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1Le tesi che seguono possono benissimo coesistere con le teorie psicanalitiche

dell’inconscio; quest’ultime infatti non vengono qui minimamente rifiutate sem- plicemente perché non sono affrontate ma, anche se lo fossero, ugualmente non se ne troverebbero ragioni per ripudiarle (e neppure per accettarle), in quanto la nostra argomentazione si pone su un piano teoretico diverso da quello della psi- canalisi. Semplificando: la nostra discussione parte dal piano logico delle immagi- ni, delle rappresentazioni e soltanto in maniera derivata si occupa delle dinami- che relazionali ed emotive, discorso in parte inverso invece per la psicanalisi.

ne. È sempre a livello delle rappresentazioni che gli eventuali “e- lementi altri” si combattono, entrano in tensione, manifestano le loro contraddizioni, nascono, si sviluppano e muoiono. È a livello rappresentativo che la coscienza prende forma, sia che il suo im- pulso vitale venga da “sotto” (la fisiologia e la biochimica) sia che venga da “sopra” (l’anima, la ragione, la volontà ecc.).

A volte la fissità non è così palese; il soggetto fissato tiene la propria idea dominante nascosta. Questi casi sono particolarmen- te coriacei e difficili da scoprire, ma nascondono sempre anche u- na fragilità che è loro peculiare. A volte la fissità non assume i ca- ratteri dell’evidenza e si manifesta come il sottofondo della vita del soggetto, come la colonna sonora dell’esistenza dell’individuo il quale, interiorizzando determinati contenuti di pensiero, in ba- se ad essi organizza la propria prospettiva e le proprie azioni.

Altre volte il problema è ancora più profondo: l’idea domi- nante non si manifesta mai direttamente nella coscienza del sog- getto, viene sempre sostituita dal un surrogato che la nega o la e- lude con maestria. L’inconscio infatti, come abbiamo già detto, spesso altro non è che la negazione coatta di un contenuto di co- scienza, è il negato quindi a diventare inconscio e a costituire ap- punto la ragion d’essere del contenuto consapevole. L’ente in questi casi può risolvere la propria contraddizione soltanto par- tendo dal riconoscimento della propria contraddizione, dall’i- dentificazione dell’idea negata, del contenuto rimosso, del con- cetto mai considerato. Ciò ovviamente non basta e, a differenza di ciò che ritiene l’ortodossia scientifica, può rappresentare un punto di tracollo. Infatti in tali frangenti l’idea si fissa, in quanto bloccata nella sua rimozione, diventando palese; diventando consapevole, può prendere varie strade “patologiche”: può fis- sarsi definitivamente, può provocare altre e peggiori forme di ne- gazione, può determinare derive del comportamento assoluta- mente non controllabili in quanto la contraddizione dell’ente ge- neralmente trova soluzione soltanto in due situazioni, o nella dis- soluzione (quindi dissoluzione dell’ente che nel caso della co- scienza significa la sua morte, la sua definitiva dissoluzione) o nella sublimazione in altra e ancor più rigida contrapposizione.

È possibile in verità una terza via, quella della così detta guari- gione che fino ad ora è stata considerata quella della consapevo- lezza della contraddizione e della sua dissoluzione tramite la “contestualizzazione”, tramite la “manifestazione”, il render pa- lese il problema come primo passo nel risolverlo. Tale punto di vi- sta, condiviso (nei suoi tratti essenziali e con tutte le eccezioni, i

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presente ciò che si nega, di fatto non lo si sarebbe negato del tut- to. Per negare una cosa definitivamente la si deve rimuovere com- pletamente dalla memoria. Ciò che è consapevole è l’atto della negazione nel senso che si manifesta consapevolmente attraverso la non consapevolezza, l’assoluta non consapevolezza del rimosso e, per il verso opposto, l’affermazione di un pensiero che “sosti- tuisce” all’interno della dimensione consapevole dell’individuo ciò che è stato rimosso. Ciò che si definisce spesso inconscio an- drebbe riclassificato come ignorato; ciò che così chiameremo “i- gnorato” andrebbe poi ridefinito come “considerato per negazio- ne” o “non considerato per affermazione del suo opposto”.

Il movimento stesso può essere una forma di fissazione se ha i caratteri tipici della ripetitività coatta e scissa dalla realtà. Se la realtà richiede un movimento procedurale, ad esempio il movi- mento ripetitivo del cassiere al supermercato che deve far passa- re la merce davanti al lettore del codice a barre, il movimento non ha i caratteri della fissità in quanto è la “realtà” (il lavoro del cassiere) a richiedere tale rigidità. Semmai possiamo dire che ta- le ripetitività necessitata può indurre, in determinate circostan- ze, il soggetto a bloccare pensieri o comportamenti che, comun- que, tendevano già di per sé in lui a fissarsi. Il movimento ripeti- tivo e rituale ispirato dall’ansia e dalle paure invece è un tipico movimento per fissità. La fissità è una mistificazione del vissuto, il ricordo dovrebbe seguire il movimento degli eventi, siano essi di rappresentatività esterna (la cosiddetta dimensione fisica ma che in quei termini probabilmente non esiste, trattandosi sempre della nostra fantasia, della nostra capacità di rappresentarsi im- magini) così come di rappresentatività interna, “pensieri pensati come pensieri” e non come percezioni o ricordi di percezioni. Anche la fissità ha un elemento di negazione, che è appunto ne- gazione del movimento, dato che l’immaginazione per essere e- quilibrata ed equilibrare la coscienza dovrebbe bilanciare con gli elementi che permangono altri che mutano; la fissità blocca gli u- ni deformandoli e gli altri negandoli.

Il movimento e la fissità quindi pur essendo caratteri del ricor- do sembrano avere la loro origine “a monte” dell’immagine, in un atto volitivo che sta dietro all’elemento rappresentativo e, per co- sì dire, né determina il colore, la vivacità, l’intensità e fin anche la natura. Non è qui il luogo per decretare se tale livello superiore all’immagine esista, se sia esso il dominio della volontà ecc., fatto sta che anche se esistesse un “livello superiore”, un “elemento terzo”, il gioco si determina sempre sul piano dell’immaginazio-

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tratti in comune tra il mnemonista e lo psicotico. Mentre la psico- si fissa “naturalmente” o, meglio, necessariamente un’idea nella mente, la mnemotecnica deve poterla fissare. Per contro la fissa- zione determina la coscienza dello psicotico così come la mnemo- tecnica dovrebbe poter fissare i rapporti tra le rappresentazioni dei concetti da ricordare nel mnemonista. Mentre l’angoscia ge- stisce lo psicotico, la mnemotecnica orienta l’ansia del mnemoni- sta verso la catena dei pensieri da ritenere. Deve venir capovolto l’ordine dei fattori per poter modificare il risultato, e l’ordine dei fattori è un ordine gerarchico. Deve essere lo schema – e la possi- bilità della volontà di poterlo “disegnare” e, appunto, strutturare – a determinare la natura e la fenomenologia delle fantasie, delle immagini. Nello psicotico è la fissazione della fantasia a irrigidire la volontà e gli stati di coscienza; nelle mnemotecniche è la fissa- zione dello schema mnemonico (il teatro) a determinare le fanta- sie e la loro fenomenologia.

La mnemotecnica deve seguire lo stesso schema della psicosi ma sostituire lo schema del ricordo consapevole a quello del mec- canismo psicotico inconsapevole o non volontariamente gestibile. L’esempio della ragazza intorno alla fontana è quindi paradigma- tico, logicamente il suo comportamento e lo schema mentale che lo suggeriva in poco si differenziano dagli schemi mentali dello psicotico o delle schizofrenico. Per ricordare si deve fare l’esatto contrario, pur rispecchiando alcune dinamiche e sfruttando certi metodi propri delle patologie psichiatriche. Le immagini hanno sempre un significato che là dove non venga astratto in un concet- to coincide in buona parte con i limiti del rappresentato. La rap- presentazione percettiva non ha gli stessi limiti della percezione rappresentativa, ovvero rappresentazione del percepito e perce- zione di ciò che viene rappresentato non coincidono.

La nostra giovane studentessa quindi, pur senza applicare scientemente nessuna mnemotecnica, avrebbe senz’altro avuto grande beneficio dal fare il giro della piazza invece che della va- sca. Infatti la memoria funziona di per sé come “tecnica” e/o ar- te, per cui non c’è bisogno di forzare o di creare artificialmente legami tra le cose per ricordare. L’artificio va fatto ad arte per non diventare patologico. La forzatura, se nasce dalla coscienza, per fissità di emozioni o di esperienze, porta alla patologia e dan- neggia la memoria; se invece è voluta dal soggetto che, appunto, si impegna per ricordare con sforzo, è destinata a non produrre effetti duraturi o, comunque, non direttamente proporzionali al- l’impegno profuso.

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distinguo del caso) tanto dalla psicanalisi quanto dalla psicologia scientifica e dalla psichiatria ufficiale (e non potrebbe essere altri- menti, pena la dissoluzione di tali discipline come scienze e, forse, anche come forme di conoscenza tout court), è una puerile illusio- ne. Riguardo alla psiche si dovrebbe parlare di malattia sempre e soltanto per denominazione estrinseca, ovvero non è malata in sé ma sempre in riferimento a un nostro presupposto e ideologico modello di riferimento di salute mentale. Questo, detto per inci- so, non è una breccia aperta in favore dell’antipsichiatria e di tut- te quelle forme di rigetto della scienza della psiche che, anzi, ne- gandone per antitesi i contenuti ne accettano e rilanciano i pre- supposti, trovando nel loro opposto l’unica ragion d’essere.

La coscienza infatti diventa consapevole soltanto di ciò di cui è cosciente almeno in possibilità; passando dalla potenza all’atto una conoscenza rende, a sua volta, possibili altre conoscenze che prima non erano neppure ipotizzabili. Una banalità forse ma, se non adeguatamente riflessa, conduce a negare nelle conseguenze non considerate alcune premesse di ogni teoria che così risulta costruita a tavolino. Quando la coscienza diventa consapevole di qualche contraddizione che la attanaglia ciò significa che la con- traddizione originaria che la rende possibile, che la fa essere per l’appunto coscienza, si è “sublimata” in un’altra rappresentazio- ne o per fissazione o per fissazione della sua negazione. Ovvero, si è ipostatizzata altrove. Nel disturbato la consapevolezza della propria contraddizione provoca, il più delle volte, la totale alie- nazione. Quella che le scienze della mente, la psichiatria, la far- macologia, la psicanalisi, la psicologia scientifica ecc. chiamano guarigione il più delle volte non è che una tregua poggiante sulla forza dell’oblio. Le scienze quindi non risolvono mai la battaglia ma, al più, possono determinare migliori condizioni di tregua. La guarigione totale è la dissoluzione dell’ente (la “persona”) e del- la contraddizione che lo ha generato; la guarigione senza la mor- te (ovvero, in termini cognitivi, l’assenza eterna della rappresen- tazione e del ricordo) è sempre qualcosa di provvisorio, una for- ma di equilibrio precario che è più o meno pericolante in base a determinate condizioni, la maggior parte delle quali contingenti e che, comunque, risultano essere più o meno efficaci in conside- razione di quanto è stridente la contraddizione che ha originato “la maschera”. I disturbati mentali infatti sono proprio espres- sione degli enti che sono stati originati dalle contraddizioni più stridenti, quelle più difficilmente conciliabili.

Ora, per quel che ci riguarda, si deve rilevare che vi sono molti 110

non so più dire se quegli alberi ci siano ancora. Il teatro del bosco e dei suoi alberi rafforzavano il ricordo dei filosofi e delle loro teorizzazioni, quest’ultime rafforzavano nella mia mente le im- magini di quelle piante.

In realtà quei boschi, in cui avevo passato tutte le estati della mia infanzia, rappresentavano dei teatri della memoria naturali per me e pur non avendo da piccolo fatto nessuno sforzo di me- morizzazione li rammento alla perfezione perfino nei particolari. Là andavo a giocare con i miei cugini ma, più spesso, da solo; là si è formata la mia fantasia, là ha preso forma la mia natura, là gio- cando e fantasticando ho passato i momenti più significativi, il che non vuol dire i più belli, della mia vita. Tutti, almeno spero, abbiamo esperienze di questo genere, magari non sarà la campa- gna come nel mio caso, sarà un cortile, un parco, l’oratorio, i giardini del quartiere ecc.

Tutti abbiamo i nostri teatri della memoria infantili che, là do- ve possibile, andrebbero recuperati con l’immaginazione e riela- borati con la tecnica e la ragione. Sopra la casa dei miei parenti c’e- ra un piccolo campo coltivato a peschi e susini, questo spazio con- finava con un piccolo ruscello (quasi sempre in secca d’estate) e al di là di esso le pendici di monte Giovi. All’estremo opposto della casa il campo finiva in un’altra piccola ansa a prato. Quei boschi li conoscevo benissimo perché fin da piccolo erano stati i luoghi in cui facevo i miei giochi, giochi molto più di fantasia che di giocat- toli, sebbene i miei genitori di giocattoli me ne avessero regalati, a- vevo quindi la possibilità della scelta. Forse risulta difficile da cre- dere, però non ho molta memoria per i giochi che facevo a casa mia, in città, con i giocattoli, mentre ricordo benissimo i giochi e le fantasie di bambino in quel posto fra i boschi (sembrerà impossibi- le ma ricordo anche che gelati vi ho mangiato), era quindi ovvio che da universitario, quando ne avevo la possibilità, andassi a stu- diare là. Gli alberi hanno una loro anima, è certo superfluo che mi dilunghi sul significato magico che attribuiscono loro tutte le cultu- re ma, anche ammettendo che siano tutte concordi nell’errore, de- ve pur esserci qualcosa negli alberi che “anima” la nostra immagi- nazione, che rivitalizza il nostro pensiero. Certo, concezioni animi- stiche, ma anche i tanti e importanti riferimenti delle religioni mo- noteiste agli alberi possono venir considerate soltanto delle puerili superstizioni; ma anche se di errore si tratta è e resta un errore da tutti condiviso, quindi al suo interno deve contenere, implicare o richiamare una qualche “verità universal eterna”. Solo chi è stato per lunghi periodi nei boschi può capirmi.

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1 2 . L a s c i m m i a t o r n a s u l l ’ a l b e r o

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I l c e r c h i o d e l l e i l l u s i o n i

C

hi pensa alle mnemotecniche come al meccanico collegamen-

to di idee, finisce per complicarsi la vita senza migliorarsi la memoria. Ovviamente, chi scrive in questo errore c’è caduto tan- te volte e non crede di esserne ancora del tutto immune.

Il primo esame di storia della filosofia che detti all’università prevedeva lo studio sui manuali di filosofia dei principali autori, dal Rinascimento ai neopositivisti. Abitando in campagna e an- dando spesso a studiare a casa di miei parenti che erano contadi- ni e avevano anche un bosco in cui fin da piccolo passavo molti dei miei giorni estivi, presi a studiare ogni filosofo sopra, o sotto, un albero. Gli autori che trovavo più difficili me li sono studiati tutti sopra delle grandi querce. Il fatto di durar fatica a salirci so- pra, di stare a sedere in posizione niente affatto comoda a diversi metri da terra, ma anche l’opportunità di poter vedere un pae- saggio molto bello, di sentire i rumori del bosco ecc., insomma il tutto a suo modo rappresentava uno stimolo alla memorizzazio-

ne1e, a distanza di venti anni, ricordo ancora su quale quercia ho

studiato Hegel, su quale Kant, sotto a quale faggio ho studiato Cartesio, la roverella di Heidegger ecc.; ricordo tutto, anche se

Capitolo 12