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U NA FANCIULLA INTRAPRENDENTE

III. LE NUOVE SFUMATURE DEI PERSONAGGI FEMMINIL

III.1 L’ EVOLUZIONE DELLA FANCIULLA

III.1.2 U NA FANCIULLA INTRAPRENDENTE

Con l’evolversi del genere teatrale, il tipo della fanciulla diviene più complesso in quanto le ragazze che lo rappresentano non lasciano più che siano gli altri personaggi a risolvere i loro problemi bensì affrontano autonomamente, con le proprie forze, pericoli e difficoltà pur di raggiungere i propri obiettivi.

Il modello per eccellenza della fanciulla attiva e avventurosa corrisponde a Lelia, protagonista de “Gli Ingannati”184, commedia anonima composta nell’ambito

dell’Accademia degli Intronati di Siena intorno al 1531. La fanciulla dopo aver sentito che il padre intende maritarla ad un vecchio, fugge dal monastero in cui si trova e, travestitasi da uomo, si pone al servizio di Flaminio, suo primo grande amore, da cui però era stata dimenticata. Quest’ultimo, non riconoscendola, la manda come messaggera d’amore da Isabella che, a sua volta, s’innamora di Lelia nelle vesti maschili; ma ecco arrivare il fratello

184 Anonimo, “Gli Ingannati”

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Fabrizio che simile a lei può, sostituendosi alla sorella, gradire l’amore di Isabella e permettere a Lelia di riavere Flaminio, festeggiando un comune matrimonio.

In questa commedia i toni sono spregiudicati in quanto Lelia racconta alla nutrice i particolari della sua vita nel monastero:

«Lelia: Ivi stando, né d’altro che d’amor ragionare sentendo a quelle reverende madri del monistero, m’assicurai ancor io di scoprire il mio amore a suor Amabile de’ Cortesi. Ella ebbe pietà di me, non fino mai ch’ella fece venire più volte Flaminio a parlar seco e con altre acciò che io, in questo tempo, che nascosta dopo quelle tende mi stava, pascesse gli occhi di vederlo e l’orecchio d’udirlo che era il maggior desiderio ch’io avesse».

(Gli Ingannati, Atto Primo, scena III)

E’ in questa circostanza che le viene in mente un piano per ricongiungersi al suo amato Flaminio:

«Venendovi un dí, fra gli altri, sentii che molto si rammaricò d'un suo allievo che morto gli era […] soggiungendo che, se un simile ne trovasse, si terrebbe piú contento del mondo e che gli porrebbe in mano quanto teneva. Subbito mi corse nell'animo di voler provare se a me potesse venir fatto d'esser questo aventuroso ragazzo (e, partito ch'ei si fu, conferii questo pensiero con suor Amabile) e, poi che Flamminio non stava per stanza a Modena, veder se seco per servidore acconciar mi potesse».

Perciò sempre nella solita scena, Lelia spiega alla balia Clemenzia come sia riuscita a scappare dal monastero e ad attuare il piano, grazie all’aiuto di suor Amabile:

«Lelia: ella me ne confortò e ammaestrandomi del modo che avevo a tenere; e accomodandomi di certi panni che nuovamente s’aveva fatti per potere ella ancora, alcuna volta, come l’altre fanno, uscir fuor di casa travestita a fare i fatti suoi. E cosí, una mattina per tempo, me ne uscii in questo abito fuor del monistero che, per esser fuor della terra come gli è, mi die' molto animo e fu molto a proposito».

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Tramite questo espediente, Lelia, divenuta servo di Flaminio, tenta ripetutamente e in maniera ostinata di dissuaderlo dall’amore per Isabella, riuscendo infine a riconquistare il suo amore.

Straordinario il carattere di Lelia che davanti ad un destino avverso non si abbatte ma reagisce con vivacità d’ingegno e determinazione, realizzando così il suo desiderio amoroso. Per quanto concerne Isabella, sorprende l’atteggiamento che ha davanti al servo Fabio (Lelia), tipico di una giovane fanciulla alle prese con il suo primo amore, dal momento che non riesce a frenare il suo istinto passionale:

«Isabella: Voglio una grazia da voi. Fabio (Lelia): Quale?

Isabella: Entrate un poco dentro a l'uscio. Scatizza: La cosa è fatta. […]

Crivello: Oimè! oime! O seccareccio, altrettanto a me. Scattizza: Non ti diss'io che la baciarebbe?

Isabella: Perdonatemi. La vostra troppa bellezza e 'i troppo amor ch'io vi porto è cagion ch'io fo quello che forse voi giudicarete esser di poco onesta fanciulla. Ma Dio lo sii ch'io non me ne son potuta tenere».

Mentre Isabella accompagna all’uscio il bel messaggero, svela arditamente il suo affetto lasciandosi scappare, per giunta, un bacio. Di nascosto i servi Crivella e Scatizza osservano la scena e ne rimangono stupefatti. Insolito è anche il modo scurrile con cui la fante Pasquella descrive l’amore di Isabella per Fabio (Lelia travestita da paggio):

«Pasquella: Io non credo che nel mondo si truovi il maggior affanno né il maggior fastidio che servire, una mia pari, una giovane innamorata; […] che, da certi dí in qua, è intrata in tanta frega e in tanta smania d'amore che né dí né notte ha posa. Sempre si gratta il petinicchio, sempre si stroppiccia le cosce, or corre in su la loggia, or corre a le finestre, or di sotto, or di sopra; né si ferma altrimenti che s'ella avesse l'ariento vivo in su' piedi».

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Se Isabella, s’innamora inconsapevolmente di una donna travestita da uomo, ne “L’Alessandro”185 di Piccolomini la giovane Lucrezia si lancia invece in un vero amore

lesbico perché crede di essersi invaghita di una donna, Lampridia, senza sapere che sotto quei panni si cela il giovane Aloisio. Infatti l’azione principale di questa commedia poggia sul doppio e inverso travestimento di Lucrezia e Aloisio che un tempo si erano amati e che ora, dopo una lunga separazione, si ritrovano a Pisa: Alisio travestito da Lampridia e Lucrezia sotto i panni di Fortunio. Quest’ultima rimane talmente colpita dalla somiglianza fra Lampridia e il suo amato Aloisio da trasformare una semplice simpatia in un amore lesbico che non le lascia pace:

«Fortunio (Lucrezia): Gli altri, se ardono per amore, almen godono di quella flamma, sperando che, vinta la crudeltà dell’amante loro, ogni cosi ritorni in gioia; ma io amo con tutto il cuore, e se ben io vincessi con la mia servitù la durezza di Lampridia, ch’avrei fatto? Sono donna come lei, e rimarrebbe ingannata del caso mio. Dall’altra parte quando io penso al torto che io fo al mio Aloisio, che primo amai e amerò sempre, con amar di nuovo cosa che non sia lui, mi si apre il cuor di rabbia contra me stessa».

(Alessandro, Atto Secondo, scena I)

Lucrezia, benché sia consapevole che il suo è un amore impossibile e si rammarichi dell’avversa fortuna che l’ha fatta innamorare di una persona del suo medesimo sesso, continua imperterrita a corteggiare Lampridia, arrivando persino a introdursi segretamente nella sua camera. Sarà Cornelio, fratello di Lampridia, a cogliere sul fatto Lucrezia:

«Cornelio: Quella sfacciata di Lampridia…

Vicenzo: Che ha fatto Lampridia? Dì via; Dio mi aiuti.

Cornelio: Ho trovato ch’ell’era in camera riserrata con un giovane cortigiano di Monsignor di Flisco».

(L’Alessandro, Atto Quinto, scena IV)

185 A. PICCOLOMINI, “L’Alessandro, comedia di Alessandro Piccolomini stordito intronato”, Milano, G. Daelli e C. editori, 1864.

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Fortunatamente, non appena Lucrezia pone in esecuzione questo suo disegno, l’ordine naturale si ristabilisce senza problemi in quanto Aloisio e Lucrezia, ritrovatisi e riconosciutisi, possono stringersi nel sacro vincolo delle nozze.

Dunque Lucrezia ci offre un esempio di fanciulla trasgressiva e ribelle che decide di non reprimere i propri istinti omosessuali ma di assecondarli come desiderio di un’esperienza nuova e misteriosa, giustificata in parte da precedenti nella storia dell'umanità e dalla forte somiglianza di Lampridia con Aloisio186:

«Io già non son la prima donna ch’amasse donna. Ella m’harà per iscusata: e per mio bene, s’io ne la prego, terrà segreta la cosa: in modo che da’ l far questo, non me ne può venir se non piacere».

Più tardi la storia de “Gli Ingannati” viene riproposta in un altro genere letterario: nella novella XXXVI presente nella seconda parte della sua raccolta, Matteo Bandello narra le vicende di Nicuola che, allo stesso modo di Lelia, compie atti coraggiosi con grande autonomia e risolutezza. Anch’essa, innamoratasi di Lattanzio, fugge dal monastero travestita da paggio:

«Cadde nell’animo a Nicuola - vedete se Amore l’aveva concia – di vestirsi da ragazzo a mettersi a servigi d’esso suo amante. […] E quantunque Pippa- chè tal era il nome della balia,- assai la persuadesse a levarsi dal capo total farnetico, dimostrandole il periglio e lo scandalo che ne poteva facilmente nascere, non puotè mai convincerla; onde a casa seco la condusse ove ebbe il modo di vestirsi come un povero fanciullo […] E per non dar indugio al fatto, il seguente giorno se n’andò Nicuola non più fanciulla ma garzone ne la contrada ove se ne stava il suo amante».

186 Nel teatro classico si trovano allusioni all’omosessualità ma raramente. Nelle commedie cinquecentesche è invece frequente il tema dell’omosessualità maschile, soprattutto se si pensa al

Marescalco di Pietro Aretino e alla pederastia dei pedanti. Per quanto riguarda quella femminile, lo stesso

Piccolomini nel 1541 legge e commenta i sonetti che Laudomia Forteguerri dedica all’amata Margherita D’Austria. Questa relazione lesbica viene citata anche da Agnolo Firenzuola nel Dialogo della bellezza delle

donne dove, parlando della concezione dell'amore fra persone dello stesso sesso, esaltata da Aristofane

nel Simposio di Platone, lo descrive come un amore platonico, al contrario di quello lascivo della poetessa Saffo.

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Se nella commedia la protagonista entra in scena già travestita ed è lei stessa a raccontare come suor Amabile l’abbia aiutata a scappare dal monastero procurandole abiti virili, nella novella il narratore descrive dettagliatamente i retroscena del travestimento di Nicuola: la fanciulla chiede aiuto alla balia Pippa che, a differenza di suor Amabile, non la incoraggia a compiere un atto così pericoloso bensì tenta di dissuaderla, ricordandole i rischi a cui andrebbe incontro. Ma Nicuola si dimostra irremovibile nella propria decisione e di conseguenza a Pippa non resta che rendersi complice del suo piano, offrendole i vestiti necessari alla fuga.

Nel resto della novella il personaggio di Pippa viene a coincidere con quello della balia Clemenzia poiché entrambe hanno un ruolo decisivo nel ricongiungimento dei due innamorati.

Per quanto riguarda il carattere di Nicuola, Bandello propone una fanciulla più sensibile che davanti alla notizia dell’infatuazione di Lattanzio per un’altra ragazza si abbandona ad un pianto disperato:

«Or vedi mamma a che termine son condutta se mi può fortuna far peggio di quello che mi fa. Se Catella si dispone che voglia amarlo e si contenti prenderlo per marito, io non vivo un’ora, ne rimedio alcun veggio a lo scampo de la travagliata vita mia perché è impossibile che io veggia che sia d’altri che mio, e viva. […] ma ora ogni mia speranza è ita al vento, conoscendolo sì fieramente invaghito di costei, che tutto il giorno e la notte in altro mai non pensa né d’altro ragiona già mai […] e questo diceva piangendo ininterrottamente».

Ormai Nicuola si è messa in gioco rischiando di perdere la propria dignità, per tanto, al pari della protagonista de “Gli Ingannati”, non si arrende e dichiara:

«io ho fatto tanto che ne voglio vedere il fine, avvenga ciò che si voglia».

Difatti, mediante la funzione di messaggera d’amore fra Lattanzio e la sua nuova fiamma, la fanciulla cerca di allontanare il proprio amato da un amore non corrisposto (quello di Catella) per attrarlo a sé.

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Dalla commedia anonima Bandello ricalca anche l’amore lesbico di Catella nei confronti Nicuola-Romolo e il lieto fine, ovvero, le duplici nozze di Nicuola con Lattanzio e di Paolo, fratello di Nicuola, con Catella.

Molto probabilmente, l’autore de “Gli Ingannati” e dopo di lui, il novelliere Matteo Bandello, hanno elaborato il carattere di Lelia e Nicuola ispirandosi ad una delle più celebri fanciulle del “Decameron” di Giovanni Boccaccio, Giletta, protagonista della nona novella della terza giornata che incarna un modello straordinario di donna intraprendente in quanto si dimostra capace di realizzare i propri obiettivi con industria cioè grazie alla sua abile ingegnosità.

Tant’è vero che, sebbene sia semplicemente una fanciulla, riesce a guarire il re di Francia da una fistola, ottenendo in cambio la possibilità di sposare l’amato Beltramo; tuttavia gli ostacoli non finiscono qui poiché il giovane marito avendola sposata contro il suo volere, parte per Firenze lasciandola da sola. In questo frangente Giletta non si piange addosso, ma «con gran diligenzia e sollecitudine», rimette in ordine la contea del marito. Non contenta, la giovane donna intende riconquistare Beltramo e per far ciò, si traveste da pellegrino e si reca a Firenze dove viene a sapere che il marito è infatuato di una ragazza: ancora una volta non è lo sconforto a prendere il sopravvento dal momento che, grazie alla sua intelligenza, escogita un piano vincente. Difatti Giletta, sostituendosi alla fanciulla amata da Beltramo, giace con suo marito e da questa unione nasceranno due figli che, alla fine della novella, il padre riconoscerà legittimi insieme alla moglie Giletta.

All’interno di una stessa novella si vede quindi l’evoluzione della protagonista che, nella prima parte, da fanciulla diviene donna e moglie (quando riordina la contea) e, al momento del recupero del marito, assume addirittura il titolo di contessa; invero, la riconciliazione del marito con la moglie viene sancita dal gesto di farla rivestire «di vestimenti a lei convenevoli» che manifestano il rango che ella ha saputo conquistarsi. Inoltre, la novella di Boccaccio anticipa temi fondamentali ampiamente trattati anche dai commediografi cinquecenteschi, quali la necessità di una condotta onesta da parte delle donne, il valore del matrimonio e la fedeltà coniugale che analizzerò approfonditamente nel paragrafo relativo alle malmaritate.

Durante tutto il XVI secolo la trama de “Gli Ingannati”, viene poi ripresa e reinterpretata in varie commedie come accade nel “Viluppo” di Girolamo Parabosco dove riappare il motivo del travestimento per amore da parte di una fanciulla, Cornelia, e il ruolo di messaggera d’amore che la stessa è disposta a svolgere tra l’amato Valerio e la giovane Sofonisba dal momento che costituisce l’unica possibilità per conquistarlo.

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A differenza di Lelia, Cornelia non scappa da un monastero ma addirittura, con la complicità della balia, fa credere a tutta la sua famiglia di essere morta; inoltre il suo travestimento non consiste solo nell’indossare abiti maschili ma nel celare il candore della sua pelle con un’acqua che la balia le ha fornito per rendere bruna la pelle:

«Brunetto: Ma dimmi quest’acqua che m’hai data, che così mi fa bruna e mi toglie la natia somiglianza: quanti giorni poss’io stare fra una volta, e l’altra adoperarla?

Balia: Quindici giorni puoi stare gagliardamente; ma abbi cura che non ricordandoti; altra acqua non ti tocchi il viso che subito ti diveniresti candida come prima e conosciuta saresti».

(Viluppo, Atto primo)

Cornelia/Brunetto attraverso lunghi dialoghi cerca di convincere l’amato Valerio di non corteggiare chi non ricambia il suo amore e, fingendo di avere un forte dolore al petto, causato dal morso velenoso di uno scorpione, lo ricatta in modo astuto: si curerà solo a condizione che anche Valerio cercherà di risanare il suo mal d’amore allontanando chi lo odia e amando chi lo adora.

L’intreccio culmina quando sia Valerio che Orsino, si recano a casa dell’amata: qui si scopre la vera identità di Sofonisba, sorella di Valerio e, di Brunetto. Se ne “Gli Ingannati” e nella novella di Bandello è la balia che smaschera la protagonista, in questa commedia è invece Cornelia stessa a confessare tutta la verità a Valerio:

«Brunetto/Cornelia: Valerio, ecco colei che dopo tanti pianti, doppo tanti sospiri, ha pur conseguito l’honesto suo desio […] io sono quella Cornelia da te tanto disprezzata, e derisa, e dal padre mio, e dalla madre e dal fratello qui presente, tanto amata, e invano quattro mesi lagrimata, per venirti a servire, poscia ch’altro non mi giovava, usai uno inganno, essendone però consapevole la mia nutrice senza la qual far non poteva».

La commedia di Parabosco si conclude perciò con il tradizionale matrimonio di Cornelia con Brunetto e Sofonisba con Orsino.

Nella “Cintia” di Giovanbattista della Porta ho riscontrato una fanciulla più intraprendente e ardimentosa, le cui vicende ricalcano ancora, però, la commedia de “Gli

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Ingannati”: Cintia travestita in abiti maschili fin dall’infanzia, s’innamora dell’amico Erasto

che invaghitosi di Amasia, chiede a Cintio di fargli da ambasciatore presso la giovane Amasia. Tuttavia, al contrario delle protagoniste prima citate, Cintia disobbedisce a tale incarico ed organizza un piano ingegnoso: apre un muro tra la sua casa e quella di Erasto e, indossando i panni di Amasia, riuscirà a giacere con lui. Brillante è anche il modo in cui, tramite semplici giochi di parole, Cintia offre ad Erasto la conferma che è veramente Amasia ad avere rapporti con lui:

«Cintia. […] e questa mattina in chiesa se ne vide il paragone al giudicio di tutti e principalmente di un fidelissimo e affezionatissimo vostro servitore che vi ama e riverisce fra tutti.

Erasto. (Certo ch’ora le vuol ragionar di me, che ha detto: un fidelissimo e affezionatissimo vostro servidore che vi ama e riverisce fra tutti»). Amasio. Chi è costui che voi dite?

Cintia. Era stamane io cogli altri in chiesa, che la giudicai tale. Erasto. (Non tei dissi io? ben l’indovinava: ha detto Erasto»). Cintia. Le vo’ chieder una grazia, ...

Amasio. Che mi comanda?

Erasto. (Le chiede «una grazia»: certo le dirá che venghi a giacer meco questa notte).

Cintia. ... che mi prestiate le vostre vesti, che vogliam recitare una comedia; e mi servono dalle due ore di notte insino all’alba. ...

Amasio: Se volete questa será al vostro comando, né bisogna me ne abbiate obligo alcuno, che ho piú a caro servirlo che voi, o esser servito. Erasto. (L’ha dimandato «una grazia solita». E poi non so che ha detto, che non l’ho potuto intender bene; ma ara detto che venghi «alle due ore di notte insin all’alba»)».

In questa scena, siccome Cintia è consapevole che Erasto ha dubbi circa la reale identità della fanciulla con cui giace, organizza un incontro con Amasia in presenza di Erasto (nascosto): qui dà prova di essere perfettamente in grado di costruire un discorso convincente, utilizzando assonanze (Era stamane- Erostato) e parole-chiave che il suo amato aspetta di sentire per avere la certezza di giacere con Amasia.

In seguito a ripetuti incontri notturni, Cintia deve affrontare ulteriori disagi poiché, rimasta incinta, si sente tremendamente in colpa per aver doppiamente ingannato Erasto e,

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quello che più ci sorprende è l’audacia di Cintia, pronta persino a farsi uccidere dal proprio amato, pur di espiare le proprie colpe:

«Erasto. Tu non mi ci corrai piú con le tue paroline; e la spada scoprirá la veritá, e giá mi vien la stizza passartela per lo petto. Cintia. Piú tosto per lo ventre, acciò non resti al mondo seme di tanta ingratitudine! Ma poiché la volete meco, la torrò con voi assai volentieri. Ponete mano alla spada.

Erasto. Ancor ardisci, puttaccio, di provocarmi? […]

Cintia. Vedete se ho soverchiarla con voi: ecco il fianco nudo. Erasto. Va’ va’, che ci vedremo.

Cintia. Finiamola ora.

Erasto. Ci troveremo bene in altro luogo. Cintia. Dove, quando e come volete!».

Dalla battuta sopra citata possiamo notare che Cintia provoca ripetutamente Erasto, quasi volesse convincerlo ad ucciderla; del resto questa non è l’unica volta in cui la fanciulla incita il giovane a colpirla perché nell’ultimo atto dichiara:

«Cintia. Su su, alle mani, non piú tardare, fammi morire, che non potrai cosí mortalmente ferir questo corpo che non abbi piú acerbamente feritomi nell’anima.

Erasto. Tu vieni a disfidarmi molto disarmato e con molto poca arte di scrima.

Cintia. La prontezza dell’animo vincerá la poca arte dello schermire, e al corpo disarmato la disperazione ministrare l’armi, troverá nuovi usi, fará che l’unghie e i denti mi serviranno in vece di pugnali e di coltelli; e per mostrarti che ho voglia di morire, solo, nudo e senza armi m’ucciderò teco come tu vuoi».

Erasto non raccoglie le preghiere di Cintia perché è già stato informato dal padre che sotto i