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teatro delle marionette – e si spinge soltanto là fin dove la bevan- da delle giustificazioni colma il bicchiere delle nostre meschinità. La tecnologia ci inganna perché è andata troppo avanti; se vo- gliamo comprendere la memoria dobbiamo tornare un po’ indie- tro, ai burattini e alle marionette, alle scenografie da circo di pae- se. Nessuno si illude mai più del necessario, eppur si illude... “ep- pur si muove”, eppur l’illusione ci muove. E quanto più una per- sona si illude tanto più ha bisogno di illusioni per poter sopravvi- vere. Cosa sarebbe di lei se venissero improvvisamente a manca- re le speranze del futuro, le illusioni su sé stessa o le falsate me- morie del passato? Se si potesse veramente vedere per quel che è? Se capisse dove effettivamente si trova? L’immaginazione e la memoria hanno una funzione compensatoria che tutti siamo na- turalmente obbligati a riconoscere loro; ma fino a che punto essa si spinge? In verità si conduce ben oltre l’immagine di noi stessi che pur ci cuciamo su misura, o della ricostruzione faziosa che e- vochiamo nei ricordi dei nostri meschini trascorsi.

Difficile trovare verità più ovvie del fatto che è la fantasia a muovere molte delle decisioni che determinano la nostra esisten- za e che questa è, in fin dei conti, un’esistenza dell’illusione. Ogni nostra decisione è la risultante dell’associazione, contrapposizio- ne e confronto tra quelli che sono i ricordi delle cose per le quali dobbiamo, appunto, prendere una decisione. Ci ricordiamo ed e- laboriamo, giustapponiamo le immagini che più ci convengono e sempre nel modo migliore affinché si adeguino alle nostre aspet- tative, alle nostre paure, alle nostre giustificazioni. La coscienza è in questo un orologio che non sbaglia mai un minuto, segna sempre l’ora giusta, ovvero quella che le conviene; passa dall’ora solare all’ora legale con estrema facilità ogni qual volta ha neces- sità che il sole sorga o, più spesso, tramonti con velocità su deter- minati pensieri, su specifiche realtà, su particolari fatti. Di tali meccanismi le mnemotecniche fanno “sapere” elevando poi la scienza ad arte, modificando di quella le finalità e adeguando a questa le modalità. In tale opera di “deviazione” sta la maggior difficoltà dell’arte della memoria, non nell’esercizio del ricordo che viene dopo e risulta essere sicuramente marginale nell’eco- nomia di questo tipo di ricerca spirituale.

Sotto l’immagine di sé, ricostruita col pennello della memoria sulla tela della ragione, fermenta un mondo semioscuro fatto di nebbie afose, di rancori umidi, di venti caldi che gonfiano senti- menti sudati e una pioggia monsonica di meschinità. Si è un po’ lì e un po’ qua e, per liberarci da questa trappola, il ricordo è spes-

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L’arte della memoria deve saper sfruttare questi meccanismi naturali, per quel che è la nostra natura corrotta, e deviarli verso fini, almeno di principio, più nobili o, comunque, meno patologici. Il problema, almeno dal punto di vista delle mnemotecniche, è che le immagini dei ricordi della nostra vita hanno sempre una “tona- lità emotiva” (come si diceva un tempo), una carica affettiva che non possiamo scindere da loro. Non si può quindi ipso facto recu- perare e replicare le dinamiche della nostra memoria storica ai fini dell’arte. La ricostruzione strumentale e altamente complessa dei nostri ricordi, della nostra vita, assume nella rievocazione i tratti di un film sentimentale (o tragicomico, dipende dagli stati d’animo del momento) con una trama ben precisa che costituisce, nostro malgrado e senza che ne siamo normalmente consapevoli, lo sche- ma mnemonico della nostra coscienza. Allorquando si intenda de- dicarci allo studio delle mnemotecniche, si deve prestare la massi- ma attenzione a non “caricare” l’immaginazione di quei contenuti cinematografici seguendo i modelli di cui la nostra società tecnolo- gizzata fornisce un’ampia gamma di esempi.

La superficie sulla quale agisce la memoria, sulla quale si di- spongono i ricordi e che il pensiero si diverte a muovere, legare, sciogliere o vincolare a suo piacimento non è il framework di un videogioco, non è l’interfaccia grafica delle nostre pulsioni e dei nostri sentimenti e neppure il film della nostra esistenza. Così av- viene perché, al contrario di quanto fin ora detto, limitandoci a un’analisi intermedia e fermandoci alla considerazione dello sche- ma semicosciente della memoria “esistenziale”, nessuno si costrui- sce quel mondo di favole che tutti pensiamo si allestiscano gli altri, e gli altri soltanto. No, ognuno di noi si crea certo un mondo di fan- tasie, fatte per la maggior parte della malta di memoria, compen- sazioni, interpretazioni illusorie, ma non è tutto lì. Al centro di questo mondo sta ovviamente un’immagine falsata di sé; certo è che a questa fonte sempre si dissetano il cane delle frustrazioni, gli uccellini dei nostri desideri, e a passi svelti arriva la contadinella dell’amor proprio a riempire con tante illusioni i grandi secchi vuoti della vanità; va da sé che dalla sorgente se ne allontana vec- chia, arranca con passo lento a portare il pesante fardello verso ca- sa. A quel punto l’acqua è già marcia, puzza ma, ancora, si deve pur concludere che la questione non si riduce soltanto a questo.

Le illusioni e la reinterpretazione posticcia che della nostra vita facciamo con la memoria non è una favola edificante con fi- nalità morali e pedagogiche o, al contrario, la fantasia gialla, ros- sa e nera del dannato che brucia all’inferno; è invece più vicina al

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ca che colmi il vuoto lasciato dal carattere e nutra con scodelle piene di illusioni e fantasie lo stomaco di una malsana vanità in- tellettuale. Insomma a tutti piace passar da intelligenti, sembrar- lo più che esserlo veramente, anzi l’essere intelligenti (aggettivo che qui significa creare immagini e associarle tra loro secondo u- na logica – che, appunto, rivela razionalità creativa e creatività razionale – ed è soltanto la logica delle associazioni a rivelare in- telligenza, mai la libera associazione delle idee e delle immagini, quella di per sé rivela soltanto stravaganza, spesso soltanto sac- cente superficialità) è un requisito marginale nell’economia della coscienza. Riducendosi a studiare quest’arte conviene allora la- sciare ai ricordi le prospettive, gli obiettivi e i rimpianti e mettere il lutto all’intelletto perché già dopo pochi esercizi ci si è già ac- corti, con piccole scosse di autocompiacimento e slanci volitivi di pseudopietà, di aver sbagliato tutto.

Perché questo alla fine soltanto l’arte della memoria mi ha in- segnato e me lo ha insegnato tanto quanto gli altri miei fallimen- ti. Si inizia ad allontanarsi dal mondo per rincorrere i propri pen- sieri, i propri teatri di pensiero. Arrivati in quel paese (stesi sul letto ad ascoltare la musica, davanti alla propria scrivania in uffi- cio, così come in fila al supermercato o dove volete) si intuisce che avremmo potuto fare a meno di essere così, di essere in ogni posto fuorché lì; eppure con l’immaginazione pur trovandoci in qualunque posto non siamo mai in un posto qualunque: siamo sempre al centro del nostro cerchio di illusioni. Se l’arte della memoria, intesa come strumento di autoelevazione, deve essere un movente della coscienza significa che abbiamo imboccato la strada sbagliata dal verso giusto, il ché lo rende un errore perfet- to. Comprendere l’arte della memoria e le mnemotecniche nel loro complesso, a mio giudizio e tenuto conto delle mie misere e- sperienze, può avere però altri due moventi, entrambi con un qualche residuo di validità. Il primo, ed anche il meno “remune- rativo” nonché il più difficile da raggiungere, è quello di diventa- re un po’ più consapevoli di sé stessi. Ciò sia ben chiaro non in senso metafisico ma, più terra terra, significa essere un po’ più presenti a sé stessi, con tutti i limiti a cui abbiamo fatto cenno nei capitoli precedenti. Il secondo è invece il cercare di comprendere leggermente meglio le dinamiche della memoria e dell’immagi- nazione; fine questo di una qualche utilità se consideriamo la no- stra società che della memoria (artificiale) e dell’immaginazione (troppo spesso soltanto artificiosa) fa i suoi punti di forza. Tutto ciò se intendiamo il termine movente in maniera molto approssi-

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so più sbarra che grimaldello. E anche questo il mnemonista de- ve tener sempre presente: come e quanto il ricordo sia serraglio (ovvero ostruisca, chiuda, obblighi ecc.) piuttosto che piede di porco (che rievochi, che liberi, che riveli, che emancipi). La forza centrifuga della fantasia, spingendo le illusioni a stamparsi sul muro del nostro orizzonte tappezzandoci così la vita, è ciò che (per contrappasso) determina il centro della nostra asfittica stan- za, un centro senza consistenza, soltanto il punto più lontano da tutte le nostre illusioni, ma pur sempre al centro di esse. La no- stra coscienza allora più che un cerchio prende la forma di una sfera di illusioni, e il nostro io è come la sorpresa dentro l’uovo di Pasqua che, a seconda di come si muove, urta contro un punto della parete di cioccolato piuttosto che contro un altro. Detto al- trimenti: si fissa su una cosa piuttosto che su un’altra. Enunciato in tutt’altro contesto significa che la coscienza non è un’entità as- soluta, non è qualcosa che esiste per sé e soltanto per sé; non è la Mente che ha conoscenza diretta soltanto delle sue idee ma, at- traverso il limite del proprio pensiero, e avendo esso limite come testimone dell’accusa, determinandosi rivela il suo peccato, ov- vero che non può sussistere da sola. È proprio attraverso ciò che non può fare, ciò che non può pensare o, più tangibilmente, ciò che non può pensare altro che come lo pensa, a costituire il più immediato – anche se non il più corretto e senz’altro non definiti- vo – motivo della non sua non assoluta libertà creativa.

È comunque vero che quando si fa della memoria un obietti- vo, del cumulo delle conoscenze un fine (indipendentemente da un loro ipotetico valore) significa che si è già stanchi a metà gior- nata lavorativa, ci si trova a considerare l’orizzonte come un tra- monto ancora da venire. Tutto ciò ben difficilmente avviene co- scientemente, nella ricerca dell’affinamento delle proprie capa- cità intellettive c’è molta vanità, come già detto, ma anche biso- gno di sicurezza e, non di rado, voglia di fuggire il commercio “sociale”, il desiderio di starsene per conto proprio con i propri pensieri. Non so dire quanto in ciò influiscano le paure e i difetti dell’anima, fatto sta che lanciarsi nell’avventura di affilare le pro- prie armi intellettuali ben difficilmente porta a tagliar meglio il pane, più spesso si finisce invece per considerare la propria vo- lontà come un sole che lascia la scena all’apatia della luna nel cie- lo degl’intenti. Non voglio cadere in descrizioni poetiche di bassa lega, per me è proprio così: spesso nella tecnica si cerca un soste- gno a una negligenza della volontà, a una mancanza di stimoli; infatti niente può esser più bello per un demotivato di una tecni-

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però, ancora e di nuovo, sarebbero soltanto osservazioni parziali, superficiali e contingenti se non si considerasse la contrapposi- zione ontologica tra memoria e oblio, e ditemi allora cos’è in de- finitiva l’oblio? La vita però è anche movimento, la morte è la stasi assoluta (o movimento apparente, movimento “da fuori”), e se là dove c’è movimento, in un modo o nell’altro, c’è pure vita allora anche la memoria dovrà esser sempre un pensiero in movi- mento; la tecnica deve certo insegnare a “fissare” i ricordi nella coscienza ma non a rendere i pensieri “fissi”. La tecnica prima di ogni altra cosa quindi deve insegnarci il limite tra stabilità e fissa- zione, tra ritenzione del contenuto a immobilità del ricordo, tra i- dea ferma e pensiero immobile.

La vita è una gabbia fatta di illusioni che l’intrappolato ha co- struito intorno a sé nel tentativo di fuggire l’esca (sé stesso e la pro- pria dissoluzione) per poi giustificarsi dicendo: «ohh, sono caduto in trappola cercando me stesso e ho trovato soltanto un’immagi- ne». La nostra immagine di cartapesta, la figura di chi non pesta la propria vanità, la tela del mondo che si dipinge in continuazione da sola davanti a noi e che noi modifichiamo nei colori e nelle for- me. Scarsi pittori: daltonici in primavera, miopi d’estate, astigmati- ci d’autunno e senza il senso della prospettiva d’inverno.

L’arte della memoria proprio perché delegata a legare luoghi anche molto distanti tra loro odia il nomadismo; quando è sve- glia e vaga in cerca di un luogo con il sacco pieno di cose da met- terci dentro in verità – e a rigor di termini – non vaga ma si “o- rienta”, si dispone su un percorso creato dalla coscienza e da quest’ultima seguito. La tecnica però deve poi, all’imbrunire, portare la coscienza a dormire a casa, lasciarla riposare al sicuro, al caldo e l’indomani, al risveglio, donargli prima perplessità e poi fermezza ma, se possibile, lasciarla assopita. Perché l’arte della memoria richiede tanto sonno: frase fatta e frase vecchia ma da dimostrare ancora che sia falsa: la memoria richiede tanto riposo... della memoria. Nel sonno i pensieri si depositano sul fondo del mare della coscienza per poi tornare a galla sotto for- ma di immagini, visioni, sogni. Per la psicanalisi il sogno è una reazione alla vita diurna, all’attività cosciente. Per il mnemonista di lungo corso è tutt’altro: è la reazione all’oblio che la coscienza non può permettersi, neppure nel sonno, di veder trionfante pe- na la sua dissoluzione. Le imagines agentes dell’arte hanno molti aspetti in comune con i sogni tanto che, dal nostro punto di vista, potremmo anche definire questi ultimi come sequenze oniriche di imagines agentes.

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mativa, e quindi sbagliata, come motivazione verso un obiettivo, come «ciò che tira avanti». Se invece consideriamo il movente in un senso più classico (metafisico) come «ciò che spinge da die- tro» allora ci accorgiamo veramente di essere come le palle di cannone di Spinoza che credono di andare là dove vogliono e non si accorgono di esser state sparate nell’esistenza dal cannone del destino. Il vero movente della memoria è lo stato d’animo. E lo stato d’animo è tante cose e una nello stesso tempo.

Lo stato d’animo – che sempre accompagna i ricordi, quelli ve- ri non più dei vivi, quelli vivi non più dei finti e infine i finti che so- no sempre i più vivi di tutti; i proponimenti seri un po’ meno dei desideri cattivi, quelli ciechi molto più di quelli sordi – fa per un attimo luce su qualcosa e poi ombra su tutto. E in questo l’eserci- zio della fotografia mentale delle immagini esposto prima rappre- senta una metafora istantanea della vita. Lo stato d’animo è l’u- nità di misura della memoria, tanto più uno stato d’animo concen- tra su una paura la coscienza tanto più la memoria si irrigidisce e il pensiero si fissa. La paura acceca la memoria e la morte l’annien- ta. La paura è il vero motore del pensiero là dove essa non si sfo- ghi nel semplice istinto animale; essa è l’unità di misura dello sta- to d’animo. Anche questo va tenuto nel dovuto conto qualora si intendano imparare le mnemotecniche. La memoria è comunque il negativo fotografico, la “verità opposta” della nostra realtà ed è su questi stessi meccanismi che si regge il gioco della nostra me- moria e che tanto più ci avviciniamo alla nostra verità, tanto più le nostre paure si fanno presenti, tanto ineludibili quanto ineluttabi- li esse si avvicinano alla nostra precarietà, quanto più questa vie- ne percepita e tanto più la memoria viene deformata.

La memoria è così prossima alla morte da rappresentarne la negazione, la memoria è vita, ma la vita, soprattutto quella del- l’ente che da sempre noi siamo, direbbe Heidegger, si riduce spes- so alla sola paura della morte che, in termini cognitivi, altro non è che l’impossibilità della rappresentazione. L’arte della memoria è quindi l’arte della paura della morte vissuta con il ricordo. Pensa- te soltanto al fatto che da piccoli vi hanno fatto imparare le pre- ghiere a memoria, che le mnemotecniche sono state codificate da Simonide dopo uno spettacolo di morte, che sulle mnemotecni- che si reggevano i processi nell’antica Roma, processi che soven- te si concludevano con un’esecuzione capitale. Pensate soprat- tutto alla via crucis e come viene rappresentata nelle chiese cat- toliche di tutto il mondo: una serie di immagini che rappresenta- no le tappe di Cristo verso l’appuntamento con la morte. Queste

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Se si vogliono studiare le tecniche della memoria come non considerare tutto questo, tale strada ha per me un valore incom- parabilmente superiore che non il fissarsi sui giochi di prestigio mnemonici. Vi sono professionisti della memoria che fanno delle mnemotecniche il loro pane quotidiano, per loro è giocoforza pubblicizzare la loro tecnica e possono farlo soltanto esibendo le proprie doti; tali personaggi hanno un fine nobilissimo per esibir- si: fare soldi. Ciò non di meno, al di là dell’esibizione, credo che anche molti di loro pratichino l’arte ma l’arte, essendo una tecni- ca di mutamento degli stati di coscienza, è facilitata dalla solitu- dine e, se il termine non fosse stato troppo abusato, mi verrebbe voglia di aggiungere anche “meditazione”. L’arte, proprio per- ché arte, rifugge il “baraccone”, almeno deve tentare di rifuggire l’attrattiva da baraccone. Poi quel che deve essere sarà, se feno- meni da baraccone dobbiamo essere, così sia. Ciò non di meno l’esercizio, l’esercizio mnemonico è essenziale e da esso non si può prescindere. La memoria comunque è naturale riluttanza al- l’oblio, sua spontanea negazione; tanto nel ricordarsi le parole in un gioco di prestigio intellettuale, quanto nei pensieri più impor- tanti e più intimi della nostra esistenza, chiaro deve essere il con- cetto che contro l’oblio stiamo lavorando. È ovvio che alla fine perderemo noi, che abbiamo già perso in partenza. L’arte della memoria per definirsi tale deve necessariamente percorrere un’altra strada che non quella della lotta coi mulini a vento, es- sendo però coscienti che la memoria in sé stessa verso i mulini a vento, per suo intimo moto, ci spinge.

Se quella della memoria fosse solo una tecnica tutti questi di- scorsi non avrebbero senso alcuno ma, chiedo umilmente, qual- cuno fra voi ha forse imparato la tecnica di ricordare da piccolo? Se la memoria richiede una tecnica, perché tutti ricordano le co- se per loro importanti senza bisogni di alcun sussidio? Anche il più sprovveduto riconoscerà nella memoria qualcosa di talmente intimo alla sua natura di essere pensante che ben difficilmente potrà scindere le due cose: essere pensante ed essere “rimugi- nante”. Evito di proposito tutte le citazioni, analisi critiche e pseudo-riflessioni su Platone, la metempsicosi e compagnia can- tando, riportate qui saprebbero soltanto di citazioni intellettua- loidi delle quali facciamo tutti volentieri a meno. Per contro è in- dubbio che l’arte anche in questo frangente imiti e – a differenza di tanti altri casi – migliori la natura (e di molto). La memoria, sia ben chiaro, sta fra la percezione e l’assenza di percezione, tra la vita e la morte. Tutto il resto è letteratura.

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on cerchiamo quindi nell’arte della memoria “direttamente”

il perfezionamento di noi stessi, lo ripetiamo dall’inizio e c’è più di una ragione per farlo. Anche in questo caso si verificano spesso dinamiche viziose: si cerca di andare lontano da sé stessi, ma verso cosa? Verso il mondo, che ancora pensiamo come qual- cosa di scisso da noi, come se noi non fossimo già e da sempre il mondo. Si cerca qualcosa su cui concentrarsi: il lavoro, il sesso, la politica, gli affari, l’alcol, lo sport o quel che capita (quasi sempre