scritta ad esso conduce sempre a un’astrazione forzata. Ci si fissa su una cosa ma la si isola dal contesto, oppure non la si lega ad es- so nel modo dovuto. L’attenzione non va mai soltanto sull’ogget- to ma sempre sull’oggetto “in relazione a...”; si ottiene così una concentrazione di altro livello e di altra natura.
L’abitudine che tanti hanno di ripetere, argomentando, la le- zione da imparare per l’interrogazione a scuola, oppure il di- scorso che devono tenere in pubblico, pur avendo un suo indub- bio valore per esercitare le capacità oratorie e in piccola parte anche per memorizzare è, in definitiva e per quel che riguarda il discorso che stiamo avanzando qui, del tutto inutile. L’attenzio- ne rappresenta anche il primo passo verso l’astrazione proprio perché si creano, si stabiliscono rapporti tra la cosa da memoriz- zare e qualcos’altro che già è fermo nella nostra mente oppure anche un’altra nuova nozione ma che, per sua natura, ha carat- teristiche tali che, senza bisogno di nessuno sforzo aggiuntivo, con facilità si fissa nella nostra mappa mnemonica. È in questo rapporto, in questa relazione che inizia l’opera duratura del ri- cordo e il processo di astrazione. È qui che, nell’atto stesso di memorizzare, si creano le basi per poter in futuro rievocare la conoscenza acquisita.
Il fluire della percezione viene quindi interrotto dalla catena delle relazioni che si stabiliscono tra le immagini. Se lo “stop” viene dato consapevolmente dal soggetto, se la catena delle asso- ciazioni che “intrappolano” l’immagine viene assunta consape- volmente e se i tipi di relazioni instaurate sono corretti, o i più a- deguati, allora il ricordo si fissa e il rievocarlo non presenterà problemi. Come “gravi” le percezioni cadono sulla nostra co- scienza, ma la coscienza è un pozzo senza fondo e quindi, se il grave non viene trattenuto da una rete, si perde nel vuoto. Se la rete è troppo tirata, il grave rimbalza e magari ricade in un punto non voluto fuori dalla rete e precipita nel vuoto; se la rete è trop- po allentata il grave la porta con sé negli abissi dell’oblio. L’arte della memoria è in parte anche l’arte della pesca, del costruire reti da pesca.
Completamente inutile allora concentrarsi sulla cosa da ricor- dare; in questo le mnemotecniche sono di grande aiuto, infatti non fanno mai concentrare lo studente soltanto sulla cosa ma sempre sulla cosa in relazione a un luogo. Il movimento della co- scienza non viene però fermato dal bloccarsi della rappresenta- zione: al contrario, al fissarsi del concetto nell’immagine, e quin- di all’inizio del processo di astrazione, deve (o meglio, dovrebbe)
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noi interessa oppure, cambiando l’ordine dei fattori, ciò su cui si ferma l’attenzione finisce per interessarci.
Il processo astrattivo è talmente soluto in ogni nostro atto rappresentativo che è indubbiamente impossibile stabilire il pun- to in cui dall’immagine sensibile si passi alla rappresentazione mentale; l’astrazione non entra in gioco dopo la percezione ma è già, fin dall’inizio, parte del processo cognitivo e percettivo. Ad affermare ciò non mi conduce un esperimento, una ricerca scien- tifica ma, appunto, la riflessione sulle esperienze fatte nel campo della memorizzazione “artificiale”. Tutto dipende da come ci si dispone nei confronti della percezione: è, ancora, una questione di attenzione. A un mnemonista allenato non occorre niente per entrare in uno stato di attenzione concentrata alla ritenzione e all’astrazione delle immagini. Non c’è bisogno di esercizi prepa- ratori né di sofisticate pratiche psicofisiche, è sufficiente voler ri- cordare ciò che si percepisce. D’altronde, di eventi accaduti an- che molti anni prima, a volte ci ricordiamo naturalmente elemen- ti apparentemente insignificanti; se ci rammentassimo ogni no- stro evento passato con quella dovizia di particolari avremmo u- na mente infinitamente più ampia di quel che nei fatti è. Nel far ciò non abbiamo fatto nessuno sforzo, devono quindi esserci al- tre porte per far passare le immagini dalla sfera percettiva ai de- positi della coscienza.
La selezione dei ricordi viene quindi fatta dall’attenzione, ma quale attenzione? Infatti anche la studentessa che ripeteva a pappagallo la lezione era concentrata, attenta, a ciò che doveva memorizzare ma, possiamo starne certi, passata l’interrogazione lei presto dimenticherà quel che con tanta pena ha imparato. Il cardine del ricordo a lungo termine, il segreto della memoria, se c’è deve quindi essere in questo punto: fra il movimento della percezione e la fissazione dell’attenzione. Quel che avviene in quel preciso momento determinerà il decorso del ricordo nella nostra coscienza. Quel momento determinerà anche il tipo di at- tenzione che rivolgeremo all’oggetto, sia esso qualcosa di mate- riale o una pura fantasia. Come si determina questo momento? Quali elementi lo caratterizzano? Può venir sfruttato dalle mne- motecniche? A quest’ultima domanda si può rispondere certa- mente sì. Sulla prima e la seconda la questione si fa più comples- sa e di fatto questo libro, nel suo insieme cerca solo di abbozzare una risposta. L’attenzione, per rimanere nel nostro attuale tema, non deve esser rivolta né soltanto né soprattutto all’oggetto da ritenere, all’oggetto dell’attenzione. Una concentrazione circo-
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cambiare le cose nei luoghi, ovvero le parole all’interno della struttura grammaticale. Il teatro è già la sintassi, le immagini so- no già la semantica, le cose nei luoghi sono già le parole. Il tutto deve formarsi per imitazione e senza sforzi di comprensione, co- me quando andiamo a fare una passeggiata non compiamo nes- suno sforzo per comprendere dove siamo, da quale parte siamo arrivati e verso quale direzione stiamo andando. Il significato e- merge dopo, gradualmente quasi quanto spontaneamente: prima si parla poi si capisce ciò che si dice.
La memorizzazione quindi segue una strada diversa e, per al- cuni aspetti, anche opposta alla comprensione astratta del con- cetto. È questo un principio che dovrebbe esser sempre tenuto presente: la comprensione astratta rende difficoltosa la memo- rizzazione a chi non ha un’adeguata struttura concettuale nella quale inserire ciò che viene compreso. Per il bravo professore di filosofia o di matematica, ad esempio, non è difficile imparare u- na nuova teoria astratta in quanto ha uno schema mentale arric- chitosi e affinatosi negli anni nel quale farla inserire; per un gio- vane studente invece è vero il contrario, un notevole sforzo di comprensione è assolutamente inutile se non viene associato alla creazione di uno schema mentale, di un teatro della memoria.
Il concetto astratto non soltanto va compreso ma va anche “collocato” da qualche parte. Anzi, prima che compreso andreb- be sempre collocato. Sì, ma dove? Non certo in uno schema men- tale astratto che, appunto, si deve ancora costruire (oppure stia- mo costruendo), non certo in un ordine surrettizio e avulso dal contesto in cui ne siamo venuti a contatto. Le cose vanno impa-
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corrispondere un movimento, di altro genere rispetto al fluire percettivo. Si tratta del movimento delle associazioni fra le idee, del movimento dell’immaginazione che inizia a legare le rappre- sentazioni in catene iconico-concettuali. Il concetto stesso per la tensione propria della mente ad astrarre è in continuo movimen- to, si trasforma incessantemente, si fa via via più etereo o più grossolano a seconda dei rapporti instaurati e progressivamente modificati tra i ricordi e i luoghi del teatro.
Un esempio chiarificatore ci viene offerto da Thomas Pren- dergast che nel suo The mastery of languages codifica un nuovo (e non soltanto per quel periodo, il 1864) metodo per l’appren- dimento delle lingue straniere. A parte il fatto che tale sistema è tuttora valido e che sarebbe interessante analizzare il perché
non abbia avuto la diffusione che merita1, esso risulta interes-
sante per vari motivi. Il primo dei quali è che per l’apprendi- mento delle lingue non c’è bisogno di sforzare la memoria per la ritenzione delle parole; l’apprendimento inoltre non deve parti- re dalle strutture grammaticali e neppure dalla traduzione nella propria lingua.
L’apprendimento della lingua deve prescindere dalla com- prensione semantica del linguaggio e deve basarsi sulla ripetizio- ne e l’apprendimento “percettivo” (articolazione dei suoni e ri- tenzione dell’immagine sensoriale) delle frasi. Per quale motivo si devono imparare le frasi (le lunghe e complesse meglio delle brevi e semplici) evitando di comprendere le singole parole, piut-
tosto che la grammatica2? Perché le frasi rappresentano già dei
piccoli teatri della memoria, all’interno dei quali poi si possono
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I l c e r c h i o d e l l e i l l u s i o n i
1In realtà il metodo Prendergast è stato recuperato ma pure semplificato, dena-
turato e strumentalmente aggiunto a molte nostre contemporanee metodologie d’insegnamento delle lingue.
2Il metodo Prendergast e l’interpretazione che ne dà Bergson, presi in sé e per
sé, ci allontanerebbero dalla risposta che qui vogliamo dare, ciò non di meno la presuppongono. Bergson intende sostenere che la memoria compie pochissimo sforzo là dove deve collegare contenuti mentali posti su un medesimo livello di coscienza; se invece, ad esempio, si intende passare dal livello sensoriale a quel- lo intellettuale, ecco comparire lo sforzo. Per completezza e correttezza riporto il brano tratto da L’effort intellectuel dato che la mia argomentazione, pur condi- videndo queste tesi, prende adesso, e in parte, un’altra piega: «C’est sur le plan des images auditives ou des images d’articulation qu’il faut la laisser pour don- ner une mémoire du même genre à l’oreille. Parmi les méthodes proposées pour l’enseignement des langues figure celle de Prendergast, dont le principe a été plus d’une fois utilisé. Elle consiste à faire prononcer d’abord des phrases dont on ne permet pas à l’élève de chercher la signification. Jamais de mots isolés:
toujours des propositions complètes, qu’il faudra répéter machinalement. Si l’élève cherche à deviner le sens, le résultat est compromis. S’il a un moment d’hésitation, tout est à recommencer. En variant la place des mots, en pratiquant des échanges de mots entre les phrases, on fait que le sens se dégage de lui-mê- me pour l’oreille, en quelque sorte, sans que l’intelligence s’en mêle. L’objet est d’obtenir de la mémoire le rappel instantané et facile. Et l’artifice consiste à fai- re évoluer l’esprit, le plus possible, parmi des images de sons ou d’articulations, sans qu’interviennent des éléments plus abstraits, extérieurs au plan des sensa- tions et des mouvements. La facilité de rappel d’un souvenir complexe serait donc en raison directe de la tendance de ses éléments à s’étaler sur un même plan de conscience. Et en effet, chacun de nous a pu faire cette observation sur lui-même. Une pièce de vers apprise au collège nous est-elle restée dans la mé- moire? Nous nous apercevons, en la récitant, que le mot appelle le mot et qu’u- ne réflexion sur le sens gênerait plutôt qu’elle ne favoriserait le mécanisme du rappel. Les souvenirs, en pareil cas, peuvent être auditifs ou visuels». H. Berg- son, L’énergie spirituelle cit., p. 87.
passare del tempo, si rendono sempre più rigidi. Le mnemotecni- che stesse risentono spesso di questa tendenza all’astrazione che poi altro non è che tendenza alla ritenzione mnemonica, alla mente come magazzino di informazioni. Infatti molte tecniche tradiscono in parte i loro stessi presupposti irrigidendo l’appren- dimento all’interno di rigide regole che non tengono nel dovuto conto i processi di astrazione.
La memorizzazione forte, potente, parte sempre con un pro- cesso di de-astrazione, di rinuncia ai nostri schemi mentali fissi, per adattare la mente alle nuove conoscenze. Infatti se adeguia- mo le nuove conoscenze ai nostri schemi fissi di pensiero, dob- biamo compiere un complesso e faticoso lavoro di astrazione, di adattamento “semantico” del nuovo concetto al vecchio schema “sintattico”. Al contrario se nell’apprendimento adeguiamo la nostra mente alla cosa da imparare, se creiamo un nuovo sistema di riferimento (un nuovo schema, una nuova rete di relazioni o come la vogliamo chiamare) alla cosa che si pone sul suo stesso piano cognitivo, l’astrazione (e quindi lo sforzo) non entra in gio- co che in minima parte. Certo è che tutta la nostra società e la no- stra stessa mente, per sua intima natura, ci spingono sempre ver- so la conferma degli schemi che col tempo ci andiamo formando e affinando. Ciò comporta un notevole risparmio di energie men- tali nell’immediatezza dell’apprendimento del nuovo, ma al prezzo di un maggiore sforzo successivo e di una minore capacità ritentiva sul medio e lungo periodo.
Nell’apprendimento idiomatico, così come nelle mnemotec- niche, si teme di ripartire sempre da zero o, almeno, da uno o da due, da cinque, da dieci e non da mille o da cinquemila così co- me, per abitudine, siamo portati a pensare ogni volta che appren- diamo qualcosa di nuovo. È una paura infondata quella che in- consciamente ci tiene lontani dal corretto metodo di apprendi- mento; la paura di perdere tutto ciò che si è già appreso. Infatti, accantonare gli schemi mentali di riferimento acquisiti viene na- turalmente scambiato per perdere tutto ciò che si è appreso co- me se la “vita” di ciò che si conosce dipendesse dal sussistere dei nostri rigidi schemi mentali.
Al contrario riuscire ad aggiungere nuovi schemi (nuovi tea- tri) ai vecchi rende la nostra mente più elastica e più agile il pen- siero. Uno sforzo effettivamente va fatto, esso però va in una di- rezione diversa rispetto a quella che normalmente si crede. Si tratta dello sforzo di cambiare sistema di riferimento, di lasciare i nostri punti d’appoggio per costruirne altri. Per il sistema di ap-
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rate senza nessuno sforzo intellettuale, per imitazione e collo- candole, sempre per fare un esempio (che però di per sé non ha ambizioni di essere esaustivo) su di noi, al centro del nostro tea- tro cognitivo, della scena che stiamo vivendo nel momento in cui lo apprendiamo.
Per questo motivo i bambini imparano facilmente e senza l’ausilio di nessuna grammatica a parlare la lingua dei loro geni- tori: collocano le frasi che sentono naturalmente e intuitivamen- te alla situazione in cui le hanno apprese, senza nessun medio dell’astrazione. «Mangia la pappa» significa semplicemente il suono «mangia la pappa», quando il bambino è davanti a una scodella piena di cibo e sua madre gli è di fronte con un cucchiaio pieno di pappa. Lui non sa cosa significhi mangiare, cosa sia la pappa, cosa sia un verbo, un soggetto, un complemento ecc., sa soltanto che la mamma emette dei suoni che noi gente accultura- ta riconosciamo nell’insieme di grafemi «mangia la pappa»”, quando lui è a sedere a tavola con davanti un oggetto pieno di ro- ba calda e che sua madre gli pone un cucchiaio pieno di quella ro- ba. Infine questa situazione egli non la riflette come potrebbe sembrare dalla descrizione che ora ne ho data, semplicemente la sperimenta su di sé senza il medio dell’astrazione.
Il significato della frase è nella scena stessa che vive, è parte integrante del suo teatro della memoria. Così si imparano le lin- gue in maniera idiomatica, sostiene Prendergast e, sinceramente, è difficile dargli torto. Perché allora il suo sistema non ha avuto larga diffusione se non in maniera semplificata e distorta? La do- manda può venir riproposta pari pari per le mnemotecniche nel loro complesso, perché non hanno avuto la larga diffusione che invece meriterebbero? Perché tecniche che permettono di impa- rare in un giorno cose che altrimenti occorrerebbe settimane ad apprendere e comunque senza raggiungere quegli standard qua- litativi, vengono sistematicamente ignorate? I motivi sono diver- si e hanno a che fare sostanzialmente con la rigidità mentale di o- gnuno di noi.
Col passare degli anni il bambino viene progressivamente coinvolto e intrappolato in un sempre più complesso sistema di simboli e significati e, con l’affermarsi di questo, si va sempre più perdendo la naturalezza dell’apprendimento infantile. Recupe- rare il vecchio sistema di apprendimento diventa quasi impossi- bile, per contro esso viene sostituito dall’apprendimento per “addizione”: si sommano le vecchie conoscenze alle nuove, in tal modo però inserendole sempre nei soliti schemi mentali che, col
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prendimento di Prendergast vale quel che sosteniamo per i teatri della memoria. Erroneamente si ritiene che l’uso dei teatri della memoria rappresenti un affaticamento della memoria, che si ca- richino le menti delle persone con immagini inutili ecc., in realtà senza teatro non esisterebbe coscienza, la coscienza stessa è il teatro della nostra mente. Ciò che dobbiamo fare è diventare, al- meno in parte, padroni del meccanismo.
Normalmente adattiamo le nuove conoscenze ai nostri sche- mi rigidi di pensiero; con le mnemotecniche non si cerca subito di rendere più elastici e flessibili tali schemi, si tenta invece di au- mentarne il numero imparando a crearne, coscientemente e me- todicamente, di nuovi. È soltanto in un secondo tempo, quando si è già padroni del sistema di memorizzazione tramite teatri, che si può cercare di rendere più elastici i nostri schemi mentali. In- fatti il mnemonista abile non soltanto pone nuove conoscenze in nuovi teatri ma riesce anche ad adattare i vecchi teatri alle nuove conoscenze. L’apprendimento e la memorizzazione devono av- venire, per così dire, in maniera “idiomatica”, senza il medio del- la riflessione, senza troppo elucubrare su concetti e immagini. Ciò pone l’obbligo dell’esercizio perché, almeno all’inizio, non è facile liberarsi dalle vecchie abitudini. Quel che spesso neppure i mnemonisti tengono in considerazione è che la mente si dà natu- ralmente dei teatri, ovvero contestualizza i propri contenuti che, per sé presi, sono sempre e soltanto delle astrazioni. L’apprendi- mento idiomatico di una lingua per imitazione pone infatti l’ac- cento sul contesto (la frase) più che sulla cosa (le singole parole), sulla rappresentazione (iconica o acustica che sia) piuttosto che sul significato.
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e le mnemotecniche sono un metodo per poter modificare ipropri stati di coscienza non c’è bisogno di fare discorsi alti- sonanti né di lanciarsi in esempi “estremi” per provarlo, dato che la mente è il contenitore delle nostre rappresentazioni; que- ste infatti possono venir create, sostituite, eliminate e parame- trizzate al contesto in cui le inseriamo. Indubbiamente tutte le tecniche che mirano a modificare gli stati di coscienza hanno qualcosa di pericoloso e sono spesso indice di non meglio defini- te pulsioni che spesso prendono forma nel misticismo, in ideolo- gie psico-politiche, in religioni new age ecc.; in manifestazioni, quindi, generalmente deprecabili. Qui il discorso è del tutto dif- ferente: quel che dobbiamo fare è ricordare più e meglio. Ciò ovviamente passa per la ridefinizione di alcune nostre abitudini cognitive, non potrebbe essere altrimenti; d’altra parte ogni for- ma di apprendimento è anche una forma di manipolazione della mente. Alla fine il pericolo non è nel camminare ma nella dire- zione che si intraprende.
Nel titolo ho usato un bruttissimo neologismo, “dimensiona- bilità”, per rendere l’idea della parametrizzazione delle rappre- sentazioni tra loro mutandone le proporzioni, mancando nella mente “un’unità di misura oggettiva” come lo è il “metro” nella realtà fisica. Modificare in questo caso non è sinonimo di altera- re: semplicemente quando pensiamo a qualcosa la nostra mente è concentrata su quella cosa, quindi di essa siamo coscienti, se poi pensiamo a un’altra cosa siamo coscienti di quella cosa e non più di quella di prima; si è modificato un nostro stato mentale, tutto qui. Va da sé poi che esercitandosi nelle mnemotecniche si alleni anche l’attenzione e la concentrazione. Faccio subito un e- sempio, spero chiarificatore. Percorrendo un teatro a volte può accadere di trovare luoghi che sono troppo grandi.