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La “dimensionabilità”: una strada per l’astrazione

vivida immaginazione, pur incontrando una maggior difficoltà all’inizio, se persistono e se trovano le giuste motivazioni interio- ri, diventano più brave delle altre.

Giocare con le figure delle cose ritagliandole per farle entra- re nel nostro album dei ricordi dovrebbe essere un’operazione divertente e abbastanza consueta; purtroppo non sempre è chia- ro come ciò possa tornare utile nella realtà quotidiana. Certo per lo studioso di mnemotecniche il valore è dato dall’oggetto stesso della ricerca, ma per gli altri è difficile trovare un senso a una pratica intellettuale così astrusa e fuori dall’ordinario. In realtà credo valga lo stesso discorso per chi va a fare jogging. Non si tratta di professionisti che devono allenarsi per le gare, né c’è bisogno di correre per un’ora senza fermarsi nelle vicende della vita quotidiana. Certo, può capitare di dover correre per prendere l’autobus ma, ugualmente, può capitare di doversi ri- cordare tante cose differenti senza avere l’opportunità di scri- versele da qualche parte. Però, come il fine del jogging è quello d mantenersi in forma, così le mnemotecniche possono servire a mantenere in forma la mente e a dare una fisionomia diversa al- la realtà tutta.

L’esercizio di memoria non consiste quindi semplicemente nell’immaginarsi certe cose in certi luoghi ma nel saperle modi- ficare e padroneggiare, nel definirsele nei minimi particolari, nel vederle come fossero reali. Anche se tale spazio è immaginario, egli deve dedicare la stessa attenzione, che aveva riservato per la cosa, a definirlo e osservarlo. Fatto ciò, e nel fare ciò, egli de- ve ridimensionare il luogo alla cosa e la cosa al luogo e osservar- li in prospettiva. Deve infine spostarsi, ovvero spostare la pro- spettiva in cui vedere la cosa e il luogo, e nello “spostarsi” deve modificare e parametrizzare tanto la cosa al luogo quanto il luo- go alla cosa.

Il mnemonista deve, in altri termini, essere il cameraman, il montatore e il regista del film dei propri ricordi, con una piccola particolarità: la macchina da presa è la propria immaginazione che, a differenza di quella reale, non mette niente a fuoco da sé – né, tanto meno, cattura una scena reale presente che le si pone davanti – ma è essa stessa (immaginazione) a creare la scena che deve poi rappresentare. Questa piccola differenza cambia tutto; per questo la memoria non è semplicemente il film dei nostri ri- cordi: essa, a differenza della macchina da presa, non riproduce una scena registrata ma registra una scena che ha prodotto e ri- prodotto (ovvero alterato) da sola. La coscienza quindi non ri-

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Una volta mi è capitato di dovermi creare un luogo in uno spazio al margine di una strada. Dal punto di vista strutturale era ottimo. Dietro ad esso, a forma di semicerchio, iniziava una colli- na molto ripida e con fitta vegetazione, mentre davanti era limi- tato dalla strada asfaltata; tale spazio inoltre era pianeggiante, sterrato (rappresentando quindi un elemento di discontinuità sia nei confronti del bosco verde che dell’asfalto nero) e omogeneo. Era però troppo grande, un semicerchio con circa una ventina di metri di raggio: i due opposti limiti, in cui la semicirconferenza “verde” del bosco (e in parte della siepe di due giardini che anda- vano a incastrarsi tra bosco e strada) si incontrava con la strada, erano lontani più di quaranta metri. Era troppo grande per porci qualsiasi cosa, era inoltre sproporzionato nei confronti degli altri luoghi. Aveva tutte le caratteristiche per essere un ottimo luogo meno che per le dimensioni. In realtà tale luogo ricordava vaga- mente, per forma e per dislocazione nei confronti del bosco, il posto, vicino a casa dei miei parenti, in cui giocavo da piccolo e che ho citato all’inizio di questo scritto. Anche e soprattutto per questo motivo era un buon luogo. Insuperabile però sembrava il problema delle dimensioni. Esercitandomi e quasi senza render- mene conto adeguavo l’immagine della cosa a quella del luogo. Come uno zoom della fantasia mi rappresentavo la cosa propor- zionandola al luogo.

Le dimensioni dei luoghi e delle cose nel teatro della nostra mente sono sempre relative, relative soprattutto alla rappresen- tazione delle une nelle altre, quindi possono venir tra loro pro- porzionate, ovvero se ne può cambiare le proporzioni ingranden- dole o riducendole a piacimento. È questo il primo passo per procedere da un teatro reale a uno astratto e completamente mentale. Infatti, modificando le proporzioni del rappresentato per renderlo più adatto ai nostri scopi, siamo noi che, attraverso uno sforzo volitivo, dominiamo la nostra immaginazione e non viceversa.

L’esercizio progressivamente conduce all’astrazione e alla completa manipolazione delle figure. Il fatto che possiamo mani- polare, deformare, dimensionare e parametrizzare le immagini della nostra mente però non dovrebbe stupirci, dato che lo fac- ciamo continuamente; soltanto che lo facciamo senza una precisa consapevolezza e come trascinati dai nostri sentimenti, dalle no- stre abitudini, dal nostro sentire. Le mnemotecniche da questo punto di vista non fanno altro che “regolare”, mettere “a regi- me” il naturale corso del pensiero. Per questo le persone con una

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abbiamo mai percepito, con le nostre fantasie. Concentrarsi sempre sul baricentro dell’immagine e da lì espandere l’atten- zione. È importantissimo fare così!

Lo spirito d’osservazione – non per qualcosa che è fuori, nel mondo “reale”, ma per qualcosa che è dentro la coscienza, che è stato creato e mantenuto “in essere” esclusivamente dall’imma- ginazione – è ciò che contraddistingue il mnemonista. Saper os- servare e giudicare qualcosa che esiste soltanto nella nostra im- maginazione è un’arte profonda e il cui valore è evidente. Se in psicologia l’autoanalisi può essere accettata, criticata, rifiutata ecc., nelle mnemotecniche è invece fondamentale e imprescindi- bile; ma credo abbia anche un indiscutibile valore “psicoterapeu- tico”. Essere padrone dei propri pensieri è sempre meglio che es- sere schiavo delle altrui fantasie.

La critica e l’analisi richieste nel saper valutare e osservare i contenuti della propria immaginazione sono infatti, a detta di tutti, le capacità più difficili da conquistare. Si può infatti avere uno spiccato spirito critico, una mente analitica, seguire una logi- ca matematica ecc., eppure non essere minimamente in grado di dar ragione delle proprie fantasie. Pensiamo a un ragazzo che so- gna di possedere una motocicletta: si immaginerà un ben preciso modello, se la immaginerà nei minimi particolari, se la figurerà persino in quei particolari che in un modello reale non può vede- re, come le parti interne del motore, gli accessori di cui intende dotarla ecc. Immaginerà sé stesso mentre guida la moto su una strada di campagna con la sua fidanzata che lo stringe forte men- tre impegna una curva a gran velocità. Egli del tutto naturalmen- te saprebbe sostenere un esame universitario su questa moto, prenderebbe il massimo dei voti senza nessuno sforzo, tanto il pensiero della moto è sostenuto e va a soddisfare i suoi desideri: sa dimensionare perfettamente l’immagine della moto nel luogo della sua vita e delle sue aspirazioni e anche il mnemonista do- vrebbe saper dimensionare le cose da ricordare nei luoghi dei suoi teatri, nella sua vita e nelle sue aspirazioni.

Se il nostro ragazzo sapesse osservare, valutare e distinguere nella sua mente anche altre immagini, ma con minore carica e- motiva, di quanto riesce a fare con la fantasia della moto, allora avremmo un mnemonista provetto. Con immagini dal forte im- patto emotivo è certamente facile ricordare anche senza far ri- corso a nessuna tecnica e pure se la capacità critica latita comple- tamente. Nelle mnemotecniche invece si tratta di “pilotare” la carica emotiva con quella lucidità che, nel “ricordo naturale” e-

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propone mai semplicemente la realtà che ha percepito; mentre la macchina da presa registra una scena (sebbene anch’essa da un punto di vista particolare) seguendo regole fisiche ben precise, la “macchina da presa della coscienza” invece nel registrare la realtà, in primo luogo, registra sempre sé stessa. L’attinenza tra la realtà del percepito e l’esistenza del rappresentato è sempre un fatto ipotetico e, ai fini del nostro discorso, tutto sommato an- che marginale.

C’è un altro elemento di non poca rilevanza che distingue l’occhio dell’immaginazione dall’obiettivo della telecamera: la messa a fuoco. La telecamera rende un’immagine omogenea, comprensiva di tutti gli elementi che rientrano nel suo campo di fuoco. L’immaginazione umana funziona in tutt’altra maniera. Pensiamo a una fotografia: ogni parte che la compone è compre- sente alle altre. Questo difficilmente accade alle rappresentazio- ni mentali; quest’ultime sono molto più indefinite, frammenta- rie, come dei puzzle non completi hanno dei vuoti al loro inter- no, delle pedine mancanti. È la nostra mente che, a livello cogni- tivo, ci dà “l’idea” completa della cosa a cui stiamo pensando. La macchina fotografica come la videocamera ci forniscono sempre delle immagini complete (statiche o in movimento poco importa adesso), la nostra immaginazione quasi mai. Nella me- morizzazione delle immagini si deve quindi procedere in manie- ra differente rispetto agli strumenti meccanici ed elettronici dei quali ci serviamo per aver memoria materiale delle nostre im- magini. Pensiamo all’esercizio di visualizzazione esposto all’ini- zio del libro. Procediamo mettendo a fuoco il centro della nostra immagine e da lì espandiamo la nostra attenzione ponendo il massimo della cura affinché i ricordi periferici si aggancino sem- pre a quelli più centrali che li hanno preceduti. Quindi quando dobbiamo memorizzare un’immagine partiamo dal centro, sia esso il centro fisico, geometrico della rappresentazione, così co- me il suo centro emotivo (e non è detto che i due coincidano ne- cessariamente). È fondamentale comprendere quale sia il cen- tro emotivo della figura; in pochi si rendono conto di questo a- spetto del pensare per immagini: ogni rappresentazione ha, ol- tre a un centro geometrico, un suo specifico baricentro “passio- nale”, dobbiamo abituarci a individuarlo istantaneamente. Tra i due ovviamente è sempre meglio partire dal centro emotivo an- che se esso si trova, per ipotesi, a uno dei margini dell’immagine geometrica. Dobbiamo andare dal centro alla periferia. Possia- mo imparare a fare così anche con le immagini di cose che non

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(per mantenere l’esempio fatto prima) né del concetto di “mela”; il fine o, meglio, uno dei principali obiettivi della pratica dovreb- be essere l’esercizio della mente che porta, col tempo, ad acquisi- re una notevole, diversa (da quella che è normalmente) elasticità e versatilità del pensiero.

Se penso al principio di non contraddizione come a due pe- doni, uno bianco e uno nero posti su una scacchiera, e a un ter- zo pedone metà bianco e metà nero, oppure grigio, rovesciato e fuori della scacchiera e il tutto lo penso in un ben preciso luogo del mio teatro, ottengo una raffigurazione “materiale” di un concetto astratto. Se mi esercito alla visualizzazione essa diven- ta un esercizio di traduzione (un particolare tipo di traduzione che va dalle parole alle cose) sempre più spontaneo e immedia- to, tanto che immaginandomi scacchiera e pedoni sempre più piccoli alla fine essi spariscono dal mio panorama come imma- gini ma restano come concetti, potendo così spostarmi nel mio teatro senza più il bisogno di rappresentarmi nessun oggetto dentro ai luoghi mnemonici e – pur tuttavia – ricordarmi perfet- tamente i concetti che precedentemente, tramite la visualizza- zione iconica delle cose, vi avevo posto. Molti mnemonisti pro- fessionisti adottano principi similari a quello or ora esposto nel- le loro tecniche per la memorizzazione istantanea dei concetti; pur semplificando il procedimento possiamo dire che per fissa- re un concetto essi ne costruiscono un’immagine spesso me- taforica e sempre dalle tinte forti; una volta che concetto e im- magine sono stati dalla loro memoria legati a doppio nodo, si li- berano dell’immagine e, alla bisogna, il concetto riemergerà da sé. Così hanno sempre fatto i “grandi”, questa è l’unica soluzio- ne per giungere a una buona padronanza della propria memo- ria. Ma per quale strada si può giungere a ciò? Dato che gli au- tori classici hanno sempre insegnato l’arte della memoria par- tendo dai teatri “reali” per poi passare a quelli “immaginari” (ma forse più corretto sarebbe dire “immaginati”), per giunge- re infine a quelli completamente astratti (la memoria perfetta per le parole), credo che quella debba essere la strada da segui- re anche adesso.

Se penso alla “teoria del plusvalore” e alle contraddizioni che descrive non dovrò fare altro che porre nel primo luogo del mio teatro una scenetta dove sedute a un tavolo due persone grasse (meglio se si tratta di persone reali che conosco) e ben vestite mangiano, mentre cinque camerieri smunti e consunti porgono le pietanze e, più i primi mangiano e i secondi porgono, più au-

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motivamente connotato, spesso non si manifesta, al fine di soste- nere la struttura dei ricordi con un sistema logico razionale (an- che se di una razionalità non di stampo matematico ma di matri- ce immaginativa). Infatti, quando si è in preda a forti passioni, ben difficilmente si riesce a valutare le cose semplicemente per quello che sono: se il ragazzo si immaginasse la moto “razional- mente”, ne identificasse i particolari in sé, scissi cioè dalle sue fantasie, li vedrebbe per quello che effettivamente sono, pezzi di plastica e ferro verniciati. Meglio ancora però mantenere la cari- ca emotiva ma far sì che questa venga guidata nel memorizzare da criteri razionali di riflessione. Il pensiero umano, nella sua es- senza, non è linguaggio ma immaginazione o, per essere più pre- cisi, è linguaggio immaginativo, capacità rappresentativa; a livel- lo analitico l’immaginazione è produttiva e il linguaggio descritti- vo. Con l’immaginazione quindi possiamo gestire i nostri pensie- ri modificando e modellando a nostro uso e consumo le rappre- sentazioni che tali pensieri appunto significano.

Lavorare con la grandezza delle immagini non è poi cosa su- perficiale, infatti imparare a ricordarsi cose sempre più piccole è un ottimo sistema per riuscire a passare dalla memoria delle cose alla memoria per le parole. Il passaggio non è logico-dialettico ma intuitivo; infatti soltanto l’esercizio permette di immaginarsi la stessa cosa di dimensioni sempre più piccole fino a riuscire a fare a meno dell’immagine stessa e memorizzare direttamente la parola (il termine astratto). Di primo acchito è difficile trovare u- na ragione valida per procedere in questa maniera, inoltre di tale procedimento se ne intuiscono bene le difficoltà anche prima di intraprenderlo mentre le utilità restano nascoste. Che senso ha infatti rappresentarsi una mela, ad esempio, su un tavolo (esem- pio di luogo mnemonico), e di rappresentarsela in momenti di- versi di dimensioni sempre più piccole fino a arrivare a non per- cepirla più (percezione mnemonica, ovvero immaginativa) e ri- cordarsi direttamente la parola legata al luogo? Non è forse più semplice memorizzarsi direttamente la parola? La mia risposta è: certo che è più semplice e sbrigativo imparare a memoria di- rettamente la parola. La mia controreplica però arriva di conse- guenza: quante parole si possono memorizzare così? Lo scopo, devo ripetermi, non è la memorizzazione fine a sé stessa ma l’e- sercizio della memorizzazione. L’esercizio della figurazione del- le cose e della loro progressiva riduzione iconica, fino alla disso- luzione dell’immagine nel concetto astratto, non è qualcosa che abbia un senso al fine della banale memorizzazione della “mela”

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Si prospetta quindi una disposizione piramidale delle cono- scenze. Alla base l’uso di un teatro può essere senza dubbio un si- stema utile per “contenere” l’insieme delle nozioni da acquisire. Tutte le conoscenze che trovano posto nelle stanze (o tappe, o ciò che volete voi) del teatro devono poi ridursi nel numero a imma- gini con un chiaro significato metaforico. La quantità delle cose da memorizzare deve essere sempre proporzionale al numero dei luoghi del teatro. Le immagini devono sempre avere caratteri di- stintivi tali per cui si possa sempre comprendere la posizione della cosa e del concetto che si intende ad essa associare. Le caratteri- stiche della rappresentazione devono esser sempre tipiche dei collegamenti che si intende instaurare tra la cosa e il luogo in cui si trova e tra questo e gli altri luoghi del teatro. I mnemonisti di tutti i tempi sono portati a contrassegnare i luoghi dei teatri molto complessi inserendo con cadenza omogenea elementi specifici. Se abbiamo ad esempio un teatro con cento luoghi, volendolo per- correre più volte per memorizzare una serie molto lunga si sarà costretti ad associare ogni cosa dalla 100 alla 199 con un fiocco az- zurro, dalla 200 alla 299 con un fiocco rosa, dalla 300 alla 399 con un fiore di pesco e via dicendo. Questo può indubbiamente esser fatto, o in alternativa si può utilizzare qualsiasi altro sistema simi- lare che giunga alle medesime soluzioni. La domanda che un non mnemonista a questo punto potrebbe porre è se sia veramente necessario avere un teatro in grado di contenere mille e più ricor- di. Gli storici hanno sempre avanzato dubbi in tal senso e il buon senso, in questo caso, consiglia di dar loro ragione. Il metodo co- munque funziona, e questa è la rivincita dei mnemonisti; perso- nalmente lo trovo comunque abbastanza inutile perché proficua- mente aggirabile.

Un testo come La Critica, come Le meditazioni metafisiche o

La Metafisica di Aristotele e in genere tutti i trattati e le opere di

critica o i saggi hanno una loro evoluzione logica tale per cui al- l’interno di un capitolo le nozioni si susseguono tanto da un pun- to di vista logico quanto da uno cronologico. Ne consegue che si può benissimo far a meno di percorrere (mentalmente) dieci vol- te il teatro. Si può, banalmente, suddividere tutto il contenuto di un testo come La Critica della Ragion Pura in un numero di nu- clei tematici e/o cronologici a nostro piacimento e che sicura- mente saranno in numero sì elevato ma non spropositato.

A questo punto non si devono più memorizzare tutte le paro- le e tutti i concetti astratti ma soltanto un numero relativamente limitato di immagini metaforiche che rappresentino i nuclei te-

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mentano le pietanze sul tavolo (il plusvalore, il denaro che gene- ra altro denaro); mentre nel secondo luogo porrò un grasso com- mensale e uno smunto cameriere che giocano a scacchi con i pe- doni e la scacchiera come su esposto. Entrambi si tirano il pezzo metà nero e metà bianco (la contraddizione), ognuno verso di sé, e alla fine la contraddizione, il pezzo, resta sul tavolo. Questo ov- viamente è un esempio semplificato e, se volete, banale (ma se inscenato con personaggi reali e per me significativi, sicuramente efficace), d’altra parte per brevità non posso stare a commenta- re, tanto per fare un altro esempio, La Critica della Ragion Pura, ricostruendola tutta per immagini.

Con questo sistema è però possibile memorizzare anche la principale opera di Kant, e si tratterebbe di una memorizzazio- ne non meccanica ma metaforica, quindi una memorizzazione che implicherebbe necessariamente un alto grado di compren- sione del libro. Una mente allenata può costruire immagini e a- zioni (imagines agentes) con estrema velocità tanto che, in defi- nitiva, leggere un saggio e contemporaneamente crearsi imma- gini mnemoniche dei suoi concetti alla fine non rappresenta un rallentamento esagerato. Semplicemente, invece di metterci una settimana a leggermi un saggio ne impiegherò due, poi però me lo ricorderò per sempre. Al saggio successivo impiegherò una settimana e mezzo invece di due e così via. Se avessi memorizza- to tutta La Critica, concetto per concetto, seguendo il filo logico del libro, avrei sicuramente un teatro molto grande e affollato di immagini metaforiche. Questo è quanto consigliato da antichi e moderni mnemonisti che forniscono le direttive per imparare i libri a memoria. Vorrei però suggerire una variante a quanto es- si normalmente propongono: la memorizzazione di un libro co- me la Critica kantiana, dopo un primo livello di memorizzazione “didascalica” fondata sull’ordine dei capitoli e dei paragrafi, de- ve “elevarsi” a ricostruzione “logicamente” metaforica. Ciò non è banale e implica una comprensione profonda del testo. Men- tre la memorizzazione didascalica può poggiarsi anche su un