagna le idee nuove è la meraviglia; una passione imperfet- ta si dirà, perché non direttamente collegata con un’aspettativa di bene; quindi quanto più una novità ci colpisce, ci stupisce, tanto più sarà facile che resti impressa nella nostra mente, che diventi un’idea familiare, un universale dell’immaginazione. La meraviglia è una passione “improvvisa” e ciò che fissa nella mente lo fissa con immediatezza, ma resta a lungo. Allo stesso modo dovrebbero funzionare le mnemotecniche, suscitare im- provvise passioni collegate sempre a rappresentazioni dal carat- tere subitaneo: devono esser presenti con forza alla coscienza ma restarvi un attimo.

Due teorie quindi negano con argomentazioni, a mio avviso definitive, la teoria della ripetizione del concetto al fine di me- morizzarlo meglio: la concezione “naturalistica” della memoria per cui essa non potrà mai venir ridotta a completi schemi di tipo scientifico o “scientificizzante”, e la teoria dell’identità del tem- po e dello spazio. Memoria naturale, ovviamente, è un’espressio- ne quasi insignificante, se non che nel ricordarsi dobbiamo sem- pre partire dalle nostre percezioni, dalle nostre sensazioni. L’a- strazione deve sempre procedere dalle rappresentazioni a carat- tere percettivo e da quelle procedere verso il concetto, mai per sbalzi ma sempre gradualmente e senza forzare la “natura” delle cose. Ciò ovviamente non contraddice ciò che ho detto poc’anzi, semmai ne completa il senso. Che si debba rappresentarsi con velocità e senza titubare non significa che si debba procedere a scatti, la velocità della rappresentazione semmai indica una per-

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1A tali argomenti è dedicata buona parte del mio primo saggio: P. Fabiani, La fi-

losofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche, Firenze, Firenze University

capitato di non ricordarci una parola: ce l’abbiamo sulla punta della lingua ma non ci vuol proprio tornare a mente. Poi accade che ascoltiamo una conversazione, sentiamo un rumore oppure anche una sola lettera e, come per miracolo, la parola perduta af- fiora a galla. Ora Bruno, ispirandosi in parte a Pietro, l’aveva pensata proprio bene: non importa memorizzare tutte le parole, è sufficiente memorizzare la prima sillaba o, semplificando noi ancor più, le prime tre lettere che compongono il fonema. Egli partì quindi dall’alfabeto latino a cui aggiunse le lettere greche che non trovavano in esso un corrispettivo fonetico e semantico e le lettere dell’ebraico, il tutto per 30 simboli. Al di là dell’aspetto mnemo-fonetico, pur rilevante nel nostro discorso ma sul quale siamo costretti a sorvolare, è da considerare che queste 30 lettere devono potersi anche combinare tra loro. Bene, a ogni lettera dell’alfabeto colleghiamo una persona; nel mio caso, essendo un uomo, una donna. Non è necessario che il nome della donna inizi con la stessa lettera che deve rievocare la sua immagine ma, se così è, tanto di guadagnato. La ragazza è quindi il soggetto non- ché la prima lettera della sillaba da ricordare. Adesso dobbiamo occuparci della seconda lettera, come facciamo a ricordarcela? Semplice, il nostro soggetto, la nostra signora, dovrà pur far qualcosa; ecco, l’azione che essa compirà verrà collegata alla se- conda lettera. L’azione ha funzione di predicato verbale, indica l’azione e insieme al soggetto è uno dei componenti fondamenta- li della frase in quasi tutte le lingue. Inoltre il predicato verbale, nella frase semplice, segue sempre il soggetto, quindi non soltan- to cronologicamente ma pure logicamente l’azione segue l’agen- te. Con il verbo abbiamo quindi la seconda lettera; la terza a que- sto punto non può che essere il complemento oggetto, ciò verso

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n errore da molti commesso è quello di immaginarsi delle sto-

rielle, delle trame, delle scene da film per meglio memorizzare fatti, persone, cose, programmi d’esami ecc. A un certo livello – e utilizzando tecniche specifiche – ciò può avere anche un senso; al- l’inizio dello studio è un’attività sicuramente deprecabile. Funzio- na, quando funziona, per motivi tutt’altro che banali e di facile in- tuizione. Quindi lasciamo perdere; conviene invece concentrarsi su ciò che è possibile fare da subito. L’azione deve esser presente quasi sempre in una rappresentazione che voglia mantenersi a lun- go nella memoria, ma non deve costituire una trama troppo com- plessa. Come una frase semplice ha un soggetto, un verbo e un complemento oggetto, così l’immagine che dobbiamo fissare nella memoria deve avere qualcuno – o qualcosa (il soggetto) – che compie un’azione (verbo) su qualcos’altro (il complemento ogget- to). La similitudine tra imagines agentes e periodo sintattico sem- plice non è affatto banale e rappresenta uno dei punti di forza di teorie come quella di Prendergast.

L’imagines agentes deve quindi ridursi, inizialmente, a rap- presentare non una storia complessa (un film – tanto per inten- derci), quanto una singola azione, un insieme limitato di “se- quenze” di immagini che permettano di fissare l’immagine della cosa all’azione compiuta con, da, oppure su di essa. Deve essere, semplicemente, un’immagine in movimento o, per la precisione, un’immagine di un’azione. Deve esserci qualcuno o qualcosa che fa qualcos’altro. Bruno nella “prima pratica” consigliava di crearsi un alfabeto in cui a ogni lettera poter collegare una perso-

na nell’atto di compiere un’azione su un oggetto1. A tutti noi è