Filo conduttore dei racconti e delle testimonianze di quanti lavorarono nel petrolchimico di Marghera nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento è la descrizione di un ambiente di lavoro intrinsecamente nocivo, dotato di rudimentali misure preventive per la sicurezza dei lavoratori e caratterizzato da un'ininterrotta situazione emergenziale. Italo Sbrogiò, impiegato nella Sicedison dagli anni Cinquanta e successivamente operaio all’interno della Montedison, introduceva con queste parole la sua autobiografia, pubblicata a molti anni di distanza dai fatti narrati:
Purtroppo non eravamo possessori di una cultura né di un addestramento sufficienti a condurre un complesso petrolchimico. Non esisteva una scuola per capi o operai, non esistevano manuali di reparto che comunque pochi avrebbero capito; si dovette imparare nella pratica501.
Nel petrolchimico erano impiegati dei tecnici, periti chimici addetti ai laboratori, ma altresì un numero elevato di operai, privi di una formazione specifica rispetto al lavoro da svolgere e pertanto non pienamente consapevoli della pericolosità delle sostanze ivi utilizzate, o delle misure di sicurezza da adottare nel corso di specifiche lavorazioni. «Imparare nella pratica» spesso significava imparare dagli infortuni da cui erano colpiti i colleghi di lavoro. Sbrogiò racconta ad esempio di un incidente mortale che colpì alcuni lavoratori, addetti alla pulitura dei saturatori del reparto di produzione del cloro. Si trattava di grosse cisterne in cui
500 Domenico D’agostino, Venezia: 40mila in piazza San Marco per il lavoro e per lo sviluppo della città, in «l’Unità», 22/2/1973, p.4.
501 Italo Sbrogiò, La fiaba di una città industriale: 1953-1993. 40 anni di lotte, Venezia, Edizioni el squero, 2016, p.13.
un operaio, dotato di un getto ad aria compressa con cui diluire le esalazioni di cloro, veniva calato attraverso una corda. Una volta, per errore, la seconda estremità del tubo di cui era dotato l’operaio fu collegata a un serbatoio di azoto, che provocò la morte immediata dell’operaio all’interno del serbatoio. L’utilizzo di un’imbracatura irregolare – notò a posteriori Sbrogiò – impedì agli operai che stavano fuori di estrarre dal saturatore il corpo del collega svenuto. Era inoltre irregolare la carenza di una segnalazione sulle valvole e la mancanza di ventilatori per arieggiare il serbatoio502.
Le testimonianze operaie contestuali ai fatti studiati, risalenti al decennio Settanta, non sono dissimili. Significativa è la produzione letteraria di Ferruccio Brugnaro, poeta-operaio e militante tra le fila della Cisl503. Nella sua raccolta di poesie e pensieri pubblicata nel 1976, dal
titolo Dobbiamo volere, l’associazione dei luoghi di fabbrica a immagini di morte è ricorrente. Il primo racconto, dal titolo Il medico di fabbrica, coincide con una denuncia della periodica vista aziendale come di una ritualità vuota, il cui unico scopo era sminuire i disturbi lamentati dai lavoratori al fine di non creare «malumore e disordine in fabbrica»504. Immagini analoghe
erano evocate dal componimento Voglio dire io ora, che metteva in versi la contraddizione tra l’esterno e l’interno della fabbrica, e la mistificazione delle gravi condizioni sanitarie esistenti negli stabilimenti.
La fabbrica oggi si presenta/lucida, pulita./Rose tutto intono la palazzina/della direzione./Rettangoli d’erba ai vai ingressi./Vicino ai cancelli/qualche pezzo di siepe/qualche alberello./ Questo è tutto ciò che si vede/ma non è la fabbrica, i reparti/è tutto ciò che sta sopra./Voglio dire io ora/quello che è segreto, che sta nascosto/che nessuno dice./Voglio dire io ora ciò/che nessun cuore/nessuna pietà/raggiunge mai./Qualcuno di noi ogni giorno viene condotto via /in silenzio/con le membra che non reggono più./Ogni giorno in grande silenzio/ qualcuno di noi/si trova/con i polmoni bucati/il cuore rotto./Morti miei compagni ogni giorno/senza rumore, senza dolore/in grande solitudine/in grande abbandono se ne vanno per sempre.
Il tono di sconforto con cui si chiude questa poesia in altri casi lasciava spazio a moniti di lotta, a incitamenti all’azione. Le poesie e i racconti di Brugnaro nascevano infatti come ciclostilati distribuiti agli operai al di fuori dei cancelli di fabbrica e, nelle intenzioni dell’autore, avevano in primo luogo una funzione politica505.
502 Ivi pp. 14-16.
503 A partire dalla seconda metà degli anni Novanta l’opera di Brugnaro (che fu operaio Montefibre e militante sindacale tra le fila della Federchimici-Cisl) iniziò ad essere apprezzata all’estero e conobbe numerose traduzioni. La versione in inglese di alcune sue raccolte fu curata da Jack Hirshman. Le poesie di Brugnaro furono inoltre tradotte in francese e in inglese.
504 Ferruccio Brugnaro,Il medico di fabbrica, in Dobbiamo volere: racconti, poesie, pensieri, Verona, Bertani, 1976, pp. 57-70.
Nel petrolchimico la precarietà delle condizioni igienico sanitarie e la pericolosità degli impianti non erano tipiche solo dei reparti più obsoleti, ma anche di quelli di recente costruzione. Emblematico il caso dell’impianto di TDI, entrato in funzione nel luglio 1971, dedicato alla produzione e allo stoccaggio di fosgene. La prevenzione di eventuali fughe di gas durante la lavorazione era affida allo «sniff-test», ovvero alla percezione olfattiva dei lavoratori. I rifiuti industriali prodotti dallo stesso reparto erano depositati in una zona accanto alla stabilimento, dove i lavoratori mangiavano e si cambiavano gli indumenti506. Il fosgene,
che nel petrolchimico era impiegato per la produzione di resine, era stato ampiamente utilizzato come arma chimica della Grande Guerra. Per molto tempo questo aspetto alimentò la similitudine tra morti bianche e morti in combattimento e tra i luogo di lavoro e il campo di battaglia507.
La rappresentazione della fabbrica come luogo intrinsecamente nocivo confliggeva con l’immagine contestualmente promossa dall’azienda. Per quanto concerne gli infortuni e le malattie del lavoro la strategia adottata della Montedison coincideva con l’organizzazione di campagne antinfortunistiche, volte ad attribuire alla responsabilità individuale del lavoratore, e alla sua stretta osservanza del regolamento di fabbrica, la migliore forma di prevenzione. Erano indetti dei concorsi che prevedevano la premiazione dei reparti o dei gruppi di reparti caratterizzati da una diminuzione percentuale di infortuni rispetto a un periodo di tempo precedente. Erano inoltre allestite delle mostre e affissi dei manifesti che recitavano slogan sulla sicurezza o ribadivano norme preventive508. La Montedison d’altra parte promuoveva
l’immagine di un’impresa solerte anche rispetto alla salvaguardia dell’ambiente naturale, attenta quindi alla tutela sanitaria di quanti risiedevano nelle vicinanze dello stabilimento. Agli albori degli anni Settanta, quando, come si è visto, il dibattito sulla preservazione dell’ecosistema lagunare toccava il suo acme, la Montedison pubblicò un articolo sulla rivista «Ecologia» in cui ammetteva la corresponsabilità dello sviluppo industriale nell’inquinamento lagunare, notando tuttavia come nel momento in cui gli impianti esistenti erano stati progettati le conoscenze scientifiche non erano sufficienti per prevedere e prevenire il danno ambientale. Veniva quindi sollecitata la fiducia in un ulteriore sviluppo tecnologico, tale da portare
506 Gianni Moriani, Nocivita in fabbrica e nel territorio, Verona, Bertani, 1974, pp. 143-158; Gilda Zazzara, Il
petrolchimico, Padova, Il poligrafo, 2009,pp. 43-55.
507 G. Moriani,Nocivita in fabbrica e nel territorio, op.cit., pp. 148-158; A lavoro come in guerra, in «La salute», n. 11, anno 18973, p. 69. Stessa immagine sarebbe stata utilizzata da Maccacaro per riferirsi al disastro di Seveso, intitolando la copertina di «Sapere», n. 796, novembre 1976 a : Seveso, un crimine di
pace.
508 Campagna antinfortunistica. Unità di Marghera (1/4/1968-31/7/1968), in Istituto veneziano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (Iveser), f. Filcea, b. 18, ff.1.
all’introduzione di depuratori delle emissioni liquide e gassose, e più in generale all’ideazione di processi produttivi capaci di diminuire l’impatto ambientale dell’industria509.
Dal controllo operaio dell’ambiente di lavoro al rifiuto del lavoro
La storiografia ha messo in luce come anche nel contesto veneziano il biennio 1968-1969 abbia segnato un punto di rottura riguardo la conflittualità operaia in materia di nocività industriale. Il «rifiuto di monetizzare la salute» fu all’origine della nascita e della diffusione di numerose esperienze rivendicative. Sia gli studi storici che la memorialistica hanno inoltre sottolineato come tale biennio, nel caso di Marghera e in particolare in quello del petrolchimico, sia stato caratterizzato dalla nascita di coordinamenti operai autonomi rispetto alle sigle sindacali nazionali e legati a formazioni locali della sinistra extraparlamentare, capaci di riscuotere consenso tra i lavoratori e di garantire una continuità di azione al di là del biennio stesso510. Si tratta di un aspetto peculiare rispetto al contesto nazionale – dove scarsa
fu la capacità dei gruppi extra-sindacali di ottenere ampio e duraturo consenso in fabbrica – su cui è importante soffermarsi. Il rifiuto delle gravi condizioni sanitarie esistenti in fabbrica fu declinato dalla federazione Cgil-Cisl-Uil e dalla sinistra extraparlamentare attraverso slogan e pratiche differenti, costituendo uno dei principali nodi di scontro tra le due organizzazioni.
Tale divergenza emerse per la prima volta nell’aprile 1967 e coincise con la firma di un accordo aziendale tra la Sicedison e i sindacati Cisl e Uil attraverso il quale veniva ratificata l’eliminazione dell’indennità di nocività all’interno di alcuni reparti dell’azienda. La Filcea locale, federazione di categoria della Cgil, si astenne dalla firma del contratto, senza tuttavia formulare una proposta rivendicativa alternativa511. Tale posizione non stupisce rispetto al
contesto nazionale. Come si è visto, prima dell’autunno caldo una strutturata azione in materia di tutela degli ambienti di lavoro era tipica solo di realtà circoscritte, quali la V lega Fiom di Torino e il gruppo promotore dalla nascita del Crd presso l’Inca di Roma. L’accordo Sicedison avveniva inoltre due anni prima del congresso della Cgil di Livorno del giugno ‘69, quando per la prima volta la questione dell’ambiente di lavoro fu oggetto di dibattito a livello
509 Guidobaldo Cevidalli, Luigi Benedetti, L’industria per un miglioramento dell’ambiente, in «Ecologia», n. 2, anno I, novembre 1971. Cedivalli e Benedetti erano allora dirigenti Montedison.
510 Cesco Chinello, Sindacato, PCI, movimenti negli anni Sessanta: Porto Marghera-Venezia, 1955-1970, Milano, Franco Angeli, 1996; G. Zazzara, op.cit.; Gianni Sbrogiò, Devi Sacchetto (a cura di), Quando il
potere é operaio. Autonomia e soggettività politica a porto Marghera (1960-1980), Roma, Manifestolibri,
2009.
confederale512. A Marghera l’unica ferma condanna della posizione sindacale sulla nocività,
unita al monito di rifiutare il «supersfruttamento» imposto dall’azienda, fu mossa dal Comitato operaio di Porto Marghera, costituitosi lo stesso anno e formato da lavoratori aderenti al Potere Operaio veneziano513. A livello nazionale il gruppo di Po era nato nel corso
del decennio Sessanta sulla scia dell’esperienza dei «Quaderni Rossi» per opera di alcuni militanti riunitosi prima attorno al progetto promosso da Panzieri e successivamente partecipe della breve vicenda politico-editoriale del periodico «La Classe»514. Il gruppo veneziano di
Potere Operaio riuscì a ottenere un forte radicamento all’interno di Porto Marghera e del petrolchimico, imponendosi come quarta forza sindacale nel corso delle proteste operaie del ‘68515. Il Comitato operaio adottò una posizione fortemente critica nei confronti delle
organizzazioni partitiche e sindacali esistenti, e in particolare di Pci e Cgil, con cui si creò una repentina e drastica rottura, destinata ad acuirsi nel corso del tempo. Al 1966 risale l’espulsione dal Pci di un lavoratore della Vetrococke, accusato di essere vicino ai gruppi della sinistra extraparlamentare. Ulteriori espulsioni risalgono al ‘69, quando la Cgil allontanò quanti tra i suoi membri si erano avvicinati alle posizioni di Po, muovendo dure critiche rispetto alla linea sindacale. Importante notare come molti degli espulsi del ‘69, destinati a diventare esponenti di spicco del Comitato operaio, erano impiegati all’interno del petrolchimico, che divenne così un forte centro di insediamento della nuova formazione politico-sindacale. Si citi in primo luogo Italo Sbrogiò, operaio Sicedison (poi Montedison) a partire dal ‘55, che all’epoca dell’espulsione era altresì membro del consiglio comunale tra le fila del Pci. A confluire in Po furono anche Augusto Finzi e Adriano Tenderini, entrambi tecnici di laboratorio all’interno della Montedison e figure politiche carismatiche nello stabilimento516.
Negli anni successivi la critica mossa da Po nei confronti dei sindacati esistenti fu indirizzata contro tradizionali pratiche e contenuti rivendicativi, e il tema della nocività industriale fu declinato all’interno di una proposta politico sindacale che individuava nella
512 Cfr. capitolo 2.
513 Il gruppo di Potere operaio ebbe i suoi centri principali rispettivamente a Pisa, e lungo l’asse veneto- emiliano: Angelo Ventrone, Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-
1988, Milano, Mondolibri, 2012, Sulla posizione del Comitato Operaio in materia di nocività si veda: Potere
Operaio, Per la ripresa della lotta alla Edison (volantino ciclostilato), in Centro di documentazione di storia locale di Marghera, (CDM), f. Augusto Finzi (AF), serie 1.1.6, b. 2.
514 Fabio Milana, Mario Tronti, Giuseppe Trotta (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta: da Quaderni
rossi a Classe operaia, Roma, DeriveApprodi, 2008.
515 Nella sua ricostruzione e analisi del «mirabile» ‘68 veneziano, Chinello nota addirittura come il potere contrattuale esercitato da Po in quel periodo «all’interno delle fabbriche Montedison di Marghera (era) nettamente superiore a quello del sindacato», in C. Chinello, Sindacato, PCI, movimenti negli anni
Sessanta, vol. 2, p. 609.
riduzione dell’orario di lavoro e nell’egualitarismo salariale i suoi perni principali. In questo senso gli scioperi per il rinnovo del premio di produzione al petrolchimico, avvenuti nell’estate 1968, sono stati individuati tanto dalla memorialistica quanto dalla storiografia come un momento decisivo, durante il quale Po, in virtù del consenso riscosso tra i lavoratori, riuscì a influenzare l’andamento delle trattative aziendali. Al grido di «5000 lire uguali per tutti» venne allora reclamato un aumento salariale indipendente dalla qualifica di appartenenza di ogni lavoratore e dall’andamento dei profitti dell’azienda. Benché tali richieste non abbiano trovato riscontro in sede contrattuale, l’importanza di tale mobilitazione è stata individuata nel rinnovamento della tradizionale agenda rivendicativa, che in materia retributiva rimaneva legata a una divisione del lavoro strutturata dalla categoria e dalla qualifica di appartenenza517. Per quanto riguarda la nocività industriale la linea sostenuta dal
Comitato operaio corrispondeva alla richiesta di riduzione dell’orario di lavoro, dietro la convinzione che l’unico modo per tutelare l’integrità fisica degli operai fosse diminuire il più possibile la loro esposizione alle insalubri condizioni lavorative. Tale posizione fu consolidata nel tempo anche in contrapposizione alla strategia sindacale contestualmente adottata in sede di contrattazione nazionale e articolata. «Non abbiamo bisogno delle commissioni paritetiche perché il fatto sia riconosciuto: discorsi, esperienze già vissute, imbrogli belli e buoni, per guadagnare tempo da parte del padrone», recitava un volantino di Po del novembre ‘68, in riferimento all’istituzione di comitati antinfortunistici sancita nel corso degli anni precedenti dal contratto nazionale dei metalmeccanici e da quello dei chimici518. Le richieste avanzate da
Po vertevano sull’istituzione di un’indennità di nocività per tutti i lavoratori di Porto Marghera, sulla riduzione dell’orario lavorativo settimanale e sull’equiparazione dell’assistenza malattie tra operai e impiegati. La possibilità di contrattare modifiche impiantistiche per ottenere migliori condizioni di lavoro, sostenuta prima dalla Cgil e poi dal sindacato unitario, era fortemente criticata:
Dicono i padroni: per eliminare la nocività bisognerebbe spendere miliardi, tanti miliardi che andrebbero a pesare sull’economia nazionale. Dicono i sindacati: per eliminare la nocività bisogna discutere reparto per reparto i mezzi da adottare, bisogna formare delle commissioni di operai e di dirigenti dell’azienda per valutare il livello di nocività reparto per reparto […] Dicono gli operai: per ridurre la nocività bisogna stare il minor tempo possibile in fabbrica,
517 C. Chinello, Sindacato, PCI, movimenti negli anni Sessanta, vol. 2. Per una più ampia riflessione sulla linea dell’egualitarismo salariale all’interno del lungo autunno caldo si veda A. Accornero, La parabola del
sindacato, op. cit.
starsene ben pagati e lontani dalle fabbriche, come fanno i padroni che d’inverno vanno a sciare e d’estate fanno a fare le crociere.519
Tale posizione fu in seguito ribadita anche di fronte ad accordi aziendali contestualmente individuati dalla federazione Cgil-Cisl-Uil come conquiste avanzate in materia di controllo sindacale delle condizioni di lavoro in fabbrica, tali da ratificare la linea rivendicativa emersa dalla Conferenza di Rimini su «Fabbrica e salute» del 1972520. Significativo è ad esempio il
caso della Sirma, azienda nata a Marghera nel 1934 e destinata alla produzione di materiali refrattari, allora considerata leader nazionale nel settore521. La piattaforma rivendicativa stilata
nel corso del 1972-73 aveva l’obiettivo di ratificare e implementare un’attività conoscitiva promossa dalle rappresentanze sindacali, volta a mettere in luce i principali rischi sanitari presenti nello stabilimento. Tra le richieste avanzate era annoverato il diritto dei lavoratori di stabilire se nei reparti esistevano le condizioni ambientali per lavorare, la possibilità di avvalersi di centri di medicina esterni alla fabbrica per svolgere indagini sanitarie, l’elenco sostanze nocive utilizzate nei cicli di produzione, installazione di dispositivi di allarme e l’introduzione di libretti e registri ambientali – come già previsto dal contratto di categoria522.
Tale piattaforma fu commentata con parole di totale sfiducia dai membri del Comitato operaio – che nel frattempo aveva mutato denominazione in Comitato politico di Porto Marghera. In un volantino distribuito dal Comitato stesso al di fuori dei cancelli della Sirma, si leggeva: «Sappiamo bene che non sarà qualche ventilatore in più a cambiare le condizioni di lavoro. Sappiamo che la fabbrica stessa è nociva e che il lavoro che facciamo dentro di essa ci rovina la salute giorno in giorno»523. O ancora, di fronte alla richiesta sindacale di spostare di reparto
i lavoratori affetti da silicosi – il 21%, secondo le indagini sanitarie promosse dal sindacato stesso – Potere operaio scriveva: «l’unica cura contro la silicosi è non prenderla»524.
Simili commenti esprimevano un sentimento che era in qualche modo diffuso anche tra i lavoratori di Marghera. Nel 1973, in un’intervista riportata sulla rivista «La Salute», che faceva capo alla Cgil regionale, un membro del Consiglio di fabbrica della Sirma formulava
519 Ciclostilato firmato dal Comitato operaio di Porto Marghera, 11/12/1969, in CDM, f. AF, serie 1.1.6, b. 2. Più in generale su questa questioni si rimanda all’intera serie 1.1 del fondo Finzi.
520 CGIL-CISL-UIL, Fabbrica e salute, op. cit.
521 Nel 1970 la Sirma (Società italiana refrattari Marghera azionaria) copriva circa il 40% della produzione italiana di materiale refrattario. Oltre allo stabilimento di Marghera, era costituita da due unità minori, rispettivamente a Vado Ligure e a Santo Stefano magra: Domato dai refrattari il calore più tremendo, in «Corriere della Sera», 28/11/1970, p. 26.
522 Consiglio di fabbrica Sirma. Bozza di piattaforma, in «La Salute», n. 11, anno 1973, pp. 35-36.
523 Volantino ciclostilato dal Comitato politico operaio di porto Marghera (s.d.), in CDM, f. AF, serie 1.1.6, b. 2
un bilancio della strategia rivendicativa della federazione sindacale in materia di ambiente di lavoro, notando da una parte come le numerose indagini sanitarie svolte negli ultimi anni avessero avuto il merito di sensibilizzare i lavoratori in materia di rischio industriale, ma rilevando allo stesso tempo che nella maggior parte dei casi tali visite mediche diagnosticavano l’esistenza malattie in stato avanzato, rispetto alle quali ogni intervento preventivo sarebbe risultato tardivo525.
Tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973 il Comitato operaio divenne Assemblea autonoma di Porto Marghera: la nuova denominazione segnava la presa di distanza dal gruppo di Potere operaio, con cui i rapporti si erano nel frattempo allentati, fino ad essersi ridotti al mero «invio di pezzi di informazione per il giornale»526. Come noto, di poco successivo fu lo scioglimento
di Potere operaio stesso, in seguito alle divergenze tra Oreste Scalzone, Franco Piperno e Antonio Negri, che di tale formazione politica erano stati sino ad allora principali esponenti527.
L’Assemblea autonoma di Marghera si dotò di una rivista, «Lavoro Zero», pubblicata a partire dal 1973. Al suo interno la questione della nocività industriale continuò ad essere uno dei principali temi trattati, in particolar modo in riferimento al grave danno sanitario e ambientale