La portata storica e periodizzante della Riforma sanitaria non è sfuggita alle ricostruzioni storiografiche successive. Quanti si sono cimentati in sintesi di storia dell’Italia repubblicana, godendo del punto di vista privilegiato dato dal tempo trascorso e dalla possibilità di effettuare bilanci di lungo periodo, hanno unanimemente sottolineato l’importanza della legge, che segnà un passo ulteriore verso il compimento del welfare universalistico, nonché un rinnovamento istituzionale rispetto a un sistema previdenziale impostato durante il ventennio fascista, rivelatosi nel corso dei decenni in tutta la sua inadeguatezza. D’altro canto tali sintesi, malgrado la formulazione di diversi e finanche divergenti cornici interpretative, le une volte cogliere il passaggio tra anni Settanta e anni Ottanta nei termini di «crisi», «frana», «occasione perduta», le altre più attente a evidenziare le continuità oltre alle rotture630, sono
sostanzialmente concordi nel contrapporre i contenuti programmatici della legge e la successiva incapacità istituzionale di garantirne una efficace applicazione. Nel ‘92 Silvio Lanaro nella sua «Storia dell’Italia repubblicana» dipingeva la fine del decennio Settanta all’interno di un quadro a tinte fosche, dominato dal corporativismo del ceto politico e da una società civile chiusa e priva di istanze di rinnovamento. In quel contesto, scriveva Lanaro, i buoni propositi che avevano informato la legge 833 naufragarono in un cattivo funzionamento delle Usl, «il cui controllo viene ceduto ai comuni che subito provvedono a popolare di uomini di partito e a utilizzarne i fondi in maniera perlomeno impropria»631. Una valutazione
analoga fu effettuata da Crainz, che scrisse la sua storia d’Italia repubblicana attraverso volumi successivi pubblicati dal ‘96 al 2009. Nel testo, significativamente intitolato «Il paese mancato», Crainz descrisse un’Italia degli anni Ottanta guidata da un ceto politico impreparato e corrotto, in cui l’esaurirsi della spinta partecipativa dei movimenti sociali aveva
629 D. Alhaique, Il Centro ricerche e documentazione dei rischi e danni da lavoro, cit.
630 Per un riflessione sull’avvicendarsi di differenti chiavi interpretative si veda: Alberto De Bernardi, Un paese
in bilico. L’Italia degli ultimi trent’anni, Roma, Bari, Laterza, 2014, p. 65 e ss.
631 Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana: l’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra
lasciato spazio all’emergere del «riflusso individualistico». Il suo giudizio negativo circa l’applicazione della riforma sanitaria si inseriva in una più ampia critica delle modalità di funzionamento delle Regioni, all’interno delle quali i potenziali spazi di autonomia ed esercizio di democrazia furono dominati da logiche clientelari e partitiche. Veicolando un’espressione già utilizzata da Flores e Gallerano, Crainz ha parlato di «clonazione partitica della democrazia» prodottasi tanto nei comitati di quartiere e negli organismi di gestione scolastici, quanto nelle Usl «nei luoghi cioè in cui era destinata a infrangersi – non a inverarsi – quell’ansia di partecipazione che era stato il portato più riconoscibile e profondo del 68- 69»632. Un bilancio simile è stato effettuato in tempi più recenti anche da Alberto DeBernardi,
all’interno di una sintesi che adotta una periodizzazione speculare rispetto a quelle di Lanaro e Crainz, a partire dal 1979 sino alla fine del primo decennio degli anni 2000. Pur mostrandosi critico rispetto alle categorie utilizzate da quanti lo hanno preceduto e nei confronti di «un approccio etico-politico, nel quale spesso si cambiano per fallimenti del paese gli insuccessi di convinzioni ideologiche di fronte alle prove della storia», De Bernardi ha ugualmente individuato nella lottizzazione partitica dei possibili spazi di partecipazione e nella moltiplicazione di costose burocrazie le principali cause del fallimento della riforma633.
Anche tra gli storici del lavoro e del movimento sindacale che si sono occupati di ricostruire l’esperienza conflittuale in materia di tutela della salute dei lavoratori è prevalso un approccio piuttosto teso a mettere in luce gli elementi di crisi e di rottura che caratterizzarono la fine del decennio. È stato in primo luogo posto l’accento sulla crisi economica tipica del periodo, e sulla conseguente erosione di spazi di iniziativa per il sindacato. Il mutato scenario politico-economico nazionale e internazionale, e il contemporaneo farsi strada della «stanchezza o l’insoddisfazione di alcuni protagonisti di fabbrica» in parte conseguente a «l’onerosità degli interventi da condurre secondo la meticolosa metodologia ufficiale» avrebbero portato a una perdita di centralità dell’iniziativa sindacale, almeno nei termini e secondo le pratiche che l’avevano strutturata sino ad allora634. Inoltre è stata sottolineata la
progressiva inadeguatezza del «modello operaio per la tutela degli ambienti di lavoro» rispetto al mutare delle culture politiche del paese e la sua incapacità di creare ponti e alleanze con altri movimenti allora emergenti, quale il movimento femminista e quello ambientalista635. È
quest’ultimo un punto problematico. Il parziale stato degli studi che riguarda tanto la storia del
632 G. Crainz, Il paese mancato, op.cit., pp. 419-424. 633 Alberto De Bernardi, Un paese in bilico. op. cit
634 Franco Carnevale, Pietro Causarano, La salute non si vende (e neppure si regala), in Pietro Causarano, Luigi Falossi, Paolo Giovannini (a cura di), Il 1969 e dintorni: Analisi, riflessioni e giudizi a quarant’anni
dall’‘Autunno Caldo’, Roma, Ediesse, 2010.
femminismo sindacale italiano, quanto quella del pensiero e della conflittualità ambientalista non permette di formulare affermazioni nette, ma solo di avanzare alcune riflessioni e possibili ipotesi di ricerca. L’andamento di alcune importanti vertenze mostra come la specificità del corpo femminile e delle patologie ad esso correlata sia stata allora presa in considerazione in diversi contesti. Si citi ad esempio l’esperienza condotta presso il reparto vernici della Fiat Mirafiori, che costituì un modello rivendicativo virtuoso per la Flm torinese e in particolare per il Centro di lotta contro la nocività, tanto da dare origine a una pubblicazione, nel 1976, ad opera della casa editrice Einaudi636. Tale pubblicazione era
corredata da un ampio numero di «mappe di nocività», dove era sistematicamente segnalata la presenza o l’assenza femminile in concomitanza dei diversi punti dello stabilimento e di conseguenza la specificità delle possibili patologie. A questo si aggiunga che uno spoglio sistematico della rivista «Medicina dei lavoratori» mostra come a partire dalla seconda metà del decennio la pubblicazione di articoli volti a dare notizia di studi epidemiologici e/o mobilitazioni sindacali riguardo la difesa della salute della donna – in particolare relativamente a patologie della funzione riproduttiva – fossero sempre più frequenti637. Come
già notato nel secondo capitolo la nuova centralità assunta dalle donne come nuove protagoniste dell’azione politica e sindacale influì in maniera significativa anche sull’iconografia operaia. L’analisi delle successive edizioni della dispensa L’ambiente di
lavoro, dal 1969 in poi, mostra come la rappresentazione dell’operaio si evolva nel corso del
tempo. La raffigurazione di un lavoratore esclusivamente uomo, stilizzato nei sui tratti e privato di una bocca, quindi di un’espressione, lascia lentamente spazio alla comparsa di immagini femminili accanto a quelle maschili, e più in generale a quella di volti più realistici e umanizzati.
Questi dati, se comparati con la letteratura esistente, portano a supporre che i punti di contatto tra la rivendicazione sulla salute e quella delle donne nel sindacato fossero molteplici. L'analisi delle fonti a stampa e della storiografia più recente suggerisce infatti che le prime aggregazioni femminili all'interno del sindacati, comparse anzitutto nei metalmeccanici a partire dal biennio ‘74-’75, abbiano individuato nella questione sanitaria uno dei temi di intervento principali. La particolare attenzione accordata dal movimento neofemminista alla centralità politica del corpo – oggetto di oppressione e strumento di liberazione – ha fatto si che i nascenti circoli di donne nel sindacato, intrinsecamente legati al contestuale emergere
636 Alfredo Milanaccio, Luca Ricolfi, Lotte operaie e ambiente di lavoro. Mirafiori, 1968-1974, Torino, Einaudi, 1976.
637 Si rimanda in particolare a «Medicina dei lavoratori», anno IV, n. 1-2, gennaio aprile 1977, che contiene numerosi interventi dedicati alla salute della donna.
del neofemminismo, abbiano individuato nella tematica sanitaria e preventiva il principale tema di intervento638. Benché sia certamente vero che il «modello operaio per l’ambiente di
lavoro» nel momento in cui venne elaborato, ovvero nella seconda metà degli anni Sessanta, non abbia tenuto in considerazione la specificità di genere, i dati sin qui riportati fanno piuttosto intravedere una sua capacità di aprirsi all’emergere delle nuove istanze provenienti dal movimento femminista. Si aggiunga che il forte accento posto nel primo caso sul ruolo dell’esperienza operaia e sul rifiuto della delega nella conduzione delle indagini sanitarie e ambientali da condurre nella fabbrica e nel secondo caso sulla soggettività femminile sembra costituire un importante terreno di incontro tra le due istanze politico-sindacali, almeno a livello teorico.
Per quanto concerne l’emergere del movimento ambientalista, risalente alla seconda metà del decennio Settanta, molti studiosi hanno individuato nel «disastro di Seveso» un evento spartiacque tanto rispetto alle mobilitazioni per l’ambiente di lavoro, quanto nei confronti della risposta istituzionale alla nocività industriale. Come noto, il 10 luglio 1976 presso lo stabilimento chimico Icmesa situato a Meda lo scoppio di un reattore provocò la fuoriuscita di una nube di diossina, gas tossico che avvelenò gli abitanti della zona e contaminò i territori circostanti. Le molte ricostruzioni di quella vicenda, sia quelle contestuali ai fatti accaduti, quanto quelle più recenti, hanno messo in luce la profonda inadeguatezza delle istituzioni locali e nazionali di fronte all’emergenza ambientale e sanitaria, nonché l’incapacità dei sindacati e delle organizzazioni ambientaliste di creare alleanze tra i lavoratori dello stabilimento e gli abitanti del luogo639. Le reazioni di quanti erano stati evacuati dalle loro
abitazioni furono differenti, polarizzate tra l’enfatizzazione e la minimizzazione dell’accaduto. La fabbrica e i lavoratori furono additati da più parti come responsabili dell’accaduto – secondo un copione che si sarebbe ripetuto nel corso dei decenni successivi – ritenuti colpevoli di avere conosciuto e taciuto i rischi esistenti640. A pochi mesi di distanza accadeva
un incidente analogo a Manfredonia in provincia di Foggia, dove l’esplosione di un impianto presso lo stabilimento chimico Anic provocò la fuoriuscita di una nube di arsenico, che andò a depositarsi sul territorio circostante. L’episodio causò danni minori rispetto a quelli del
638 Flora Bocchio, Antonia Torchi, L’acqua in gabbia. Voci di donne dentro il sindacato, Milano, La Salamandra, 1979; Maria Luisa Righi, Lucia Motti, Simona Lunadei (a cura di), È brava, ma...: donne nella
Cgil 1944-1962, Roma, Ediesse, 1999; Anna Frisone, Quando le lavoratrici si ripresero la cultura: femminismo sindacale e corsi 150 ore delle donne a Reggio Emilia, Bologna, Socialmente, 2014.
639 Laura Conti, Visto da Seveso: l’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Milano, Feltrinelli, 1977. Tra le ricostruzioni esistenti quella di Bruno Ziglioli rimane la più accurata, fondata sulla consultazione di fonti inedite e in particolare dei documenti della Commissione parlamentare di inchiesta nata in seguito all’incidente: La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale, Milano, Franco Angeli, 2010. 640 B. Ziglioli, La mina vagante, op.cit., p.45 e ss.; S. Neri Serneri, Incorporare la natura, op. cit. pp. 281-283.
disastro di Seveso, suscitando meno attenzione mediatica. Anche in questo caso tuttavia i sindacati locali mostrarono di non essere all’altezza della situazione, incapaci di costruire linee rivendicative adeguate e di creare alleanze tra quanti esposti al rischio industriale, lavoratori dello stabilimento e abitanti delle zone limitrofe641.
Quello della continuità della rivendicazione tra ambiente interno ed esterno alla fabbrica è certamente un nodo problematico importante, che non si è mancato di mettere in luce nel corso dei capitoli precedenti. Pur confermando l’analisi di quanti hanno sottolineato le difficoltà dell’attività sindacale di tutela degli ambienti di lavoro di creare alleanze nei confronti di iniziative di conservazione delle risorse naturali dall’inquinamento industriale, sembra opportuno sottolineare come in merito a tale questione sia esistito un notevole scarto tra l’elaborazione teorica e le pratiche rivendicative messe in atto. L’istituzione di centri di medicina preventiva al di fuori degli stabilimenti coincideva di fatto con la volontà di garantire un servizio sanitario integrato, tale da porre fine alla separazione tra medicina civile e medicina del lavoro allora esistenti e prendere in considerazione allo stesso tempo gli agenti patogeni esterni ed interni alla fabbrica. L’attività svolta dagli Smal costituì un esempio virtuoso in questo senso, sfociando a più riprese nella richiesta di messa in sicurezza degli impianti rispetto agli scarichi liquidi e alle emissioni gassose. Si tratta certamente di un’esperienza limitata a un preciso contesto geografico, e forse favorita dalla precoce emergenza di nuclei di ecologia politica in area milanese642. Diversamente in ambito torinese
la presenza carismatica di Ivar Oddone, e il peculiare interesse nutrito dallo studioso per i disturbi di tipo psicosomatico, portò a un elevato numero di vertenze significative in materia di contrattazione dei ritmi di lavoro, lasciando in secondo piano il problema di tutela delle risorse naturali. Quello di Porto Marghera è un caso ancora differente, in cui il simultaneo emergere della questione ambientale e di quella sanitaria, entrambe legate all’esistenza del petrolchimico e di rilevanza tale da guadagnare l’attenzione nazionale, non portò tuttavia alla nascita di un fronte comune.
D’altra parte, malgrado l’esistenza di esperienze differenti e irriducibili le une alle altre, la riforma sanitaria del '78 sancì la continuità tra la tutela dell’ambiente interno ed esterno agli stabilimenti, recependo l’impostazione che – almeno a livello teorico – era stata sino ad allora sostenuta dal sindacato. Alle Unità sanitarie locali venivano infatti attribuite competenze in materia di prevenzione di malattie e infortuni professionali e allo stesso tempo il compito di
641 Stefania Barca, Pane e veleno. Storie di ambientalismo operaio in Italia, in Zapruder, n. 24, gennaio-aprile 2011, pp. 100-107.
tutela dell’igiene ambientale. «Per la tutela della salute dei lavoratori e la salvaguardia dell’ambiente le unità sanitarie locali organizzano propri servizi di igiene ambientale e di medicina del lavoro anche prevedendo, ove essi non esistano, presidi all’interno delle unità produttive» recitava la legge, che più in generale attribuiva al Ssn il compito di identificare ed eliminare «le cause degli inquinamenti dell’atmosfera, delle acque e del suolo»643. Certamente
le già citate problematiche che caratterizzarono la fase di attuazione della legge ipotecarono il funzionamento delle Usl anche da questo punto di vista. A questo si aggiunga che nel 1993, in seguito a un referendum abrogativo, le competenze ambientali delle Usl vennero infine abrogate in favore dell’istituzione delle Agenzie regionali per la protezione ambientale (Arpa), che sancivano il ritorno alla separazione istituzionale tra tutela delle risorse naturali e prevenzione sanitaria.