o un gesto o, comunque, una dislocazione del nostro punto di vi- sta, tale per cui il corpo non vada nella direzione opposta a quel- la verso cui si volge la mente. Per fare un esempio, prendendo a ispirazione la nostra giovane sconosciuta studentessa, se invece di girare intorno alla vasca avesse fatto il giro della piazza, la co- sa sarebbe già stata molto differente in quanto piazza D’Azeglio (sebbene sia una piazza dalla pianta quadrangolare con un giar- dino abbastanza uniforme) presenta elementi di discontinuità che potevano esserle d’aiuto. Innanzi tutto la piazza non è nel deserto ma confina da una parte con Via della Colonna, dall’al- tra con Via Alfieri, i quattro angoli rappresentano anche incroci con altre strade e quindi sono differenti o, ad esser più analitici, presentano profonde differenze nell’omogeneità di essere tutti incroci (anche questo è un aspetto che analizzeremo in futuro: la differenza nell’uguaglianza, l’asincronia nella contemporaneità ecc., ovvero tutto ciò che di diverso vi è in un insieme di cose “u- guali”). Nella parte lato “Sant’Ambrogio” un’aiuola è stata so- stituita da un parco giochi per bambini, a metà della piazza lato Via della Mattonaia c’è una fontana, i lampioni hanno una di- sposizione abbastanza logica pur permettendo la costituzione di luoghi differenti gli uni dagli altri ecc. Tutti elementi questi che presentano una discontinuità all’interno di un percorso raziona- le quale è quello di una piazza quadrangolare di stile neoclassi- co. Inoltre la piazza è grande, costeggiata ai quattro lati da alti palazzi che consentono una non esagerata illuminazione, ma an- che abbastanza lontani (infatti la piazza è delimitata sui quattro lati da strade transitabili, ma che però non sono altamente tran- sitate da veicoli a motore) da consentire comunque una giusta il- luminazione naturale. Insomma fare il giro di Piazza D’Azeglio può rappresentare un buon punto di partenza per crearsi un tea- tro della memoria; ed è questo il motivo per cui mi sono un po’ dilungato nel descrivere una piazza, descrizione che non interes- serà certo nessuno, ma il punto è un altro: si deve sempre saper osservare l’ambiente in cui si pensano le cose. È fondamentale saperlo.
Poniamo attenzione prima all’ambiente in cui si pensa che a ciò a cui si pensa. Ciò ovviamente non significa dare maggior im- portanza al “dove” rispetto al “cosa” si pensa; significa conside- rare con attenzione prima il luogo in cui si pensa per poi ricorda- re meglio ciò a cui si pensa. Invece la maggior parte di noi cerca di memorizzare facendo sempre astrazione dal luogo in cui è e dalla situazione in cui si trova, si fa sempre il contrario di ciò che
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L’associazionismo inconscio, la vera forza trainante della memo- ria, era quindi tra idee diverse con un solo e identico movimento; il corpo opponeva così una resistenza alla tendenza del pensiero a dividere i concetti e quindi a ricordarli. Laddove lo sforzo lin- guistico mirava a memorizzare una pluralità di concetti diversi, il “comportamento cinetico” tendeva a omogeneizzare l’ambiente in cui tali diversità linguistiche prendevano forma. Quella ragaz- za con le parole e con la ripetizione si sforzava di ricordare cose diverse mentre il suo corpo tendeva ad annullare le differenze. Col gesso del linguaggio scriveva sulla lavagna della sua mente dei concetti che subito dopo cancellava, almeno in parte, con la spugna del movimento ripetitivo. Per lei sarebbe stato sicura- mente di maggior aiuto star ferma che non girare in tondo anche perché, sempre in relazione al rapporto diretto pensiero-movi- mento, se gira in tondo col corpo, finisce poi per girare in tondo anche con le parole e fare come quelle persone che parlano, par- lano ma poi non arrivano mai al punto, si soffermano sul contor- no e non descrivono mai il quadro, spesso anzi non si capisce neppure di quale quadro stiano parlando.
Se facciamo “mente locale” (nel suo senso originario di “con- centrare la mente su un luogo”) considereremo che in realtà la memoria è, almeno in buona parte, il mantenere le differenze. Se chiedo a una persona di descrivermi un quadro, questa persona avrà tanta più memoria quanti più particolari riuscirà a riferire. All’inizio della rappresentazione mnemonica l’oggetto del ricor- do si presenta come una “cosa” informe e incolore, più tratti riu- sciamo a ricordare più differenze stabiliamo. Se del quadro del nostro ricordo rammentiamo soltanto che era un quadro non di- stingueremo granché, se invece ci ricordiamo che rappresentava il mare già iniziamo la nostra opera di distinzione. Se a ciò ag- giungiamo che raffigurava il mare visto dalla riva e che si vedeva anche la scogliera, aumentiamo le differenze e il quadro nella no- stra memoria inizia a prendere forma. Quindi più riusciamo a di- stinguere, più la nostra memoria è forte; se ci ricordiamo che il mare era verde-blu e il cielo era grigio distinguiamo ancor più e, più distinguiamo (o siamo in grado di distinguere) più ricordia- mo. La memoria è quindi strettamente correlata alla capacità di analisi delle differenze a livello dell’immaginazione.
La capacità descrittiva dell’individuo è il primo e più impor- tante metro di giudizio della sua immaginazione e della sua me- moria. Possiamo quindi migliorare la nostra capacità di distin- guere collegando a ogni ricordo una posizione del nostro corpo,
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Bologna, vi è una contiguità tra Firenze, Bologna, Venezia e tut- te le stazioni intermedie stabilite dall’esperienza (oltre che dai binari delle ferrovie dello stato che comunque sono sempre parte della mia esperienza) e che non posso modificare in altro modo che facendo astrazione. Perché allora quando ci poniamo volon- tariamente a studiare o a memorizzare facciamo l’esatto contra- rio? Ci “costringiamo” nello stesso posto e ci concentriamo non solo e non tanto sulle cose da imparare quanto sulle loro astra- zioni, sulle astrazioni che noi, incapaci ad astrarre correttamente così come a correttamente memorizzare, costruiamo in maniera coatta e avulsa da qualsiasi legame “effettivo” con le cose che vo- gliamo imparare. Da una prospettiva fenomenologica la risposta è piuttosto complessa.
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ci insegna la natura. I ricordi più importanti, quelli più vivi della nostra vita infatti sono sempre legati a luoghi e situazioni specifi- che e particolari. Concentrarsi sulla memorizzazione facendo a- strazione dal luogo in cui ci si trova è pratica universalmente dif- fusa fra gli studenti che studiano sempre nello stesso posto e allo stesso modo: si mettono sempre sulla stessa sedia in classe e allo stesso tavolo in biblioteca. Il più deleterio effetto di questo erro- neo modo di memorizzare non è tanto nella maggiore difficoltà nel ricordare e dell’imparare quanto nel costringere, nel legare l’immaginazione a quella sedia e a quel tavolo. Il mnemonista e lo studioso esperto possono studiare da fermi, i giovani si fanno soltanto del male a costringersi all’immobilità.
Il ricordo passa per l’immaginazione e questa ha bisogno di movimento per esprimere sé stessa. Una rappresentazione stati- ca è già un’astrazione rispetto a un’immagine in movimento. Il movimento, ed è ciò su cui qui vogliamo porre l’attenzione, altro non è che una serie di rappresentazioni in sequenza in cui l’im- magine che segue è uguale alla precedente in tutto, meno che per un elemento che appunto “si sposta”. La differenza con il para- dosso della freccia di Zenone è appunto che nelle mnemotecni- che l’elemento paradossale è rimosso dall’associazionismo delle immagini. Il problema infatti non è come faccia a spostarsi la freccia se in ogni momento si trova nel posto in cui si trova, infat- ti l’associazionismo pone proprio ciò che il paradosso intende ne- gare. La metafora banale è quella della sequenza di fotogrammi di una pellicola cinematografica ma, pur essendo un esempio e- satto dal punto di vista logico, risulta essere una metafora for- viante in questa fase della nostra esposizione in quanto il model- lo che di primo acchito suggerisce è a sua volta una forzatura. Si tratta di una forzatura per il semplice fatto che non abbiamo del nostro ambiente e delle nostre vicissitudini un’esperienza “per fotogrammi”, fotogrammi che in sé hanno anche “l’astrazione” dell’immobilità; ogni fotogramma a sé stante è infatti “fermo” come la freccia di Zenone. È invece proprio della nostra espe- rienza trovarci prima in un posto e poi in un altro, fare delle cose in un posto e poi farne altre in un altro; è sempre relativo alla normalità che tra il posto in cui siamo prima e quello in cui siamo poi vi sia un legame, una continuità.
L’esperienza di tutti i giorni ci insegna che facciamo cose di- verse in luoghi diversi e, tanto queste quanto quelli, sono legati fra loro almeno da una qualche forma di contiguità: ad esempio per andare con il treno da Firenze a Venezia devo passare per
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nuova definizione di inconscio1, comprendere questo è fondamen-
tale per porsi nella corretta disposizione verso la ristrutturazione mnemonica. Gettare un pensiero nell’inconscio, da questo punto di vista, non significa rimuoverlo, negarlo, perderlo e ristrutturarlo ad altro livello. Il pensiero “sprofondato” nell’inconscio è una fissa- zione, non una rimozione; il ricordo, il pensiero, l’immagine resta- no là dove sono sempre stati e ciò che chiamiamo rielaborazione inconscia, spesso, altro non è che l’effetto di una negazione che è invece ben conscia, così conscia che permette di coprire tutto ciò che nega. Troppo spesso si finisce per definire inconscio soltanto ciò che non si vuol vedere, ovvero ciò che piomba di rigetto nel co- siddetto inconscio. Se l’attenzione si concentra su una cosa a disca- pito di qualcosa che si “trova da un’altra parte” non significa che il contenuto venga rimosso ma semplicemente che viene cosciente- mente ignorato. Insomma siamo di fronte a una scelta e per giunta ben consapevole, anche se si è consapevoli soprattutto del contra- rio di ciò che veramente pensiamo e proviamo e – quindi – per una balorda razionalizzazione, non si può pensare la negazione della negazione di ciò che non vogliamo pensare, quel che vogliamo ne- gare lo si rifiuta attraverso l’affermazione della sua negazione; è ovvio che poi, a quel punto, non si possa più affermare, porre atten- zione, alla negazione di ciò che vogliamo affermare ma, quel che vogliamo affermare, lo intendiamo sostenere proprio per negare il suo opposto, che è ciò di cui non vogliamo esser consapevoli.
La cosiddetta “rimozione” allora altro non è che la fissazione su qualcos’altro, il porre l’attenzione su contenuti opposti o quan- to meno diversi rispetto a ciò a cui non si vuol pensare. Questo “qualcos’altro” ovviamente deve essere diverso ma anche esclu- dente di principio il rimosso, infatti non è sufficiente pensare a qualcosa di diverso se, quest’ultima cosa, ha o può avere legami psico-affettivi in grado di richiamare il pensiero che si vuol nega- re. Ciò ovviamente non significa che a livello soggettivo, la perso- na sia consapevole della propria negazione, il che ovviamente sa- rebbe contraddittorio: infatti, se fosse una negazione in cui resta
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1 1 . M e m o r i a , i n c o n s c i o e f i s s a z i o n e
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I l c e r c h i o d e l l e i l l u s i o n i
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al punto di vista delle mnemotecniche il problema, ovveroperché assumiamo spesso atteggiamenti e abiti cognitivi sba- gliati in relazione all’apprendimento, può benissimo venir sor- volato; dato per scontato che partiamo sempre da abitudini sba- gliate ci si concentra subito su come migliorare le naturali proce- dure d’astrazione che, in questo caso, significano semplicemente che si devono migliorare le strategie di acquisizione delle cono- scenze.
Innanzi tutto la memoria – pur essendo favorita, facilitata e sollecitata dal movimento – pone i ricordi nella staticità e in una staticità spesso vicino all’assoluto. Quanto più i ricordi sono sta- tici tanto più hanno elementi patologici (il che non significa au- tomaticamente né, di conseguenza, che essi siano patologici in toto). Col tempo le nostre rievocazioni si irrigidiscono, si cristal- lizzano e vengono, per così dire, avulse dal loro contesto origi- nario. Ci rammentiamo di particolari cose ed eventi passati ma spesso non ricordiamo cose e fatti che li precedevano e seguiva- no: ecco, questo è l’inizio della staticità e fissità del ricordo. Ov- viamente se già “d’impostazione” si considera il ricordo e la me- morizzazione come qualcosa di statico si faciliterà tanto l’oblio quanto la patologia del ricordo. Infatti se un contenuto o ele- mento di memoria tende alla stasi ha generalmente due “sorti” possibili, opposte nelle forme ma spesso identiche negli esiti: o si perde o si fissa.
La perdita è, spesso, una forma di fissità in quanto si cristallizza la negazione del ricordo. Tanta parte del così detto “inconscio” al- tro non è che il fissarsi di una negazione. In quel caso la stasi non ri- guarda il ricordo, la rappresentazione e l’immagine in quanto tale, ma la sua negazione. Non è un gioco di parole tanto per dare una