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Dimensione delle immagini nel teatro

sa per immagini, ma le rappresentazioni sono già state pensate nel corso passato della nostra vita e quando riaffiorano alla co- scienza nel fluire dei pensieri assumono sempre un carattere e u- na forma tali per cui è possibile ipotizzare che esse altro non sia- no che i fossili dei nostri pensieri precedenti, che riaffiorano in superficie dopo lungo tempo di sedimentazione nel fondale della nostra mente.

Quando si immagina, si immagina sempre qualcosa di deter- minato e che è stato definito in precedenza. Si ritiene, un po’ pre- suntuosamente, di avere la libertà di immaginarsi ciò che si vuole ma, di norma, così non è. Quando penso a un oggetto, ad esem- pio a una mela, penso sempre a un oggetto preciso che riaffiora alla mia coscienza da esperienze passate. Pensare a una mela, in astratto, significa pensare a un frutto di colore rosso piuttosto grande con una forma ben precisa. Eppure mele ce ne sono di tante varietà e non tutte sono rosse, alcune sono gialle oppure verdi, altre metà gialle e metà rossicce, alcune con la buccia li- scia, altre no ecc., ma a tutti noi quando pensiamo a una mela viene in mente, credo, la mela rossa dei cartoni animati di Bian- caneve. Se qualcuno si raffigura una mela verde significa che ha fissato nella propria mente una vecchia pubblicità dello sham- poo; ciò ovviamente niente toglie alla validità logica dell’argo- mentazione che sto qui avanzando, ciò che conta è che a un con- cetto vi sia sempre collegata nella coscienza del soggetto una de- terminata immagine stereotipata, e sempre quella.

È normale che sia così e non potrebbe essere differentemen- te. Su tale principio si reggono la maggior parte delle nostre azio- ni quotidiane, azioni che non sarebbe possibile compiere se ogni volta ci arrestassimo a riflettere sulla veridicità e attendibilità dei nostri presupposti e delle nostre decisioni. Dato atto che le im- magini che produciamo nella nostra mente sono il risultato dei concetti che possediamo delle cose che ci rappresentiamo – e che, a loro volta, tali concetti sono il risultato di generalizzazioni che fin dalla nascita facciamo partendo proprio da idee, immagi- ni esperienze ecc. pregresse – è del tutto evidente che il riuscire a modificare le proprie rappresentazioni volontariamente è un modo sicuro per poter incidere consapevolmente sulle nostre credenze. Prima però si deve provare a diventar consapevoli di ciò che si pensa (senza l’illusione di riuscirci, ma con il senso del- la realtà di raggiungere questo scopo in piccolissima parte); per far ciò si deve quindi agire sulle rappresentazioni del nostro pen- siero, ovvero sulle immagini.

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linea retta); lei individuò il cancello e, probabilmente non tro- vando qualcosa che potesse meglio delimitare lo spazio davanti al cancello, pensò al cancello stesso come il luogo su cui appen- dere qualcosa e quindi pensò a un paio di jeans a cavallo del cancello stesso.

Arrivati alla stazione di Firenze Campo Marte individuam- mo il luogo sul marciapiede davanti all’entrata del parcheggio delle biciclette. In tale spazio proposi di collocare un orologio. La mia amica mi chiese se da polso o da muro. Suggerii da polso ma lei preferì figurare una sveglia da comodino, ovvero un og- getto più grande, una via di mezzo tra il piccolo orologio da pol- so e il grande da muro. Infine arrivati a Firenze S.M.N. suggerii la testa del binario 16 e chiesi a lei cosa mai ci avremmo messo. Rispose: un elefante. Il perché è facile da immaginare, oggetti grandi sono più facili da rappresentarsi che non i piccoli; in luo- ghi affollati e dall’architettura complessa (come sono le stazioni ferroviarie) presentano molti stimoli visivi, auditivi e, spesso an- che olfattivi tali per cui diventa difficile fissare nella mente un’immagine precisa di un oggetto determinato. Giustamente quindi la mia amica tentava di “forzare” la memoria ingiganten- do gli oggetti. Inoltre si trattava di oggetti insoliti da trovare in quei posti e quindi più facilmente memorizzabili. A distanza di oltre un anno ritrovandoci in treno si ricordò senza problemi tanto i luoghi che gli oggetti.

Le osservazioni su questo piccolo teatro della memoria di ma- trice ferroviaria consentono di fare un’infinità di considerazioni a carattere universale. Per il momento concentriamoci sulla di- mensione delle immagini in sé stesse e in relazione ai luoghi dove vengono collocate. Normalmente quando si chiede a qualcuno di porre mentalmente una cosa in un posto (in un posto reale che entrambi gli interlocutori conoscono) l’attenzione della doman- da è concentrata sul luogo: questo infatti è l’elemento certo e condiviso tanto da chi avanza la richiesta quanto da chi la deve soddisfare attivando l’immaginazione. Il luogo infatti è qualcosa di ben preciso, determinato, mentre la cosa può esserlo più o me- no. Generalmente alla cosa ognuno applica il proprio concetto (come dimostra l’esempio dell’orologio) per cui l’immagine è sempre l’effetto di un pregiudizio, o di uno stereotipo, o di un concetto che indica la rotta al pensiero.

Quindi, quando pensiamo, pensiamo attraverso immagini. Tali figure non si producono in maniera oggettiva ma sempre in considerazione di quelli che sono i nostri schemi mentali. Si pen-

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Quando si crea un teatro della memoria queste cose vanno considerate; va sempre tenuto presente che gli elementi in gioco sono tre e in dipendenza reciproca gli uni con gli altri: il luogo, la cosa, il punto di vista (sul luogo e sulla cosa) e volendo, almeno in alcuni tipi di teatri, se ne possono aggiungere altri due: la posi- zione della cosa nel luogo e il “senso di marcia”, la catena logica e fisica dei collegamenti tra le cose e, quindi, tra le immagini. Dunque, se è facile immaginare una mela come più o meno gran- de su uno sfondo bianco, tale semplicità presto si dissolve se la si deve pensare come più o meno grande in un luogo “reale”. Di- venta addirittura difficilissimo immaginarla più grande allargan- do la prospettiva sul luogo. Provate a immaginare una bottiglia di latte da mezzo litro per terra davanti a un’auto in un parcheg- gio mentre voi la state osservando da 10 metri di distanza. Ades- so immaginate lo stesso luogo, ovvero la stessa auto, a 20 metri di distanza da voi e pensate a una bottiglia, della stessa forma della precedente ma di dimensioni maggiori, come se dovesse conte- nere non mezzo litro ma un litro di latte. Adesso confrontate le due rappresentazioni (e già questo è un livello ancora superiore di astrazione pur mantenendo gli elementi caratteristici delle rappresentazioni), se ce la fate a far ciò e a distinguere le due bottiglie siete un bel pezzo avanti.

Il passo successivo è mettere in relazione reciproca tali para- metrizzazioni, relative a luoghi e cose ben precise, con gli altri luoghi e cose presenti in teatri complessi. Faccio queste conside- razioni semplicemente per mostrare come da esempi banali co- me quello della mela si possa passare quasi automaticamente ad altri molto più complessi come quello della bottiglia di latte, che potrà sembrare ancora banale se non consideriamo le implicazio- ni cognitive che tale atto comporta. Se anche questi possono sembrar ovvi o senza una qualche utilità è soltanto perché non siamo abituati a procedere per gradi nelle cose della vita, si vuol sempre tutto subito senza rendersi conto che le piante più belle o più utili come l’ulivo, il castagno, la quercia impiegano anni per diventare maestose e dare i loro buoni frutti.

Le mnemotecniche si basano sulle immagini, ma quanti testi a- nalizzano la struttura delle immagini? I mnemonisti che vanno per la maggiore hanno fatto della manipolazione delle immagini il cardine delle proprie tecniche, essi però partono già con l’inten- zione di crearsi immagini deformate delle cose che intendono ri- cordarsi. Ciò ovviamente non è un errore, dato che essi espongo- no generalmente delle tecniche di memorizzazione e non si lancia-

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L’esperimento fatto con la mia amica ci ha mostrato due e- sempi significativi a riguardo: l’orologio e l’elefante. Nel primo caso lei ha cercato di proporzionare (per facilitare il ricordo) l’immagine della cosa a quella del luogo. Un orologio da polso «non sarebbe stato visibile» dal suo punto di vista (che era quello in cui lei si trovava, ovvero sul treno, e il luogo che avevamo sta- bilito si trovava ad alcune decine di metri di distanza) mentre lo era una sveglia. In gioco entrano così non soltanto due rappre- sentazioni differenti (quella del luogo e quella della cosa) ma an- che un’infinita varietà e “gradazione” di prospettive in cui tali entità immaginative vengono rappresentate. La proporzionalità degli oggetti ai luoghi e quindi la “dimensionabilità” degli ogget- ti è determinante nelle mnemotecniche proprio perché oltre alla cosa e al luogo vi è un terzo elemento importante da considerare: la prospettiva da cui osservare entrambi, cosa e luogo. Quindi centro delle mnemotecniche a teatro sono sempre i rapporti che intercorrono tra cosa, luogo e punto di osservazione. Tali rap- porti devono poter variare alla bisogna. Pensiamo a una mela su uno sfondo bianco. Per immaginarla più grande o piccola è suffi- ciente parametrizzarla allo sfondo; il problema è che l’immagine nella nostra mente non è mai nitida e definita come una fotogra- fia o un’immagine sul monitor del nostro computer, anzi spesso della fotografia non ha proprio niente e altre volte anche di ciò che le riteniamo “proprio” (sostanziale) ha ben poco; in questi casi si presenta come un abbozzo, un flebile tentativo di dare consistenza a un concetto, ma poi, subito dopo, la si lascia sfuma- re passando a considerare un altro concetto, immagine credenza ecc. Imparare a modificare le dimensioni significa quindi impara- re a definire le immagini nella nostra mente.

È lo zoom della mente, che considera il suo oggetto e lo para- metrizza allo sfondo, a farci pensare a una mela come più o meno grande. Il cinema ci è di grande aiuto per poter comprendere i ter- mini della questione, sebbene, come affermato in precedenza, sia il teatro delle marionette a darci un’idea adeguata dell’immagina- zione. Ripeto inoltre che gli esempi che seguono, come i prece- denti, sono esercizi dell’immaginazione che non richiedono di fa- re realmente ciò che prescrivono. Anzi è un limite quello di ese- guire nella realtà ciò che va fatto soltanto mentalmente. Conside- rare grande una mela su uno sfondo bianco significa farla coinci- dere il più possibile al luogo in maniera tale che i limiti bianchi dello sfondo siano quanto più fini possibile; per inverso pensarla piccola significa vedere un punto rosso su uno sfondo bianco.

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scendentale che da sola, ma trattata in relazione alle mnemotec- niche, meriterebbe un saggio enciclopedico.

Ovviamente in tale esperimento la figura della mela si riduce progressivamente via via che ci allontaniamo da essa ma, mante- nendo le proporzioni col luogo in cui si trova, continuiamo a rite- nerla sempre delle stesse dimensioni oggettive. Ciò non è diffici- le da immaginare perché l’esperienza della quotidianità è fatta così, è composta di cose che si ingrandiscono o si riducono via via che ci avviciniamo o allontaniamo da esse. Mentre il primo eser- cizio aveva come unico obiettivo quello di prendere una sempre maggiore consapevolezza della “dimensionabilità” delle proprie rappresentazioni, questo lo ha nei confronti delle prospettive che assumiamo nel considerare le cose. A livello teorico mi accorgo di dire delle banalità, se ci limitiamo a considerare mele e cartoni del latte, ma nella “pratica” della memoria tali elementi appa- rentemente semplici rivestono un’importanza fondamentale, co- stituendo la totalità della nostra esperienza rappresentativa.

Il terzo esercizio è la somma dei due precedenti: si tratta di im- maginare in un luogo reale (ma ricostruito nel nostro teatro della memoria che è solo nella nostra immaginazione) una cosa reale via via come più grande o più piccola mantenendo inizialmente lo stesso punto di vista. Si deve poi cercare di immaginare cose sem- pre più piccole da distanze sempre maggiori ma facendo in modo che la distanza non sia né direttamente né inversamente propor- zionale alla dimensione oggettiva dell’oggetto. Ciò va fatto in mo- menti differenti, non devo cioè fare confronti tra le immagini ma considerarle ognuna per sé. Devo semplicemente pensare a una bottiglia da mezzo litro a 7 metri poi una da un litro a 10 metri e, infine, una da due litri a 15 metri (notare che di proposito ho mes- so in rapporto asimmetrico dimensioni e distanza in maniera tale che non vi sia possibilità di duplicare, nella ricostruzione immagi- nativa, la stessa rappresentazione della cosa modificando soltanto il luogo; luogo e cosa devono modificarsi autonomamente, pur mantenendo tra loro le proporzioni, secondo quelle che sono le volontà del praticante) in maniera tale che devo necessariamente sforzarmi per parametrare ogni volta la cosa al luogo e il luogo a sé stesso o, meglio, alla prospettiva che ne avevo nella rappresen- tazione precedente, da una distanza minore.

Arrivati a questo punto riprendiamo il mio iniziale teatro del- la memoria con 107 luoghi. Se applico il terzo esercizio al mio teatro otterrò, in effetti, non 107 luoghi e 107 cose, ma 321 luoghi e 321 cose. A ben vedere però le cose posso complicarmele anco-

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no in analisi teoriche sulla modificazione stessa delle immagini; per noi invece è importante comprendere i passi che portano alla deformazione delle immagini e, più che concentrarsi sulla loro tra- sformazione “paradossale” o esasperata, conviene porre l’atten- zione alla parametrizzazione. In altri termini più che la “distorsio- ne” della forma (ovvero deformazione) intendiamo ora porre l’accento sui rapporti spaziali tra la cosa (e la sua forma) e il luogo dove essa viene posta. Come facilmente concluderà il mnemonista esperto, molte delle mnemotecniche oggi in voga sono, a rigor di termini, una via di mezzo tra la memoria per le cose e quella per le parole. Noi adesso però ci occupiamo di quella delle cose e cer- chiamo di procedere per gradi, quindi prima di pensare a una bot- tiglia di latte deformata (per esempio rotta) per meglio ricordare il latte, si deve considerare l’immagine di una bottiglia standard posta in un determinato luogo (che non deve, a sua volta, essere standard ma il “mio” luogo, quel particolare luogo che ho costrui- to nel mio teatro della memoria). Il primo passo quindi non è pen- sare immagini deformate ma immagini con le loro forme “natura- li” poste nei nostri luoghi della memoria. La prima deformazione in effetti non è per noi una “deformazione”, ovvero un “muta- mento di forma”, ma un “dimensionamento” ovvero un ingrandi- re o rimpicciolire la cosa mantenendo la forma originaria. Si trat- ta, in altri termini, di regolare il rapporto tra cosa e luogo.

Continuiamo quindi a studiare gli esempi fatti. Il passo suc- cessivo all’allargare lo zoom della mela rossa sullo sfondo bianco è quindi quello di immaginare la mela in un luogo reale e di allar- gare la prospettiva su di essa come se ci stessimo allontanando. Non è la stessa cosa di prima in quanto, allargando la prospetti- va, in un luogo reale si modifica l’orizzonte: in fin dei conti pen- sare una mela più o meno grande su uno sfondo indifferenziato è un banale esercizio di confronto tra la stessa rappresentazione pensata con dimensioni diverse. Ma quanti di noi riescono a raf- figurarsi facilmente un oggetto come più o meno grande senza metterlo in rapporto ad altri oggetti? Tutti credono di saperlo fa- re eppure nessuno, o quasi, lo ha mai veramente fatto. Il con- fronto tra la stessa immagine di dimensioni diverse, in relazione alla distanza dal punto di vista, implica invece una fitta rete di rapporti tra la rappresentazione della cosa e quella del luogo, tra il luogo e l’orizzonte, tra la cosa, il luogo e l’orizzonte. Spesso non ci pensiamo ma è così ed è un problema che travalica le colli- ne delle mnemotecniche per posizionarsi sulle cime della metafi- sica, basti pensare alla teoria kantiana dello schematismo tra-

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Riuscire a padroneggiare queste operazioni significa però es- sere già dei mnemotisti esperti. Tanto per dare un altro esempio: a un’immagine vista da vicino colleghiamo la spiegazione della teoria della relatività ristretta, alla stessa cosa vista da più lonta- no collegheremo la teoria della relatività generale. Ancora: a un’immagine vista da vicino collegheremo la teoria del «esse est percepi», mentre alla stessa immagine vista da più lontano la cri- tica kantiana alla teoria dell’idealismo assoluto. Altro esempio: considerare una cosa in un luogo vicino e legare ad essa un arti- colo di legge. Ciò significa memorizzare l’articolo in sé stesso. Allontanando la prospettiva riesco a vedere sempre il luogo e la cosa che mi rappresenta l’articolo ma, al contempo, riesco anche a vedere il luogo adiacente, la cui cosa, per ipotesi, mi sta a signi- ficare un altro articolo (presumibilmente della stessa legge) con il primo in relazione. Ecco quindi che la “dimensione” della cosa già di per sé sta a significarmi un contesto e un insieme di relazio- ni differenti. In definitiva ogni cosa vista da vicino può rappre- sentarmi un comma di un articolo di legge, da un po’ più lontano (ma comunque con una parametrizzazione che volontariamente ho standardizzato) può significarmi quel comma in relazione al- l’articolo di cui fa parte; da più lontano ancora, in rapporto alla legge che comprende l’articolo, che comprende il comma.

La prima e più importante conseguenza di questo modo di immaginare i propri teatri è che così possiamo sfruttarli non sol- tanto in maniera lineare e bidimensionale, ma “sferica” e tridi- mensionale.

La parametrizzazione, l’uso della prospettiva come criterio e strumento di memorizzazione è utile anche come aiuto all’associa- zione delle idee a cui le immagini rimandano. Nella rete dei colle- gamenti fra immagini e luoghi entrano anche i rapporti tra le rap- presentazioni, i luoghi e le prospettive; ciò complica l’artificio mne- monico ma, se eseguito correttamente, comporta una maggior pre- sa mnestica. I criteri di associazione tra le immagini delle cose quindi devono tener conto anche dei cambi di prospettiva sul luo- go e la cosa e, tenendone conto, utilizzarli come elemento attivo di memorizzazione. La dissociazione prospettica dirige quindi l’at- tenzione alla posizione reciproca degli oggetti nei teatri della me- moria e poi ne fa astrazione considerando ogni legame come ele- mento su cui costruire, a sua volta, un altro elemento rievocativo.

Riprendiamo l’obiezione su menzionata: ma non è un appe- santimento insostenibile e inutile per la memoria? La risposta è che la memoria non si appesantisce semplicemente perché non è

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ra di più. Infatti posso benissimo immaginarmi la stessa cosa da tre distanze diverse e tre cose diverse dalla stessa distanza. A quel punto se l’oggetto mi diventa un simbolo emotivamente ri- levante per un concetto, la triplice parametrizzazione al luogo in cui l’ho posto può venirmi a significare tre aspetti di quel concet- to, tre conseguenze di esso, tre teorie che a quel concetto si ispi- rano. Se poi le tre teorie, che tale simbolo per “simpatia” richia- mano, rivestono all’interno del mio quadro teorico di riferimen- to tre ruoli diversi (per cui una è per me più importante, o viene prima, o può implicare l’altra) la sequenza con cui me le immagi- no nel luogo può essere un valido sostegno al ricordo e all’artico- larsi dei miei pensieri. Questo ultimo esercizio ha un altro van- taggio: la coordinazione tra movimento e immagini. Mentre nelle mnemotecniche classiche e moderne ci si limita a lavorare con immagini in movimento, che agiscono, qui si fa un ulteriore passo avanti: il coordinamento semantico e non soltanto geometrico tra le immagini e il movimento. Una sola immagine, osservata da prospettive via via più lontane (o vicine) oppure spostandola nel