Il fondamento di un nuovo approccio regolatorio alla materia dell’attivismo, nella prospettiva finora delineata nel lavoro, è duplice.
Il primo fondamento sta nel fatto, già abbondantemente approfondito, che scarse sono le possibilità di autotutela del beneficiario ultimo della gestione, a fronte della presenza di una investment chain articolata ed al cui interno anche, probabilmente, l’asset owner “professionale” come quello individuato nella nuova direttiva soffre di un difetto di conoscenza e abilità nei confronti del gestore. La presenza di asimmetrie informative e di vari “strati” nella investment chain renderanno il beneficiario ultimo scarsamente informato, mentre i costi di un’azione giudiziale e la scarsità di strumenti di voice lo rende, anche ove volesse agire, privo di difese.640 In questo caso, si rende necessario un intervento esterno “correttivo” rispetto alla libera contrattazione delle parti, volto a meglio definire i doveri dei gestori e monitorare il relativo adempimento. Non è in questo caso in discussione la legittimità del perseguimento di obiettivi di breve periodo, quanto la rispondenza di tali obiettivi agli effettivi interessi dei beneficiari; allo stesso tempo, non si pone in discussione che i piani di breve periodo possano avere carattere positivo,641 ma, alla luce delle ricostruzioni effettuate, si ritiene che le politiche di lungo periodo siano adottate dagli investitori in una quantità subottimale rispetto a quanto corrisponderebbe effettivamente agli interessi dei loro clienti, 642 a causa di bias comportamentali e di incentivi distorti.643 È questa, d’altronde, la prospettiva adottata dal legislatore europeo (si veda il considerando 2 della direttiva sull’impegno di lungo periodo degli azionisti). Quella che si è finora delineata non è una prospettiva in cui si “combatte” lo short-termism, ma una prospettiva che cerca di coglierne il buono obbligando gli investitori istituzionali ad assumere una prospettiva
639 N. C. HOWSON, When 'Good' Corporate Governance Makes 'Bad' (Financial) Firms: The Global Crisis and the Limits of Private Law, in Mich. L. Rev., vol. 108 (2009), cit. p. 44.
640 Supra, cap. II, para. 3.2.
641 M.GIANNETTI –X.YU, Adapting to Radical Change: The Benefits of Short-Horizon Investors, in papers.ssrn.com, 2017; K. J. HOPT, Corporate Governance in Europe: A Critical Review, p. 26. Viceversa, d’altro canto, v’è chi ha dimostrato che anche favorire gli azionisti di lungo periodo possa comportare politiche che distruggono piuttosto che creare valore per la società, cfr. J. M. FRIED, The
uneasy case for favoring long-term shareholders, cit.
642 Il tema, già affrontato supra, cap. II, para. 3, è quello degli investitori istituzionali di lungo periodo
che aderiscono in modo assai discutibile a campagne degli hedge funds orientate ad una massimizzazione del valore azionario sul breve periodo ma potenzialmente dannose sul lungo periodo. In questo caso, si ritiene che il fondo che per caratteristiche ha un orientamento al lungo termine non stia adeguatamente tutelando gli interessi dei suoi clienti, ed in tema L. E. STRINE, Who bleeds when
the wolves bite?, cit.
643 Sullo short-termism nel prezzare i titoli nei mercati finanziari A. G. HALDANE, The short long, in www.bankofengland.co.uk, 2011, che conclude affermando “There is statistically significant evidence of short-termism in the pricing of companies’ equities. This is true across all industrial sectors. Moreover, there is evidence of short-termism having increased over the recent past. Myopia is mounting. Second, estimates of short-termism are economically as well as statistically significant”.
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conforme a quella dei beneficiari, quindi costringendo quelli impegnati sul lungo periodo ad “alzare la voce”,644 definire delle strategie chiare e conformarsi ad esse nel valutare la condotta degli hedge funds e di altri fondi orientati al breve periodo. D’altro canto, come detto, il monitoraggio, la partecipazione alla governance degli emittenti, l’attivismo, non sono volti esclusivamente alla soddisfazione di un interesse privato alla massimizzazione del rendimento (di lungo o di breve periodo, illuminato o meno), ma tendono ad essere attratti in una sfera “pubblica” in quanto aventi lo scopo di tutelare il corretto funzionamento dei mercati finanziari, il buon andamento degli emittenti e del sistema economico, la sostenibilità dei sistemi previdenziali e della
governance delle società. Strutturalmente, la tutela di un simile interesse non può
essere affidata a soggetti privati, o meglio, non può essere affidata loro incondizionatamente, dato che potrebbero non condividere questi intenti (razionalmente o meno) e, comunque, non avere le capacità di perseguirli. Dato che non va sopravvalutato, specie alla luce della lettura “negativa” e riduzionista che si è data di questo “interesse pubblico”, ma che merita comunque una qualche considerazione. In effetti, la strategia normativa che si andrà delineando ha come effetto quello di far percolare l’interesse pubblico ad un long-termism nelle strategie di investimento e nell’engagement, simmetricamente al fatto che taluni indici di questi elementi sono presenti, nella lettura che si è data, nell’impostazione legislativa attuale. La natura indefinita di tali concetti, d’altro canto, induce a ritenere che sia nella dialettica tra Autorità regolatorie, best practices e gestori che può manifestarsi questo orientamento all’interesse pubblico, e non certo in rules rigidamente vincolanti. La conseguenza di quanto detto, dunque, è, inevitabilmente, quella della necessità di lasciare almeno in parte gli approdi sicuri della disciplina attuale, basata su soft law e
disclosure, per cercare di delineare un approccio più incisivo e, potrebbe dirsi,
invasivo, fondato su un cambio di paradigma secondo il quale l’attivismo, più che una risorsa, si configura come una responsabilità. Il tutto in un’ottica, fondamentalmente,
de iure condendo, ma potendo fondare in parte il nuovo approccio che si va delineando
sulla base del contenuto della nuova direttiva, giocoforza terreno ancora vergine e per questo aperto all’opera dell’interprete.
Si tratta d’altro canto di un approccio già noto ad un ordinamento che si trovi a fronteggiare la presenza di condotte di soggetti che, operando sul mercato, generano esternalità negative e non tutelano adeguatamente la posizione dei soggetti che si trovano a contrattare con essi. Si pensi, ad esempio, alla normativa in tema di pratiche commerciali scorrette e, più un generale, di tutela del consumatore. In quel caso, ci si trova dinanzi ad una posizione di debolezza del consumatore e alla necessità di tutelare il mercato e la concorrenza, il che legittima l’attribuzione di un ruolo all’AGCM nell’enforcement delle norme predisposte dal legislatore ed invalicabili dall’autonomia contrattuale.
644 L. E. STRINE, Securing our Nation’s economic future, cit., p. 18, afferma che “Even worse, the voice of the most rational investor — those who invest in index funds and patiently save for retirement — is the quietest in the tumultuous American corporate governance debate”.
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Insomma, si ritiene che sarebbero necessarie regole più definite, allo scopo sia di correggere gli incentivi per gli azionisti istituzionali che di orientarli nell’esercizio della loro libertà di definire le strategie di investimento. Si possono altresì individuare alcuni piani su cui immaginare un intervento che valga a limitare l’autonomia dei gestori nell’articolare le stesse scelte di investimento e di partecipazione alla
governance degli emittenti, ponendo dunque dei limiti e dei vincoli all’autonomia
contrattuale delle parti nel definire il regolamento del fondo.645 D’altronde, ciò già avviene per quanto riguarda le politiche di investimento, in relazione alle quali, a seconda del tipo di fondo prescelto, si definiscono dei vincoli alle tipologie di beni in cui è possibile investire.
Ora, definiti i presupposti di queste tipologie di interventi, va compreso in base a quali criteri essi debbano essere articolati.
Essi devono prendere innanzitutto in considerazione l’esigenza di differenziare le varie tipi di fondi gestiti, e dunque di beneficiari dell’attività, proprio perché è centrale articolare le regole di condotta in base ai doveri fiduciari incombenti sul gestore, fatto salvo il denominatore comune della tutela “del mercato” che impone delle regole di condotta minime; in secondo luogo, le regole possono essere introdotte in modo più o meno vincolante, e la vincolatività corrisponde anch’essa ai vari livelli di impegno esigibili dal gestore e ai vari livelli di “orientabilità” di tale impegno.
I canali per raggiungere gli obiettivi delineati sono diversi.
Si può delineare un tentativo di risolvere a monte le questioni aperte in termini di effetti sul mercato delle condotte degli investitori istituzionali attraverso un approccio di
contract governance, che si considera un mezzo ideale laddove si voglia coordinare la
condotta dei vari soggetti nella investment chain in una determinata direzione, ed al fine di affrontare problematiche derivanti dal sommarsi di più contratti in un network o in una “chain” e dei loro effetti in termini sistemici e di mercato.646
Ancora, si potrà intervenire sulle regole prudenziali riguardanti le pratiche di investimento, nonostante tali regole abbiano obiettivi differenti ed il loro uso per aumentare l’engagement debba essere attentamente esaminato. In realtà, risulta opportuno ricordare come la divergenza tra regole prudenziali e regole che promuovono l’attivismo sia, in fin dei conti, meno netta di quanto si possa ritenere, dato che, come visto nel secondo capitolo, l’attivismo risulta (anche) uno strumento utile ad una più efficace gestione del rischio ed all’adempimento dei doveri fiduciari che il gestore ha nei confronti dei clienti. Da questo punto di vista, allora, la definizione dei doveri fiduciari svolta in precedenza serve a legittimare un più articolato intervento regolamentare che innesti nel complesso corpus normativo in tema di gestione del risparmio anche norme volte a condurre ad un più efficace uso dei diritti sociali. Il
645 I. CHIU, Institutional investors as stewards, cit. p. 405, afferma che “’stewardship’ does not accept the natural tendency of short-termism as an investment tenet, and thus introduces limitations to the contractarian freedom enjoyed by institutional shareholders in determining how best to deal with their investments”.
646 F.MÖSLEIN, Contract Governance within Corporate Governance, in S.GRUNDMANN –F.MÖSLEIN
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legame tra strategie d’investimento orientate al lungo periodo (in quanto legate ai doveri fiduciari verso i clienti) e relative engagement policies esplicita sul piano concreto il dovere di diligente gestione gravante sui gestori con riguardo all’esercizio dei diritti sociali.
Al contempo, non solo può pensarsi di irrigidire le regole, ma anche di intervenire sull’approccio “comply or explain”, cercando di rendere dunque le regole più incisive rispetto alla condotta dei gestori.
Le due direttrici normative prescelte sono dunque quelle dell’“infiltrazione” delle pratiche di investimento con regole volte a incentivare un attivismo responsabile e quella di un irrigidimento dell’approccio regolatorio di soft law, come si vedrà nei seguenti paragrafi.
Tale costruzione – fondata su un rafforzamento dei meccanismi e degli incentivi di mercato – ha però dei limiti e delle eccezioni.
Si è già detto che non risulta opportuno affidare agli investitori istituzionali la cura degli interessi di stakeholders altri. Ciò può essere utile come base di partenza per rilevare come difficilmente possa legittimarsi una regolazione “stretta” dei comportamenti degli azionisti sulla base di una diversa teoria della corporation: in quest’area, inevitabilmente, non può comprimersi l’autonomia privata degli azionisti (anche se, come si vedrà, v’è qualche, forse discutibile, eccezione), che restino liberi di perseguire i propri interessi.647
Proprio in ragione di ciò, nell’ordinaria attività degli investitori istituzionali di partecipazione alla governance degli emittenti, l’ordinamento, si deve ritenere, può suggerire, orientare, incentivare tramite meccanismi premiali, mentre solo a determinate condizioni prescrivere e sanzionare. È questo il luogo della stewardship. Si può tuttavia affermare, su questo punto, che tanto più forte è la possibilità di individuare dei connotati specifici della singola tipologia di fondo, tanta più rilevanza assume il ruolo dell’ordinamento nell’incoraggiare e nel guidare la sua condotta e i relativi presupposti. In sostanza, tanto più i doveri fiduciari assumono un connotato specifico perché la gestione è orientata ad orizzonti temporali e fini specifici, tanto più l’autorità pubblica può farsi carico di una verifica più attenta della condotta dei gestori. Si transita così in un’area in cui il comportamento degli investitori istituzionali è maggiormente “guidabile” e, di conseguenza, in taluni casi, si possono anche configurare dei vincoli sulle strategie adottate dagli investitori istituzionali ed una conseguente sanzionabilità degli stessi.
Altro è invece guardare a comportamenti “estremi”, fuori da quest’area di grigio. È questa l’area in cui l’ordinamento può più facilmente prescrivere e sanzionare, anche a tutela di quel nucleo dell’interesse pubblico, precedentemente individuato,648 che deve essere perseguito.
647 E ciò allo stesso modo in cui gli altri stakeholders possono perseguire i propri. Che questi ultimi
vadano dotati di maggiori poteri è questione diversa e poco rilevante in questa sede.
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Guardando in un’altra ottica le conclusioni cui così si giunge, la situazione cui si arriva adottando un approccio “evolutivo” e “pubblicistico” allo shareholder activism è un’“impasse” in cui l’assunzione di una prospettiva naturalmente contrattualista (l’attribuzione di potere ai soci, per quanto di minoranza, e l’incentivo ad esercitare i loro diritti) contrasta con uno scopo “istituzionalista” (la tutela degli altri
stakeholders).649 È evidente come da questo conflitto intrinseco non possano derivare regole nette, se non individuando un terzo polo di riferimento, che è quello di una rafforzata tutela del mercato (potremmo dire, della sua “integrità”) e degli emittenti: non tanto la promozione di valori, dunque, quanto, ancora una volta, il contrasto di errori, rischi, abusi, derivanti da condotte puramente speculative, è l’elemento giustificativo di regole più cogenti; di converso, il premio si riserva a chi adotta comportamenti non eticamente giustificati, ma economicamente auspicabili in un’ottica di sistema, e così anche l’orientamento del soggetto pubblico può essere utile a incoraggiare o incentivare gli stessi comportamenti.
Il risultato è allora l’articolazione un framework fondato su un continuum regolamentare: a un estremo si situa la sanzione o, di converso, l’imposizione di determinate condotte a tutela di un interesse pubblico o dei beneficiari dell’attività gestoria in quanto soggetti deboli, ad un altro la predisposizione di strumenti premiali per i gestori particolarmente responsabili; in mezzo tra “stick” e “carrot”, una serie di regole (più definite rispetto a quelle attualmente adottate negli strumenti di soft law) attinenti a profili organizzativi e di strategia di investimento che possono essere strutturate o come prerequisito per l’attribuzione del premio o come disposizioni in base alle quali indicare una best practice per indirizzare il comportamento degli investitori istituzionali e, eventualmente, imporre loro l’adozione di determinate misure.