e, in buona sostanza, su quelli fonda la comprensione di ciò che ha letto e/o scritto. In alcune materie ciò può essere di aiuto, a volte può risultare persino indispensabile procedere nei ragiona- menti, nelle spiegazioni, nelle esposizioni e nella scrittura (e/o lettura in genere) in questo modo. Ma risulta sempre un modo parziale di leggere e, per conseguenza, di pensare. Se in alcuni casi essere rigidi nelle associazioni di idee può manifestare rigore e precisione, in altri, molti altri, significa sicuramente ottusità. Va da sé, come già specificato, che queste affermazioni in nessun modo possono venir interpretate come una difesa del pensiero o- scuro e confuso che spesso tanti autori intendono far passare per “profondo”. Le mnemotecniche spesso finiscono per assomiglia- re a questa seconda forma di pensiero anche se dovrebbero cer- care di uniformarsi il più possibile all’altra.
La mente “diagrammatica” compie un’altra semplificazione, anch’essa fonte di tante “pozze” ideologiche. Pensando per com- patimenti stagni ritiene che ogni concetto, o insieme di concetti (argomentazioni, tesi ecc.) siano riferibili ad altri “gruppi di pen- sieri” soltanto tramite collegamenti esterni che proprio come i vettori nei diagrammi legano una finestra a un’altra. Ciò che spesso sfugge a una mente così rigida è che i concetti, le argo- mentazioni ecc. non di rado si compenetrano; un pensiero quindi non è semplicemente collegabile a un altro ma deve con esso fon- dersi in qualcosa di nuovo che non può venir ridotto alla somma (e quindi la ripetizione) dei due ma è qualcosa di strutturalmente diverso.
Ora, le tecniche per la memoria tendono a rafforzare un tipo di mentalità “diagrammatica” mentre un’arte della memoria de- ve cercare di “forzare” la tendenza diagrammatica a favore di u- na mentalità giuridica. Anche la mentalità giuridica come quella “a scaffale” classifica i pensieri ma ne mantiene la dinamicità del- lo schema di riferimento, cosa che invece la mentalità “diagram- matica” non fa. La mentalità “giuridica” rende possibile la crea- zione e l’uso di schemi dinamici nel pensare e, quindi, nel ricor- dare; la “mentalità a diagramma” che procede per compartimen- ti stagni, pur potendo costruire grandi schemi, li rende sempre statici. È il modo di ragionare tipico degli ottusi e di quei filosofi analitici che fanno il paio con gli ermeneuti: incapaci entrambe le categorie di portare vigore e novità nel pensiero, spacciando gli uni una rigidità di ragionamento per sobrietà e precisione, gli al- tri nascondendo nella fumosità di discorsi vuoti e altisonanti la mancanza di ogni reale pensiero filosofico. I più odiosi però sono
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concetto che di per sé, evidentemente, non è facilmente com- prensibile. Nel primo caso si vuol comprendere la metafora, nel secondo il concetto. Detto così risulta – spero – chiaro, ma se ci fossimo fermati alle prime righe di questo paragrafo (che comun- que contenevano in sé già tutto quello che ne è seguito) quanti fra noi le avrebbero condivise? Or bene, tutto questo un “letto- re” superficiale non lo comprenderà perché, non avendo suffi- ciente capacità nella distinzione immaginativa, considererà tutto alla stessa maniera e si stancherà ritenendo ricorrente ciò che non lo è e non volendo vedere ciò che invece ripetitivo è: la sua incapacità a descrivere che riporta il diverso all’uguale, omoge- neizzando una alterità che gli indicherebbe, se lo capisse, ap- profondimento e comprensione.
La “mentalità a scaffale” trova quindi difficoltà a intendere in modi diversi una stessa metafora, così come ad attribuire a prin- cipi diversi gli stessi esempi o a riferire esempi diversi agli stessi principi. La “mente giuridica” invece si muove dal “generale a- stratto” al “particolare concreto” definendo il secondo alla luce del primo e non facendolo derivare per precipitazione chimica. La mente giuridica considera inoltre che il principio generale po- trebbe venir applicato al caso particolare in maniera diversa da come intende lei e quindi sente il bisogno di definire esplicita- mente la sua interpretazione. In questo caso non si ha una ripeti- zione del generale, come ritiene il lettore disattento, ma la presa di coscienza che sono possibili più interpretazioni del particolare alla luce del generale e che quindi l’interpretazione che si ritiene esatta vada espressa. Ciò, per un altro, verso implica una ridefini- zione del generale alla luce dell’interpretazione che nel partico- lare se ne dà. La mentalità giuridica non pensa soltanto dal punto di vista di chi la giustizia la deve amministrare, dalla parte del giudice, ma tiene conto anche della prospettiva del pubblico mi- nistero e della difesa di parte. Insomma la mentalità giuridica prende in considerazione tutte le interpretazioni del fatto, anche e soprattutto quelle diverse dalla sua e, prima che vengano e- spresse, cerca di anticiparne le critiche. La “mente analitica”, ba- nalmente analitica (ma questo “banale” comprende la quasi to- talità di chi si vuol far scienziato della mente), dissocia il fatto, la teoria, e la considera sempre avulsa dal resto che, bontà sua, re- sta sempre lì, non si smuove di un passo.
Per contro la “mentalità a scaffale” (a diagramma) è portata a pensare per scatole chiuse, a compartimenti stagni. Spesso iden- tifica in un ragionamento due o tre elementi, di quelli si ricorda
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volta soltanto in sé. Poca differenza fa che egli riesca a instaurare un numero elevato di collegamenti tra l’una e l’altra, difficilmen- te riuscirà a comprendere quanto nell’una ci sia dell’altra. Crea legami tra le componenti interne della “cosa” oppure tra cose “diverse”, mai arriva però a definire una logica e una poetica dei legami interni alla cosa con i legami “esterni”, tra le cose: scinde l’universo dei nessi logici e creativi, considerando l’oggetto o sol- tanto in sé o soltanto per sé, mai in sé e per sé. Vede a senso uni- co e, così facendo, non nota la maggior parte di ciò che invece an- drebbe considerato. È difficile parlare con un cieco dell’arcoba- leno se questi è convinto di vederci bene. La mentalità classifica- toria si limita a considerare la cosa solo da un punto di vista: o in sé presa oppure in relazione alle altre, mai arriverà a costruire un’analitica complessa dei nessi interni con le relazioni esterne e una dialettica di quelle con questi. La “cosa”, una volta definita, risulterà sempre antitetica “all’altra”. Egli non riuscirà a far com- penetrare l’una nell’altra pur mantenendo le specificità di en- trambe. Ora, le mnemotecniche spesso compiono questo errore: pensando le cose per luoghi e collegando un luogo agli altri, il ri- schio di cadere in questo tipo di errore è grande. Fortunatamente la fantasia corre in aiuto del mnemonista (e purtroppo non sem- pre accade la stessa cosa al critico); è l’immaginazione (che può venir sviluppata con le mnemotecniche) a soccorrere l’intelletto, la razionalità della riflessione. Ora, un’arte della memoria “com- piuta”, pienamente realizzata, deve riportare tutto ciò a livello della riflessione razionale. È ovvio che si debba passare sempre e comunque per la strada dell’immaginazione ma il fine deve sem- pre restare una sempre più pura (per quanto possibile) intelle- zione. Pensare e ricordare tramite mappe concettuali, tramite diagrammi e “scaffali concettuali”, a compartimenti stagni, può quindi andar anche bene, poi però si deve argomentare, esporre in maniera elegante, complessa e compiuta. La questione però non può ancora ridursi a questo; la discrezionalità del pensiero tramite la rievocazione del ricordo, meglio – ma non necessaria- mente – con una bella descrizione, deve creare sempre nuovi ele- menti, proporre collegamenti alternativi, approfondire questioni che il semplice e meccanico giustapporre i concetti gli uni agli al- tri non dà.
La mentalità a scaffale, diagrammatica, tende a costruire schemi statici, rigidi e a piegare la realtà a quelli. La mentalità giuridica dovrebbe invece costruire uno schema dinamico in ma- niera tale che vi sia una omogeneità di mutamenti tra schema e
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e resteranno sempre gli “analitici” che costruiscono sistemi a- stratti, accomodati a tavolino e che poi vogliono farceli passare per “analisi” razionali: si spacciano per antimetafisici quando in- vece sono soltanto dei pessimi metafisici. Confondono la rigidità con il rigore, scambiano la fissità delle loro leggi astratte per di- mostrazioni scientifiche, sostituiscono le cose con scatole di defi- nizioni vuote. Alla base dei loro sistemi filosofici non c’è la “ve- rità” ma soltanto una mentalità, quella che gli fa scegliere uno stile, e di conseguenza una scuola di pensiero piuttosto che un’al- tra. In tutti però è latitante quello stile di pensiero che permette di creare nuovi concetti, idee efficaci e, in definitiva, libri interes- santi. Il limite della filosofia analitica risiede tutto nel paralogi- smo che vuol far passare per metodologia antimetafisica; alla fi- ne, in un modo o nell’altro, ci cascano sempre: definendole crea- no le cose e, così, producendole le fanno a immagine e somiglian- za dei loro fini, dei loro schemi teorici preconcetti.
Fra le tante cose che Kant ci ha lasciato in eredità e che nessu- no potrà mai negare è che la filosofia non è mai stata, non è né mai sarà “analitica”, sebbene ogni filosofia che possa vantarsi ta- le avrà sempre una sua Analitica. Una filosofia analitica o una fi- losofia ermeneutica in sé non hanno senso se non nel gioco delle definizioni là dove, chiamandole, evocandole da un altro mondo esse fanno smuovere i tavolini dei medium o, più spesso, le catte- dre dei professori. L’approccio tecnico alla memorizzazione è fortemente debitore nei confronti dell’impostazione analitica di tanta pessima filosofia e psicologia contemporanea; i mnemoni- sti “tecnici” riducono tutto a procedura, a strategia, confonden- do uno dei mezzi ammessi con il solo fine concesso. La dimensio- ne della memoria è di un’altra logica rispetto alla procedura di stampo algoritmico tanto di moda nei decenni passati; adesso è demodé soltanto perché si è perso il filo dell’evoluzione della programmazione informatica che, veramente, è cosa molto com- plessa e al di là della portata di chi intende imitarla e applicarla a contesti che non le competono. Si fa passare l’impostazione ana- litica per una piramide riduzionista, per questa strada però pur ricordando più cose se ne comprendono in proporzione meno; si sa di più e si capisce meno, abbiamo una prospettiva più ampia ma una mente più ottusa e, a una concentrazione argomentativa, in percentuale non se ne aumenta mai la comprensione.
La differenza fondamentale tra chi è ottuso e chi non lo è, in buona parte risiede proprio qui: l’ottuso considera una cosa sol- tanto in sé e la collega con altre che vengono considerate a loro
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realtà. La memorizzazione, nelle ordinarie concezioni nonché in tutte le didattiche seguite in tutte le scuole di ordine e grado, cer- ca sempre di sviluppare una mentalità diagrammatica, impone u- na organizzazione delle conoscenze sul modello dello schema a diagramma; va, in poche parole, nella direzione opposta a quella che le sarebbe invece utile seguire. L’ordine deve pur esserci, ma non deve sostituire, con la sua rigida e ottusa struttura schemati- ca delle conoscenze, la logica del pensiero e, per suo tramite, la ratio della memoria, che deve invece restare a “immagine e so- miglianza” della fantasia.
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a memoria è l’esistenza stessa e l’esistenza altro non è che per-cezione, memoria e aspettativa. Si vive ogni momento per sé, questo è fuor di dubbio; il presente ci è necessariamente prossi- mo più del ricordo, questo è ovvio, il dolore e il piacere possono dissolvere ogni pensiero che ad essi non si adegui, questo è addi- rittura banale; eppure quante volte i teorici non hanno tenuto e non tengono tutto ciò nel dovuto conto? A differenza della me- tafisica che può ed anzi deve prescindere dalla situazione contin- gente del filosofo, l’arte della memoria, proprio come ogni arte ma molto più di tutte le altre tecniche, deve partire dal vissuto contingente, dalla sfera del personale. Quest’ultima però non va considerata come la si considererebbe in un diario intimo o in quanto oggetto d’analisi sul modello della psicologia scientifica.
L’arte della memoria deve partire dalla “singola memoria”, e ognuno ha la sua; e se parte dalla coscienza di ognuno deve “as- sumerne” anche il passato, deve farsene carico. Anche per que- sto motivo (che comunque non resta né il solo né il più importan- te) gli autori classici concedevano pochi esempi, poche applica- zioni pratiche delle proprie tecniche. L’arte della memoria a dif- ferenza delle altre arti ha il prodotto della propria creatività in sé stessa. Il ricordo infatti può venir creato con arte, con tecnica o per semplice natura; in nessuno dei tre casi esso mostrerà parti- colarità o peculiarità tali per cui se ne possa ricavare (dall’ester- no) l’origine. L’arte della memoria è quindi un’arte della co- scienza anche per questo motivo: perché i suoi prodotti le sono (alla coscienza) interni.
Vi sono alcune dinamiche della vita di ognuno che vanno te- nute in considerazione perché, o si trovano presenti, o se ne ri- trovano gli effetti in tutte le applicazioni delle mnemotecniche. L’arte della memoria non ha come prodotto qualcosa da poter o-