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M OGLI SEDOTTE

III. LE NUOVE SFUMATURE DEI PERSONAGGI FEMMINIL

III.1 L’ EVOLUZIONE DELLA FANCIULLA

III.2.1 M OGLI SEDOTTE

A questa categoria appartengono quelle mogli che, con uno stratagemma, con violenza oppure per caso, vengono attratte da giovani amanti e si adattano anche volentieri alla nuova situazione facendo, come si suol dire, di necessità virtù: Lucrezia nella Mandragola e Oretta nell’Assiuolo costituiscono i due esempi più significativi. La prima, spinta fra le braccia di Callimaco dall’astuzia dell’amante, dalla sciocchezza del marito, dalla ‘semplicità’ della madre e dalla ‘tristizia’ del confessore, si adegua alla nuovo rapporto trasformandosi in una donna attiva, padrona di se stessa e delle proprie azioni; analoga a quella di Lucrezia è la vicenda di Oretta che, beffata dal servo Giorgetto, accetta di buon grado la relazione con l’amante Giulio rivolgendogli un discorso che, come abbiamo già visto nel secondo capitolo di questa tesi, ricalca letteralmente quello di Lucrezia riferito a Callimaco.

Ma il motivo che spinge le due protagoniste a intraprendere un rapporto extraconiugale è ben diverso perché se Lucrezia cede alle avances di Callimaco per soddisfare le richieste della famiglia, Oretta si ritrova a giacere con Giulio in seguito alla beffa che lei stessa organizza per smascherare l’adulterio del marito Ambrogio. Perciò, molto probabilmente, quando scopre l’inganno di cui è stata vittima, la sua reazione è

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positiva perché dettata da un desiderio di vendetta nei confronti di un marito fedifrago; ciò si evince dal lungo monologo pronunciato da Oretta nella terza scena del quarto atto:

«E al male dell’aver il marito vecchio, s’è accozzato l’averlo geloso, geloso a torto e d’una gelosia che io non credo che la maggiore immaginare si possa: e così per la gelosia mi sono tolti gli spassi di fuori, e per la vecchiezza quelli di casa. Né è bastato alla fortuna farmi tutti questi mali, che ell’ ha voluto, con il farmi uno altro scherno, maggiormente pigliarsi gioco di me, facendo innamorare questo mio vecchio pazzo, […] e così (povera Oretta! Non ti mancava altro) stare in prigione a vita, avere il marito vecchio, geloso, innamorato e rimbambito».

Lo sfogo di Oretta costituisce un vero e proprio catalogo delle cause che conducono le donne a vendicarsi, ossia un marito vecchio che non soddisfa i loro desideri carnali, una gelosia ingiustificata e soprattutto l’adulterio. Infatti alcune malmaritate, nel corso delle commedie, dopo aver scoperto il tradimento del marito, ricambiano l’oltraggio subito: è questo il caso di Carubina, una moglie virtuosa che, nel “Candelaio” di Giordano Bruno, si concede a Gioan Bernardo perché ha avuto la prova del tradimento dell’indegno marito.

Infatti, sostituendosi alla cortigiana Vittoria di cui Bonifacio è innamorato, Carubina scopre la tentata infedeltà del marito e lo rimprovera aspramente; ma subito dopo si mostra cortese alle richieste d’amore di Gioan Bernardo:

«Gioan Bernardo. Io son quello che vi amo, io son quello che vi adoro. Che si m’avessero concesso gli cieli quello che a questo sconoscente e sciocco, che non stima le mirabil vostre bellezze, han conceduto, giamai nel petto mio scintilla d’altro amore arebe avuto luoco, come anche non ha.

Carubina. Oimè messer, Gio Bernardo, io ho ben tenero il core! Facilmente credo quello che dite però desidero ogni consolazion vostra; ma dal canto mio, non è possibile senza pregiudizio del mio onore. Gioan Bernardo. […] Non è quello che noi siamo e quel che noi facciamo, che ne rendi onorati o disonorati, ma sì ben quel che altri stimano, e pensano di noi. […] Lasciamo le dispute, speranze dell’anima mia. Fate, vi prego, che non in vano v’abbia prodotta cossì

114 bella il ciel […] Or mi vita più dovete curare di non farmi morire, che

temer in punto alcuno che si scemi tantillo del vostro onore.

Carubina. Di grazia andiamo in un luoco più remoto, e non parliamo qui di queste cose».

Questo dialogo è molto importante poiché Carubina, oltre ad esplicitare il desiderio di cedere alle lusinghe del suo corteggiatore, manifesta come, la perdita dell’onore, rappresenti la sua unica preoccupazione; Gioan Bonifacio conquista definitivamente la sua amata spiegandole quanto l’unica cosa che bisogna preservare non sia l’onesta ma l’apparenza dell’onestà ovvero quello che gli altri pensano di noi e non ciò che realmente siamo e facciamo. Una teoria questa, che richiama il trattato di Alessandro Piccolomini in cui la mezzana Raffaella invita le malmaritate a tradire i rispettivi mariti, dissimulando l’adulterio e simulando l’amore per il coniuge poiché solo in questo modo è possibile salvare le apparenze e al contempo soddisfare la pulsione al piacere.

Molte altre sono le malmaritate che rivedono, confrontati con la realtà, i principi morali e finiscono per concedersi, dopo una resistenza più o meno forte, alla corte di uno spasimante; fra queste spicca Jacinthia nell’anonima “Ardelia”, moglie del vecchio «tedioso e bestiale» Pyrronio che, prima di accettare le profferte di Tiresio, esalta l’amore di tipo platonico. Difatti dopo essersi pentita della durezza con cui precedentemente aveva respinto le dichiarazioni di Tiresio, la giovane sposa gli propone un tipo di amore intellettuale, fatto di sola adorazione:

«Ogni acto, intelligentia et appetito illicito (benché di sua natura da lo ignorante agente nascano), disposto a triste effecto, pur cimi ragione e modestia si pono tutiad honesto e laudabile proposito riducere et a lo actor prestar laude dignissima» IV, 1 07.

Perciò i due protagonisti si accordano per una sorta di esercizio spirituale, riassunto da Tyresio in un programma di vita:

«Farla immortale cum mio calamo rude; saturarmi in cognoscerla e pensarla; fra li Poenati collocarla, venerandola come dea; in ne li adversi mei pònerla per ì istauro, in le laetitie summo gaudio, summo contento [...]» IV, 141.

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Ma, tornati alle proprie dimore e rimeditati gli eventi, entrambi approdano a inaspettate risoluzioni: Tyresio riconosce che «senza il corpo non sii laetitia alcuna» e Iacinthia, a conclusione di un articolato soliloquio, decide di abbandonare ogni scrupolo e di concedersi all'innamorato; tant’è vero che la commedia si conclude con l’invito agli spettatori di lasciare gli amanti al sospirato piacere «Non expectate più di saper il successo di l'ordine preposto, perché di Amor è lege che la sol nocte ne resti consapevole». V, 1 65

Non bisogna dimenticare che il tipo della malmaritata è una figura femminile che trae le sue origini dai testi medievali e principalmente dal “Decameron” di Giovanni Boccaccio a cui i commediografi si sono ispirati; i personaggi fin qui nominati ricordano, per esempio, le vicende di Bartolomea moglie di Ricciardo di Chinzica (II, 10) e Isabella moglie di Puccio (III, 4). Bartolomea, in seguito ad un naufragio, perde di vista il marito e s’innamora del corsaro Paganino con cui intraprende una relazione extraconiugale a tal punto che, quando Ricciardo ritorna con l’intenzione di riportarla a casa, lei si rifiuta pronunciando un discorso dai toni quasi osceni poiché fa riferimento al suo naturale desiderio sessuale:

«Perciò che se voi eravate savio o sete, come volete esser tenuto, dovevate avere ben conoscimento, che voi dovevate vedere che io era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente cognoscere quello che alle giovani donne, oltre al vestire e al mangiare, benchè elle per vergogna nol dicano, si richiede […]

Sommi abbattuta a costui, che ha voluto Idio sì come pietoso raguardatore della mia giovinezza, con il quale mi sto in questa camera, nella quale non si sa che cosa festa sia, dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a’ servigi delle donne, costante celebravate».

Bartolomea esibisce una notevole arguzia nel ridicolizzare la devozione alle festività religiose cui l’uomo l’aveva costretta (come pretesto per non doversi impegnare a soddisfarla sessualmente) dichiarando di essere, al contrario, pienamente appagata dall’assiduità di Paganino, motivo per cui non si riaccompagna con Ricciardo ma sposa il corsaro. Ed è sempre l’astinenza sessuale che porta Isabetta, «giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella» a tradire il marito Puccio con il frate francescano dom Felice; il narratore Panfilo racconta:

116 «E parendo molto bene stare alla donna, sì s’avezzò a’ cibi del monaco,

che, essendo dal marito lungamente stata tenuta a dieta, ancora che la penitenzia di frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui e con discrezione lungamente ne prese il suo piacere».

Non a caso, alla fine della novella Isabetta commenta il suo rapporto con l’amante definendolo addirittura come un Paradiso:

«Tu fai fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale noi abbiamo guadagnato il Paradiso».

Inoltre, secondo quanto afferma Antonio Stauble187, degna di attenzione è la terza novella della sesta giornata e in particolare la battuta finale di Catella, moglie di Filippo e amante di Ricciardo Minatolo, poiché ci permette di individuare un filo rosso che collega la novella di Boccaccio con la Mandragola di Machiavelli e il Frate del Lasca:

Decameron, III-6 Mandragola V-4 Frate, II-1

E conoscendo allora la donna quanto più saporiti fossero i basci dell’amante che quegli del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo tenerissimamente da quel giorno innanzi l’amò.

Ed avendo ella, oltre alle vere ragioni, gustato che differenzia è dalla ghiacitura mia a quella di Nicia, e da e baci d’uno amante giovane a quelli d’uno marito vecchio.

So bene io che differenzia fussi da lui a mio marito.

In questi testi comici, gli autori pongono in rilievo le preferenze espresse dalle malmaritate Catella, Lucrezia e Margherita verso il proprio amante che, in tema di baci, si rivela senza dubbio migliore rispetto al vecchio marito.

Analizzando il tipo della fanciulla, abbiamo già visto come, nel XVI secolo, il “Decameron” sia fonte d’ispirazione non solo per la commedia erudita ma anche della produzione novellistica in cui a distinguersi è la famosa raccolta di Matteo Bandello; quest’ultimo si dimostra particolarmente sensibile al tipo della malmaritata adultera e, al pari dei commediografi moderni, sviluppa alcuni stilemi boccacciani come, le critiche al marito

187 A. STAUBLE, “Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi della commedia rinascimentale”, in Quaderns d’Italià, vol. 14, 2009, pp. 43-44.

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geloso, il sarcasmo verso l’adultero che trascura la propria moglie, il lamento della malmaritata che dichiara la propria frustrazione sessuale188. Anche Bandello insiste sulla

responsabilità del marito di considerare la particolare essenza della natura femminile e di prendersene adeguatamente cura189:

«I mariti devono ben trattar le mogli e non dar loro occasione di far male, non divenendo gelosi senza cagione, per ciò che chi ben vi riguarderà, troverà la più parte di quelle che hanno mandato i loro mariti a Corneto, averne da quelli avuta occasion grandissima, chè rarissime son quelle da’ mariti ben trattate e tenute con onesta libertà, le quali non vivano come deveno far le donne che de l’onor loro sono desiderose».

(Novella V, Prima parte)

Questa citazione è tratta dalla dedica a Francesco Acquaviva che precede la novella V della prima parte della raccolta, dove la protagonista Bindoccia, incarna alla perfezione tali dinamiche: moglie di Angravalle, un gentiluomo napoletano che improvvisamente abbandona l’atteggiamento disponibile e comprensivo dei primi tempi del matrimonio per divenire preda della gelosia, trascurando inoltre la moglie che si ritrova materialmente e sessualmente insoddisfatta. Perciò quest’ultima nel denunciare la propria infelice condizione alla cugina, non solo da sfogo alla propria delusione, ma si descrive anche come spinta all’adulterio da necessità che non può controllare:

io mi sono deliberata di cangiar anch’io il mio consueto vivere, e se egli quello di casa risparmia, di quello di fuori provedermi. Sallo Iddio, che mal volentieri a questo mi mentto; ma il bisogno mi stringe, e la necessità non ha legge».

(Novella V, Prima parte)

La novella si conclude nel momento in cui Bindoccia riesce a ingannare il marito e ad allacciare una relazione amorosa con il suo giovane amante Niceno. Per tanto il narratore rivolge un consiglio a tutti i mariti:

188 P. UGOLINI, “L’adulterio e la rappresentazione della donna nelle Novelle di Matteo Bandello”, in centro studi Matteo Bandello e la cultura rinascimentale, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1995, p. 175.

189 M. BANDELLO, “Le novelle di Matteo Bandello”, in tutte le opere di Matteo Bandello a cura di Francesco Flora, Mondadori, Milano, 1942, Novella V, prima parte, p. 73.

118 «Insomma, io concludo che di rado avvenga che, quando una femina

delibera far alcuna cosa, che l’effetto non segua secondo il dissegno de la donna. Medesimamente ogni marito deve fuggir più che il morbo di dar occasione a la moglie di far male».

(Novella V, Prima parte)