tazioni nella coscienza e che, nel loro insieme, tale coscienza co- stituiscano. Altrimenti detto: accade a tutti, a chi più a chi meno, di voltarsi indietro col cannocchiale della memoria e considerare che le scelte fatte ieri per facilitarsi la vita finiscono inevitabil- mente per complicarci il tempo oggi e, così, le sagge decisioni passate sono rimaste sotto il lenzuolo del fantasma della perdita di tempo.
Anni di riflessioni, di fallimenti, di scarsi risultati, di forzati arrangiamenti, di decisioni tremolanti, di rammarichi, di penti- menti, di rimpianti, di introspezioni e di quant’altro dir non è possibile si sommano nella mente di ognuno, si rigirano in un confuso gomitolo di sentimenti; finisce sempre così e non ci si può far niente, restiamo spettatori passivi dello spettacolo alle- stito dal destino e dall’esperienza nel teatro della nostra memo- ria. Così va a finire sempre, tutti hanno provato queste sensazio- ni e condiviso queste esperienze; tutto ciò si ritrova in varie for- me e con diverse tonalità nel bagaglio dei ricordi di ognuno, il pe- so che questo “destino” assume può facilitare od ostacolare (a seconda dei casi) l’arte della memoria. Il peso dei ricordi, delle frustrazioni, dei piaceri, degli sbagli, del bel tempo andato e, in u- na parola, il languore del passato può esser usato dalla carrucola della tecnica mnemonica per sollevare dal terreno dell’oblio, con relativa facilità, una maggior quantità di pensieri per tenerli a galla senza troppa fatica nella coscienza.
Le idee sono immagini sospese nell’aria della nostra coscien- za, per restare “in livello” dobbiamo saper giocare con i pesi, dobbiamo imparare a bilanciare i nostri difetti caratteriali e le nostre pecche psichiche con quel che merita ricordare o rievoca- re, perché le forze che fanno stare i pensieri in sospensione nella nostra coscienza sono spesso (mutando noi e/o le circostanze) le stesse che li fanno affondare. L’arte della memoria deve attacca- re la corda a tutte quelle forze che, di per sé, tendono verso il basso, farla passare per la carrucola della tecnica e, all’altro capo del filo, legare i pensieri che invece si vuol mantenere in vita, is- sandoli dal fango dell’indistinto. Così, dovendo sollevare un peso ad essa opposto, la forza che tende verso il basso perde (o può perdere) parte della sua intensità e per contro annullare l’inerzia delle forze statiche della rappresentazione che si vuole invece te- ner presente.
La nostra coscienza ha sempre tante zavorre, eredità del pas- sato, che le impediscono di procedere liberamente verso il futu- ro. Tuttavia si tratta di forze che spingono o trattengono e, co-
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stentare o uno spettacolo da mostrare agli astanti; l’arte della memoria ha per prodotto soltanto sé stessa: le sue creazioni le re- stano intime, private e rinchiuse sempre in un pensiero. Si può certo render manifesti i propri ricordi magari esibendosi con complicate catene di ricordi in una pubblica dimostrazione; sia chiaro però che questa non è arte della memoria ma soltanto ap- plicazione di tecniche mnemoniche prodotte dall’arte. L’arte della memoria è fondamentalmente una tecnica edile, costruisce rappresentazioni, è arte del rappresentarsi le cose, è immagina- zione e da qui si deve obbligatoriamente partire e qui poi neces- sariamente arrivare.
Il passato di ognuno però è sempre “contemporaneo” come ricordo; il che, in quanto tale, è sempre una rappresentazione presente; l’arte della memoria, a differenza della semplice mne- motecnica, considera o, almeno, dovrebbe considerare attenta- mente la costruzione fenomenologica del ricordo dell’evento passato all’interno del presente; il rapporto che lega l’evento pas- sato alle sue conseguenze presenti e come queste influiscano nel- la ricostruzione a posteriori dell’antefatto. Mentre la “materia” dello scultore è il marmo, quella del pittore la tela e i colori a o- lio, del poeta il foglio e l’inchiostro, la materia del mnemonista è la propria immaginazione. Una materia molto instabile quindi, suscettibile di una quantità variabile (per intensità e qualità) di mutamenti improvvisi che la coscienza deve ricostruire continua- mente, rielaborare e tentare di tenere insieme in quello che risul- ta essere spesso un amalgama incoerente e quindi tendente a di- sfarsi. A ragione di ciò le “propaggini” della tecnica devono con- tinuamente esercitare la loro azione manipolatoria e impastare i- dee, illusioni, sentimenti, passioni, stati d’animo, credenze, cer- tezze e dubbi affinché la catena di Sant’Antonio della memoria possa reggere e non spezzarsi per la forte tensione prodotta da u- no dei suoi anelli. Le aspettative e i ricordi incidono la nostra co- scienza così come lo scalpello il blocco di marmo, e le une e gli al- tri lasciano i loro segni indelebili. Poi però altri sogni, altre pau- re, altri desideri, altri pensieri, altre esperienze vengono a incide- re in un senso diverso la materia stessa che così si trasforma: mo- tivazioni e giustificazioni infine pongono come strati d’intonaco le loro forme sulla lastra della mente.
Nella coltivazione della memoria non si può sublimare come nelle altre arti, perché la memoria è una materia instabile, anzi è da dimostrare ancora che abbia una sua “consistenza” o, invece, altro non sia che la disposizione delle immagini, delle rappresen-
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grado di fissare bene e nei particolari l’immagine complessiva del ricordo, e un sistema di ricostruzione dell’insieme da uno dei suoi elementi. A esser precisi poi serve anche un metodo per la scelta degli elementi da ricordare, insomma dove fare “il nodo al filo”. Ed è bene che tale scelta venga fatta con un criterio preciso e, possibilmente, che sia formalmente sempre lo stesso, soprat- tutto che resti tale nella forma logica dell’inferenza; va da sé che a ogni contesto da ricordare esso vada poi adeguato nel miglior modo possibile.
Già si è detto che l’ordine è la migliore mnemotecnica. Non e- siste infatti nessun sistema più efficace che la corretta sistemazio- ne delle conoscenze all’interno di uno schema mentale. È ciò che viene appreso a definire la forma dello schema. È, in altri termi- ni, il contenuto a definire la “figura” della forma (lo schema); ta- le forma però è sempre preesistente come memoria. Non po- tremmo neppure riconoscere un suono, un profumo, percepire u- na figura, una parola se di tali cose non possedessimo già una “forma” nella nostra memoria.
Non c’è bisogno di scomodare Platone per rendersi conto che neppure la percezione è “possibile” senza un preventivo “riconoscimento”, ovvero una qualche affinità della percezione con uno schema mentale. Gli eschimesi sanno distinguere più di trenta tipi differenti di neve e li identificano tutti con nomi di- versi, per noi la neve è la neve e basta. Un musicista professio- nista ha sicuramente “più orecchio” e in un brano musicale rie- sce a percepire “più” suoni di una persona digiuna di cultura musicale e per giunta anche stonata; non c’è bisogno di fare tanti esempi per un concetto che nessuno al giorno d’oggi può negare. Si è scoperto persino, da un’analisi dei testi omerici, che i colori stessi erano definiti (e forse, timidamente potrem- mo anche aggiungere “percepiti”) in maniera diversa da come facciamo noi. Ciò non sarebbe possibile se la nuova conoscenza (sia essa un suono, un’immagine visiva, un discorso che qualcu- no ci fa ecc.) non potesse venir inclusa in un determinato siste- ma di riferimenti semantici.
Il nuovo per poter esser riconosciuto (e quindi appreso e trat- tenuto) deve potersi adeguare (almeno in parte) al vecchio. As- sumendo su di sé il nuovo, il vecchio si trasforma in proporzione di quanto riesce ad assimilare e di quanto la diversità (l’alterità) del nuovo entra a far parte dello schema complessivo delle cono- scenze dell’individuo. L’ordine quindi deve sempre esser finaliz- zato alla sistemazione complessiva delle conoscenze dell’indivi-
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munque, indirizzano la coscienza in una determinata direzione. Bene, sempre di forze si tratta e le forze, in quanto tali, non han- no mai di per sé un senso ma vengono “incanalate” in una deter- minata direzione da qualcos’altro che le distoglie dal loro moto rettilineo uniforme. Questo “qualcos’altro” può essere, o esso stesso una forza, o la negazione di una forza. Oppure è un conte- sto che come un paesaggio ha le sue colline e le sue valli e in que- ste scorrono i fiumi che deviano il proprio corso a seconda degli ostacoli che nella loro discesa incontrano. Anch’essi, per il fatto stesso di fare opposizione, sono forze. L’ingegnere edile è tanto più bravo quanto meglio riesce a comprendere le forze e le pres- sioni a cui è sottoposto un edificio riuscendo così a calibrarle, a compensarle, a far sì che tendano all’unità della struttura invece che alla sua dissoluzione, ovvero a un repentino crollo nell’oblio. L’ordine delle immagini determina l’ordine del pensiero, esso non può venir determinato dall’arbitrio (come accade invece u- sualmente quando ci si pone a studiare una qualunque materia e ci si picca di volerla imparare nell’ordine con cui ci viene presen- tata dall’indice libro che ce la mostra); l’ordine delle immagini deve seguire necessariamente l’ordine delle cose ma queste, è gioco forza, dipendono dallo schema dei ricordi che altro non è che un ordine di immagini sedimentatosi nel tempo nella nostra mente.
Se l’ordine delle immagini non determinasse l’ordine del pen- sieri non vi sarebbe coscienza, quale che essa sia, in qualsiasi mo- do la si voglia definire e indipendentemente da qualunque status ontologico le si voglia affibbiare. Ecco, la dissociazione, l’aliena- zione potenziale insita in ogni atto sociale, in ogni prodotto tec- nologico mira a determinare l’ordine delle immagini e, così fa- cendo, minare la struttura del pensiero.
L’arte della memoria è un’arte edile e, nello specifico, una tecnica edile di ristrutturazione dei ruderi, tali infatti sono i no- stri ricordi. Normalmente non abbiamo ricordi completi, quasi sempre si tratta di pensieri frammentati, a volte basta soltanto un elemento, una lettera, una sillaba, qualcosa che ci faccia tornare alla mente la parola completa o la cosa che dovevamo ricordare. L’arte della memoria fa di questo processo naturale una tec- nica artificiale. Infatti per ricordare tanto e bene non è necessa- rio ricordare tutto: è sufficiente un appiglio, un elemento caratte- ristico ecc. tale per cui si possa ricavare il tutto di cui esso fa par- te. Ciò che è necessario possedere è un metodo di “appercezio- ne” del tutto istantaneo (e in questo Houdin ci è stato d’aiuto) in
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Costruirsi uno schema è un atto creativo e la premessa per o- gni atto veramente creativo. Non però uno schema delle cono- scenze (come fa chi ha una mentalità “a diagramma”) ma una struttura, inizialmente neutra, su cui porre le conoscenze. La creazione verrà pure dal caos ma per diventar qualcosa deve smettere di esser caos. L’ordine dello schema mentale (quale che esso sia) è la premessa alla creazione del nuovo. Ciò non significa che le invenzioni vengono fatte soltanto da persone “razionali” oppure ordinarie, anche un pazzo scatenato può partorire nuove idee, inventare qualcosa di notevole e via dicendo. Il fatto che si tratti di un folle con la testa confusa potrebbe anche non signifi- care niente dato che egli può esser completamente disorientato in tutto, meno che in riferimento a quel determinato schema mentale che gli ha permesso di pensare e/o fare qualcosa di nuo- vo e di valido.
Sempre e comunque la mente costruisce schemi (se la parola “schema” evoca fantasmi metafisici, o possa far riferimento a de- terminate scuole di pensiero non è questione che ci riguarda mini- mamente in questo momento) e pensando li modifica. L’adegua- mento delle immagini agli schemi è un’attività vitale per il pensie- ro e, con l’esercizio, deve diventar ancor di più importante e sem- pre più dobbiamo diventare consapevoli dell’importanza che ri- veste nelle mnemotecniche.
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duo. L’ordine è sempre l’ordine dello schema, ma lo schema non ha sempre lo stesso ordine: aumentando e diversificando le cono- scenze che riesce a contenere, si trasforma, si evolve o, in certi casi anche si involve e, comunque, diventa sempre qualcos’altro da quel che era, partendo sempre però da quel che è stato.
Dare un ordine alle conoscenze non è un’attività così sempli- ce come può sembrare, tanto meno un’attività meccanica. È cer- to facile sistemare le conoscenze all’interno del nostro “serba- toio” di idee; ma poi siamo sicuri che i nostri schemi, l’ordine che diamo alle nostre conoscenze sia veramente ordinato? Accade spesso che cadiamo in un piccolo grande equivoco: riteniamo che sistemare i concetti, le parole, le cose ecc. in fila oppure in uno schema – come se questo fosse un diagramma – significhi metter- le in ordine. Chi insegna e, tra chi insegna, ha l’opportunità di controllare anno dopo anno come studiano e come prendono gli appunti gli studenti (gli stessi soggetti, della stessa classe, nel pro- gredire della loro formazione) si renderà conto che questi non mutano, con l’avanzamento accademico, il loro sistema di studio. Eppure si è detto che lo schema si deve poter modificare in pro- porzione delle novità che riesce a integrare.
Lo schema deve esser dinamico, non statico. Invece l’errore in cui tutti cadono, e in cui siamo anche noi più di una volta cadu- ti è quello di riportare le conoscenze a schemi rigidi; spesso a uno schema soltanto adattato o, meglio, imposto tale e quale a tutti i contesti. Vale qui quanto sostenuto prima definendo la mentalità “giuridica” e la mentalità “diagrammatica”, eppure nel discorso presente la mente “giuridica” non dovrebbe trovare una ripeti- zione (come invece farà la mente diagrammatica nella sua rigi- dità) quanto invece una nuova applicazione, una inclusione e un arricchimento di un concetto: la mente ha un suo “schema”, tale schema segue un ordine ed esso può essere in tanti modi ma, o- gnuno di essi, si situa in un ben preciso punto nel continuum tra la completa rigidità e l’assoluta fluidità.
La perfezione non sta nel mezzo se non per caso – anche se è vero il contrario, ovvero che l’optimum (ma pure la “normalità”) non si trova mai agli estremi. La perfezione è dettata dall’ade- guamento che la mente deve (o dovrebbe) avere al contenuto delle proprie rappresentazioni e intellezioni, quindi a volte ten- dente più verso la rigidità, altre volte dovrebbe essere più flessi- bile. In tutti i casi comunque dovrebbe esser dinamico ovvero reattivo nei confronti delle nuove conoscenze e nell’adeguamen- to delle vecchie con le nuove.
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te delle aspettative; tutte le situazioni che abbiamo vissuto, quel- lo che viviamo, altro non sono che i nostri naturali teatri della memoria. Alla base ovviamente sta la natura di ognuno, essa di- pinge lo sfondo del teatro e dà coerenza alla scenografia, nel be- ne e nel male. Come non tener conto di tutto ciò se si desidera dedicarsi all’arte della memoria. Se la teoresi può emanciparsi dalla psicologia (e una vera psicologia dovrebbe sempre prescin- dere da ogni altra psicologia), l’esperienza non può non conside- rare le motivazioni generali e generiche che ci legano tutti allo stesso destino, destino che alla luce del presente “ci presenta” la catena dei pensieri e dei fatti i quali, come mattoni, il cemento del tempo unisce.
Il mnemonista deve sempre tener presente che la mente è un cerchio di illusioni, illusioni che ruotano in ogni direzione tanto che non si può dire con certezza dove sia il centro e dove la cir- conferenza, sempre senza vedere almeno un P greco utile a pren- dersi le misure. Un vortice di fantasie sono lì a tappezzare l’esi- stenza, un’esistenza senza consistenza, un’esistenza della contin- genza che si risolve soltanto in un cerchio di illusioni. Quando le cose più concrete della vita si sfilacciano nell’intricata matassa dei nostri sentimenti, quel che ne vien fuori è soltanto una infel- trita tela di pensieri, opere e omissioni, tanto per parafrasare e mettere ancor più l’accento sulla ritualità di ciò che resta di noi. A quel punto, senza più molliche di pane per capire la nostra provenienza né bussole per poter impostare una direzione verso la quale andare, iniziamo a girare disegnando un cerchio di illu- sioni intorno alla nostra coscienza o, meglio, intorno a ciò di cui siamo coscienti.
Abitudini, paure, ignavia e gli sporadici barlumi della nostra vitalità ci colpiscono come riflessi di sole nelle poche limpide giornate nell’inverno della nostra ragione; riflessi che abbaglia- no ma non riscaldano e nei rari attimi vissuti nel chiarore asetti- co, nell’aria secca e pulita della ragione, restiamo ciechi e sordi ai richiami del nostro corpo che ci avverte che la natura va da u- na parte e noi dall’altra. Riflettiamo un momento come e quan- to la rievocazione iconica entri in questo gioco di ombre, luci e riflessi delle idee. A torto spesso concludiamo che all’abbaglio conviene porre rimedio, ci si convince che è meglio bendarsi con gli scherzi della memoria e costruirsi un mondo di ricordi inven- tati sul momento o recuperati, previa opportuna manipolazione da parte della nostra cattiva coscienza, dall’archivio delle vicissi- tudini passate.
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I l c e r c h i o d e l l e i l l u s i o n i
P
ensiamo al gran teatro che ha allestito la memoria nel farci presente tutta la nostra storia personale. Perché deve esser chiaro che il nostro “passato ricordato” nel suo complesso è già un gran teatro della memoria.Tutto il nostro tempo, per come ce lo ricordiamo, è anzi sicu- ramente il più grande e articolato teatro che potremo mai co- struirci e che, quasi senza accorgercene, giorno per giorno, la me- moria naturalmente ha allestito in e per noi. Il passato ricordato però è soltanto una faccia della medaglia del nostro tempo, l’al- tra è il futuro sperato. Così è dato che il nostro tempo, che qui ben difficilmente potremmo distinguere dalla coscienza nel suo complesso, di questi due aspetti si compone: il passato ricordato e il futuro sperato. La fisionomia dell’uno muta sempre in consi- derazione dell’altro. Ma qual è – se c’è – il limite tra i due, la linea di confine? Il fatto è che ove si giunga con le nostre azioni spesso sfugge, ed anche giungere da qualche parte è forse veramente u- no scopo che una volta realizzato possa dirsi un successo? Pen- sando a quel che si è ci si accorge di non poterlo definire, si è sol- tanto il cumulo delle interpretazioni dei ricordi delle situazioni in cui, più o meno coscientemente, più o meno realmente, ci siamo trovati; e sotto ad esse il nocciolo duro del nostro carattere, il motore delle nostre decisioni, il sestante dei nostri orientamenti, il motivo per cui saremo sempre quel che da sempre siamo e sia- mo sempre stati: deboli o forti, vili o coraggiosi, onesti o truffato- ri, egoisti o magnanimi, meschini o illuminati, un po’ di questo e tanto di quello. Come ci deformiamo nell’immagine che abbia- mo di noi! Tale immagine in fin dei conti altro non è che la som- ma ponderata dei ricordi che abbiamo di ciò che ci è accaduto at- traverso il cannocchiale di come lo si è sperimentato sull’orizzon-