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U NA FANCIULLA INVISIBILE

III. LE NUOVE SFUMATURE DEI PERSONAGGI FEMMINIL

III.1 L’ EVOLUZIONE DELLA FANCIULLA

III.1.1 U NA FANCIULLA INVISIBILE

In determinate commedie, ho riscontrato una corrispondenza tra la fanciulla romana e quella moderna poiché entrambe non si presentano quasi mai in scena: di loro si parla, per loro i giovani innamorati fanno pazzie, da loro spesso le commedie prendono nome, ma le protagoniste non si mostrano quasi mai. Difatti, alla fine della lettura ci rendiamo conto che l’intera commedia si svolge intorno ad una fanciulla che gli spettatori non hanno mai visto e

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non vedranno mai ed è possibile conoscere il suo stato d’animo solo grazie alle informazioni suggerite dalla fantesca oppure dal giovane innamorato.

Per quanto concerne le trame classiche, lo studioso Vincenzo De Amicis163, giustifica tale scelta perché in linea con le consuetudini e i costumi della società romana, in cui le fanciulle libere conducono un modo di vivere asociale e riservato, non partecipando attivamente alla vita pubblica; mentre, per quelle cinquecentesche, l’unica spiegazione avanzata dal critico consiste in una fedele imitazione del tipo classico da parte dei commediografi moderni:

«Presso i Romani ciò avea le sue ragioni nelle condizioni di quella società; ma negli italiani che altra ragione ci è mai, se non l’imitazione latina?»

Del resto, è proprio questo il secolo in cui la donna comincia ad avere maggior libertà di pensiero ed azione, ha un ruolo centrale nella società, a tal punto da essere lodata non solo come madre e moglie ma anche come poetessa e letterata164. Perciò in queste mutate

condizioni sociali, l’assenza della donna dalle scene comiche è un fatto strano e degno di attenzione.

Lo studioso Fortunato Rizzi165 avanza ulteriori argomenti per motivare tale stranezza, tra cui la mancanza assoluta di attrici, tant’è vero che in questo secolo le parti femminili vengono interpretate da ragazzi travestiti o meglio, per usare le parole di Rizzi, «da mattacchioni che dilettano il popolo con farse e buffonerie e oscenità a mo’ de’ mimi latini». Tommaso Garzoni166, contemporaneo del commediografo Giovanni Maria Cecchi descrive così gli attori comici: «ne gli atti sono più che asini, ne’ gesti più che ruffianatissimi a spada tratta, nelle parole sfacciati come le meretrici pubbliche, nelle inventioni furfantissimi a tutta botta».

Dunque, se prendiamo in considerazione la suddetta tipologia di attori e le volgarità che talvolta inscenano, possiamo dedurre che per salvare l’onestà o anche solo l’apparenza dell’onestà e del pudore, le donne sono costrette a tenersi lontane dalle scene. Di conseguenza, non essendoci attrici donne, gli autori evitano d’introdurre parti femminili nella propria favola.

163 V. DE AMICIS, “L’imitazione latina nella commedia italiana”, p.124. 164 Si vedano Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara. 165 F. RIZZI, “Le commedie osservate di Giovanni Maria Cecchi”, pp. 226-227. 166 T. GARZONI, “La piazza universale di tutte le professioni del mondo”, 1585

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Non a caso, in quest’epoca, il rapporto fra donna e teatro è quasi sempre oggetto di disapprovazione e condanna a causa di un filo rosso che lega donna, finzione e corruzione; Bernadette Majorana167 afferma quanto, secondo l’opinione comune, la mimesi gestuale rappresenti lo specchio della vanità e dell’ipocrisia connaturata al genere femminile. In tal modo la recitazione offrirebbe alle femmine uno stimolo ad accentuare le loro naturali attitudini alla menzogna e al mettersi in mostra.

A tal proposito, ne “Il Viluppo” di Girolamo Parabosco, la massara Corona dialogando con la giovane Sofonisba dichiara:

[…] perché credi tu che le Donne vadino volentieri a le feste, se non per essere vedute? E similmente alle Commedie? Per altro non ci vanno volentieri; elle hanno per un gran dispetto, che coloro che ce le invitano, le facciano volger la schiena al popolo; quanto piacere credi tu ch’eglino le fariano, mettendole in loco alto, dove elle potessero vedere ognuno, e da ognuno esser vedute […].

(Il Viluppo, Atto Primo, scena I)

Tramite il discorso della massara, capiamo che, secondo Parabosco, l’utilizzo di belletti e la partecipazione delle donne a feste e commedie si spiega con una caratteristica insita nella loro natura: la voglia di mettersi in mostra, di essere guardate e ‘vagheggiate’.

Per tanto i numerosi pregiudizi cinquecenteschi circa la natura muliebre condizionano il genere femminile anche nel mondo teatrale, pericoloso per la donna in quanto non farebbe altro che indurla ad assumere atteggiamenti viziosi, non conformi al codice comportamentale elaborato dai trattatisti del tempo.

Anche le opere teoriche sulla composizione delle commedie ribadiscono il divieto per le fanciulle di mostrarsi sul palcoscenico, proprio come afferma Girarldi Cinzio nel suo “Discorso ovvero lettera […] intorno al comporre delle commedie e delle tragedie a Giulio

Ponzoni”168:

167 B. MAIORANA, “Finzioni, imitazioni, azioni: donne a teatro” in “Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV

al XVII secolo studi e testi a stampa” a cura di Gabriella Zarri, edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1966,

sezione seconda, pp. 138-139.

168 G. G. CINTIO, “Discorso ovvero lettera di Giambattista Girarldi Cintio intorno al comporre delle commedie

89 «Serva[…] la comedia una certa religione che mai giovane vergine, o

polzella non viene a ragionare in iscena, e per contrario nelle scene tragiche vi s’introducono lodevolmente. E ciò m’estimo io che sia perché la scena comica, per lo più è lasciva, e in essa, intervengono ruffiani, meretrici, parassiti e altre simili qualità di persone di lasciva e di disonesta vita; e però non pare che convenga al decoro di una giovane vergine, venire a favellare in tale scena, e tra queste persone».

Dati i personaggi e la materia lasciva rappresentata dal genere comico non è opportuno, per il decoro della giovane vergine, partecipare alle azioni e ai dialoghi delle commedie.

Niccolò Machiavelli nel prologo della “Clizia”169 dichiara:

«Questa favola si chiama Clizia, perché così ha nome la fanciulla che si combatte. Non aspettate di vederla perché Sofronia che l’ha allevata non vuole per onestà che la venga fuora. Pertanto, se ci fussi alcuno che la vagheggiassi, arà pazienza».

(Clizia, Prologo)

Infatti nonostante Clizia sia la protagonista centrale della favola di cui s’innamorano il vecchio Nicomaco e il giovane Cleandro, non la vediamo mai in azione.

Anche Giovanni Maria Cecchi chiude l’ultima scena della “Stiava” rivolgendo tale frase agli spettatori:

«la fanciulla, non vi essendo lasciata veder oggi che la era stiava, molto meno vorrà che voi la veggiate ora che l’è padrona».

(Stiava, Atto quinto, scena XII)

Adelfia all’inizio della commedia seppur sia semplicemente una schiava non si presenta al pubblico e, a maggior ragione, non lo farà al termine della commedia quando, in seguito alle nozze con il giovane Alfonso, diventa una signora.

E’ chiaro dunque che presentare sulle scene una ragazza è considerato un abbassamento della sua dignità muliebre.

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Da uno sguardo generale, ho notato che vi sono ulteriori testi comici in cui la protagonista, sebbene sia assente dalle scene, conferisce il nome all’intera favola: “L’Ammalata” di Giovanni Maria Cecchi, “la Sibilla”170 e “la Spiritata”171 di Anton

Francesco Grazzini, “la Flora”172 di Luigi Alamanni e “L’Emilia” di Luigi Groto173.

Quello dell’Ammalata e della Spiritata, è un titolo che potremmo definire ‘parlante’ in quanto fa riferimento allo stato di salute simulato dalle protagoniste per superare gli ostacoli che le impediscono di sposare il proprio amato. Nella prima commedia difatti, la giovane Laura si finge malata pur di non sposare Teodoro ma è principalmente il suo amante, Fortunio, a rivelare l’astuzia organizzata dalla stessa. Il personaggio principale della

Spiritata è invece Maddalena, colei che si finge posseduta da uno spirito per convolare a

nozze con l'amato Giulio; tuttavia non la vediamo mai in scena ed è la serva Lucia che fa da prudente messaggera a Giulio.

Al contrario, l’invisibile fanciulla della “Sibilla” è vittima passiva del padre adottivo Michelozzo che intende farle sposare il vecchio Giansimone, piuttosto che darla in sposa al figlio Alessandro, perdutamente innamorato di lei.

Infine, le ultime due commedie sopra elencate, devono il proprio titolo alle schiave di cui rispettivamente Attilio e Polipo s’innamorano a tal punto da volerle acquistare; le trame hanno però un finale diverso poiché se Attilio sposa Flora, Polipo ritrova in Emilia una sorella.

Del resto i motivi comici di queste commedie derivano in gran parte dalle trame plautine- terenziane da cui gli autori moderni traggono ispirazione; secondo lo studio di Giovanni Gentile, Anton Francesco Grazzini ne “La Spiritata” rielabora con intenzione d’originalità due motivi comici ripresi dalla “Mostellaria” e dall’ “Aulularia” di Plauto, ovvero il tema degli spiriti e quello del vecchio avaro derubato del proprio tesoro, di cui due giovani si servono per sposarsi. Il tipo della fanciulla, nella prima trama classica, non è incluso tra i personaggi perché l’adulescens Filolachete s’innamora di una cortigiana; mentre nell’Aulularia la fanciulla Fedria, oggetto di tutta la commedia, non appare mai in scena proprio come Maddalena.

170 A. GRAZZINI, “La Sibilla comedia di Anton Francesco Grazini”, Accademico fiorentino, detto il Lasca, Venezia, appresso Bernardo Giunti, e fratelli, 1582.

171 A. GRAZZINI, “La Spiritata, comedia di Anton Francesco Grazini”, Accademico fiorentino, detto il Lasca, Venezia, appresso Bernrnardo Giunti, e fratelli, 1582.

172 L. ALAMANNI, “La floria comedia del signor Luigi Alamanni”, Firenze, stamperia di Michelagnolo Smertelli, 1601.

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Gentile dichiara che anche “la Sibilla” si avvicina a più commedie plautine per il motivo che accomuna il “Trinummus”, il “Poenulus” e la “Cistellaria” ovvero, un padre che sopraggiunge a ricercare un figlio smarrito e, dopo esser stato prima raggirato, finisce con l’essere riconosciuto per quello che veramente è, divenendo fautore di un matrimonio che, innanzi alla sua venuta, era avversato da insuperabili difficoltà. Qui il tipo della fanciulla appare solo nel Poenulus dove il giovane Agorastocle è innamorato di Adelfasia, una giovane ragazza tenuta schiava di un lenone; al contrario, se nella Cistellaria l’oggetto del desiderio è una cortigiana, nel Trinummus la sorella di Lesbonico, protagonista della commedia tanto quanto la Sibilla di Grazzini, non si mostra mai in scena.

Infine, sebbene l’Emilia di Groto, come osserva Iraneo Sanesi174, riproduca la trama dell’Epidicus di Plauto, per quanto concerne il tipo della fanciulla, la commedia moderna non coincide con quella latina poiché in quest’ultima la ragazza riconosciuta come sorella del giovane adulescens, Acropolistide, appare nell’ultimo atto; questo è un fatto insolito perché Groto rappresenta la sua commedia nel 1578 per tanto secondo i mutati costumi del tempo è in questo contesto che ci aspettiamo di vedere una giovane in azione e non di certo nella commedia latina dove, alle giovani di condizione libera, è vietato partecipare alla vita pubblica.

Ma come abbiamo già anticipato, il principio secondo cui si ritiene sconvenevole far partecipare le fanciulle alle peripezie della favola, si concretizza anche nelle commedie cinquecentesche più originali dove le giovani protagoniste non compaiono quasi mai e in quei pochi casi in cui accade, sono mute, non esprimono mai i loro stati d’animo o le proprie visioni su ciò che accade.

Giovanni Maria Cecchi, al pari di Luigi Groto, benché operi nella seconda metà del secolo, emargina le fanciulle dalle scene: nel “Diamante”175, per esempio, la giovane Livia

è desiderata da ben tre uomini, Gherardo, Curzio e Agabito, tuttavia non si mostra mai ed è grazie alla serva Crezia che conosciamo la disperazione della fanciulla davanti alla notizia del matrimonio combinato con il vecchio medico Gherardo:

«Zaccheri: E Livia che dice? […]

Crezia: itane come disperata in l’anticamera. Non ha fatto ne fa altro che piangere, e piangendo chiamar messer Agabito.

174 I. SANESI, “Generi Letterari Italiani, La Commedia”, vol. I, Milano, case editrice dottor Francesco Vallardi, 1935, pp. 265-266.

175 G.M.CECCHI, “Comedie inedite di Giovanni Maria Cecchi”, a cura di Giovanni Tortoli, Le Pellegrine L’ammalata, Il Medico ovvero il Diamante, la Maiana, Firenze, Barbera, Bianchi e comp. 1855.

92 (Il Diamante, Atto Terzo, scena II)

Da tali parole si capisce che Livia è innamorata di Agabito ma piange perché costretta dalla vedova Dianora a sposare il vecchio Gherardo; a questo punto sarà sempre la serva, e non la fanciulla, ad attivarsi e ad organizzare un piano insieme al famiglio Zaccheri per far saltare le nozze con il medico.

Al contrario, negli “Incantesimi” oltre a non vedere l’amata del giovane Alamanno, Fiammetta, non abbiamo nemmeno modo di capire quali siano i suoi sentimenti o le sue reazioni perché nella favola non vi sono né serve né fantesche.

Diverso il caso de “Le Pellegrine”176 dove Fiammetta e Franzese si travestono

continuamente, l’una per sfuggire al matrimonio con il vecchio Lando e l’altra per inseguire l’amato Luigi; tutto ciò viene raccontato dagli altri personaggi della commedia da cui le giovani ragazze si fanno passivamente manovrare come due burattini:

«Nastasia: Ogno cosa và bene. Io ho messo i panni del Francioso indosso a la Fiammetta, e quei di lei a lui, che gli stan che mai meglio, e se gli stesse cheto, voi lo corresti in cambio.

Camillo: Credolo, perché e’ si somigliano quanto mai io vedessi duoi altri».

(Le Pellegrine)

Lo scambio di vestiti fra le due fanciulle è opera del giovane Camillo e dalla serva Nastasia che progettano questo piano per fare in modo che Fiammetta possa nascondersi a casa di Camillo e sposare così l’amato Luigi. Successivamente, Fiammetta sarà oggetto di un ulteriore travestimento per opera del famiglio Trappola che vuol farle indossare i panni di una pellegrina per salvare il piano da lui ideato.

«Camillo: Io la intendo; tu vuoi che la Fiammetta mia, vestendosi da pellegrina, paia figliuola del Senese.

Trappola: Sta bene».

Dalle battute riportate, possiamo dedurre che le fanciulle eseguono in maniera del tutto passiva e senza neppure mostrarsi, ciò che gli altri personaggi decidono per il loro destino;

176 G.M. CECCHI, “Comedie inedite”.

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dunque Cecchi elabora questa trama intrecciando un motivo innovativo, il travestimento delle donne, ad un modus operandi tipico degli autori latini poiché le giovani donne rimangono sempre dietro le quinte.

Ne “La Gelosia”177 di Anton Francesco Grazzini, centrale è la figura della giovane

Cassandra in quanto, corteggiata dal giovane Pietrantonio e dal vecchio Lazzaro, costituisce l’oggetto del desiderio che mette in moto l’azione della favola ma, nonostante ciò, l’autore non le permette di apparire sul palcoscenico e, per giunta, nella scena chiave di tutta la commedia la fa sostituire dalla fante Orsola. Alfonso che sostiene le parti di Pietrantonio afferma:

«La mia sorella del tutto consapevole, e più di noi desiderosa dei desideri nostri, ha tanto fatto con la fante di casa più giovine, che in vece di lei farà l’uffizio […]».

E pur dianzi senza saperlo nessuno di casa, di tutti i panni e degli ornamenti di Cassandra la vestimmo […] et ammaestrandola, e insegnatole quel che dire e far debba».

L’unica soluzione, individuata dal servo Ciullo, per indurre il vecchio Lazzaro a rinunciare alle nozze con Cassandra, consiste nel fargli credere che la fanciulla giace di nascosto con Pietrantonio, invitandolo a vedere con i propri occhi la scena dei due amanti; ma questo non può avvenire realmente perché macchierebbe l’onore di Cassandra. Perciò Alfonso sostituisce alla sorella la fante Orsola; tale inganno basterà per distogliere Lazzero dal proposito di ammogliarsi e rendere possibili le nozze tra i due innamorati.

Il critico Giovanni Gentile178 individua in questa trama un’imitazione dell’episodio ariostesco di Ginevra di Scozia: il bello e giovane Ariodante si è qui trasformato nel vecchio Lazzero; Polinesso è Pierantonio anche se in quest’ultimo non c’è nulla di vile e sleale visto che la parte cattiva di Polinesso s’incarna nel servo Ciullo, mentre Dalinda è Orsola. Polinesso, per ingannare il povero Ariodante, dice a Dalinda:

«che pigli ogni vesta ch’ella posta abbia, e tutta te ne vesta. Com’ella s’orna e come il crin dispone

Studia imitarla, e cerca, il più che sai,

177 A. GRAZZINI, “La Gelosia comedia di Anton Francesco Grazini detto il Lasca”, Accademico fiorentino, Venezia, appresso Bernardo Giunti e fratelli, 1582.

94 di parer dessa (Ginevra)».

(Orlando Furioso, V, 24.25)

Polinesso proprio come il servo Ciullo, fa travestire Dalinda da Ginevra per far credere ad Ariodante che la sua amata lo tradisce. Nella notte Dalinda, così vestita ed acconciata riceve l’amante e narra a Rinaldo:

«Le vesti si vedean chiare alla luna; Né dissimile essendo anch’io d’aspetto, Né di persona da Ginevra molto,

fece parere un per un altro il volto […]».

Simili, queste parole, a quelle pronunciate da Alfonso nella scena de “La Gelosia” che ho precedentemente citato. La corrispondenza fra l’episodio ariostesco e la commedia di Grazzini culmina nella protagonista di entrambe le vicende perché sia Ginevra che Cassandra non partecipano all’azione.

Tuttavia in questa favola, l’esclusione della fanciulla dalle scene, meraviglia fortemente in quanto l’autore dimostra una particolare attenzione alle «bellissime e valorosissime donne» dedicando loro un intero prologo in cui esalta le virtù di cui sono dotate. Forse è proprio per preservare tali virtù, prima fra tutte l’onestà, che l’autore sceglie di non includere le giovani ragazze nelle beffe tipiche commedie cinquecentesche.

Anche Agnolo Firenzuola ne “La Trinuzia”179 opta per l’assenza dalle scene della

bella Angelica contesa dal duplice amore di Uguccione e Giovanni; la fanciulla non si mostra nemmeno alla fine, quando si scopre la sua vera identità: sorella di Uguccione e moglie di Giovanni.

Se nelle trame appena riportate il tipo della fanciulla non appare mai e non lo si ritrova neppure nella lista dei personaggi che precede l’inizio della favola, in altre commedie le giovani ragazze vengono menzionate poiché partecipano ad alcune scene ma sono del tutto silenziose, non proferiscono alcuna parola. Fra queste ricordiamo Persilia de “I Rivali” di Giovanni Maria Cecchi della quale sono innamorati il vecchio Basilio, il soldato spagnolo Ignico e il giovane Flavio; quest’ultimo in realtà l’ha già posseduta e intende sposarla, tuttavia, per una serie di eventi, Persilia rischia di essere sposata dal vecchio Basilio e, quindi, Flavio fa travestire l’amata con abiti maschili per poterla rapire. E’ in questa scena

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che Persilia si palesa agli spettatori in veste d’uomo ma apre bocca solo per pregare l’amante di non farla parlare:

«fatemi parlare- poco perché di facile io potrei- avvilupparmi».

In abiti virili si mostra anche Oretta ne “La Talanta”180 di Pietro Aretino, una fanciulla che non pronuncia alcuna parola tant’è vero che l’autore la introduce specificando come nella scena sia presente «Oretta, figlia di Blando, vestita da maschio che non parla»; tale descrizione prosegue nelle scene del quarto atto quando viene descritta come «Oretta che non parla, co’ panni soliti»; la commedia si conclude invece con «Oretta non più vestita da maschio» che ritrova un fratello e sposa Armileo.

Inoltre bisogna sottolineare la presenza di testi comici in cui gli autori dedicano intere scene al tipo della fanciulla, soprattutto per permetterle di sfogare la propria tristezza riguardo alla misera condizione in cui è costretta a vivere.

Si pensi, per esempio, ad Eulalia e Corisca, le due giovani della “Cassaria” che nel primo atto lamentano la propria posizione di schiave ed esprimono la speranza di essere liberate dai loro rispettivi amanti Erofilo e Caridoro:

«Eulalia: Che spasso, misere noi, che ricompense la millesima parte de la disgrazia nostra? Noi siamo schiave, la qual condizione pur tollerare si potrebbe […] ma fra tutti li ruffiani del mondo, non si potrebbe scegliere el più avaro, el più crudele, el più furioso, el più bestiale di questo, a cui la pessima sorte ce l’ha dato in subiezione.

Corisca: Speriamo Eulalia: avemo tu Erofilo et io Caridoro, che tante volte ce hanno promesso, e con mille giuramenti affermato di farci presto libere».

L’intreccio della favola si basa difatti sui tentativi compiuti dai due giovani innamorati per liberare le proprie amate dal ruffiano Lucrano; infine sarà Fulcio, servo di Caridoro, a spillare