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L A MERETRICE DA CANDELA

III. LE NUOVE SFUMATURE DEI PERSONAGGI FEMMINIL

III. 3 L A MADRE DI FAMIGLIA

III. 4.1 L A MERETRICE DA CANDELA

Nelle commedie erudite ciò che accomuna le cortigiane moderne e quelle d’altri tempi riguarda il modo in cui esse s’impegnano per rendere proficuo, il più possibile, il proprio vile mestiere: ribalderie, frodi, finti ardori e finte lacrime, tradimenti, lettere e versi ingegnosamente composti costituiscono i mezzi di cui le meretrici si giovano per attirare, trattenere e richiamare gli amanti.

190 Lo stesso Aretino, nei “Ragionamenti” fa dire dalla Nanna alla Pippa: smusica un versolino da te imparato per burla, trampella il monocordo, stronca il liuto, fa vista di leggere il Furioso, il Petrarca, e il Cento. (Ragionamenti, parte II, giornata I).

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Pietro Aretino nella “Talanta”, tramite le parole del romanesco Ponzio, dichiara:

«Ponzio: Sappi che le ribalde si danno a grattar l’arpicordo, a cicalar del mondo, et a cantar la solfa, per assassinar meglio altrui, e guai per chi vuole udire, come elleno san ben sonare, favellare e bene ismusicare».

(Talanta, Atto Secondo, scena II)

Secondo l’autore, le uniche virtù che le cortigiane possiedono sono quei lacci e quelle gentilezze che utilizzano per ingannare gli amanti; non a caso la protagonista da cui prende nome la commedia è una cortigiana che ha ben quattro spasimanti, l’anziano capitano Tinca, un vecchio avaro veneziano, il romano Armileo e il giovane Orfinio. Quest’ultimo, dopo che la serva Ardella non gli permette di entrare nella casa dell’amata Talanta, confrontandosi con il servo Pizio, maledice ed elenca tutte le nefandezze delle cortigiane:

«Orfinio: Và e fidati di meretrici tu, và e credi a le loro apparenze, e mentre con un sospiro finto tutte languide e tutte tenere ti gettan le braccia al collo, tienle per le tue, perocchè il bascio che la lor fraude in cotal atto ti stampa in bocca, ne fa fede.

Pizio: […] la malizia è tanto di lor natura, quanto la bontà non è di lor costume è…] la puttana, che ha in preda l’altrui affezione, signoreggia, comanda, ordina e veta; onde è forza, se caccia, andarsene, se chiama, venire, se chiede, darle, e se minaccia, temere».

(Talanta, Atto Primo, scena VII)

Difatti, Talanta approfitta dei sentimenti di Orfinio chiedendogli in maniera sfrontata di concederle tre giorni da dedicare agli altri suoi amanti, in cambio di dieci lunghi giorni d’estate in cui si offrirà solo a lui; ovviamente tale proposta nasce dall’avidità della donna che, oltre ai regali di Orfinio, brama ardentemente anche i presenti degli altri corteggiatori per riuscire ad aumentare, così, il proprio guadagno.

Nell’Interesse di Nicolò Secchi, il servo Zucca, dialogando con il servo Testa, ritrae in maniera particolareggiata le ribalderie delle cortigiane:

«Zucca. Anche le cortigiane fanno la panata a trentadiavoli, ti mettono la mano nella borsa, ne si vedono mai satie, e bisogna rubbare la casa

136 per dare loro, […] sono anch’esse tante sirene e streghe che imbindano

gli occhi ai suoi clientuli che per eccitargli il gusto, gli apparecchiano subito l’insalata di risi, scherzi, carezze sì soavi, che moverebbero le pietre. Gli sono subito intorno con mille basci finti e abbracciamenti simulati per levargli l’anima con il corpo; e poche pensi che gli faccino tanti vezzi […] se non per rubargli la borsa, una veste, un gioiello, una collana». (L’Interesse, Atto Terzo, scena IV)

Abili ammaliatrici e seduttrici, le meretrici conquistano il loro amanti simulando dolcezze, affetto e carinerie, al fine di sottrarre con l’inganno qualsiasi tipo di ricchezza alle loro vittime.

Nella “Trinozzia” di Luca Contile, significativa è la scena in cui la cortigiana Laide, con una falsa scusa, deruba il corteggiatore Brondio:

«Brondio: Sono lo Brondio innamorato tuo, non mi conosci? [..] Laide: Non te lo crederei gia mai.

Brondio: Poca faccenda te’l può far credere. Questo anello non è di Brondio: l’havrai pur veduto più d’una volta. […]

Laide: Non crederò mai che tu sia Brondio. ma fa questo, darami l’anello e avviati a casa mia. Quivi ti farò spogliare e se tu sarai tu, farò ciò che ti piacerà.

Brondio. Qual vuoi di questi dui? Laide: Il Diamante.

Brondio: E si trovarai che io son Brondio, farai quanto mi parrà? Laide: Di buona voglia, va via. Gran disgrazia è vedere un vecchio balordo innamorato. Questo anello non l’havrà egli gia più».

(Trinozzia, Atto Primo, scena V)

Laide non è per niente interessata al vecchio lussurioso perché è perdutamente innamorata del servo Pronognite ma, nonostante ciò, con grande astuzia riesce a truffarlo sottraendogli un diamante in cambio di futuri piaceri.

Ancora, ne “Il Martello” di Giovanni Maria Cecchi, la serva Agnola delinea le astuzie di cui le cortigiane si servono per tenere avvinti i propri amanti:

«Agnola: Gli amanti messer Fabio vogliono essere come il pesce […] stantio non val niente. Quei che vengono dinuovo fan per noi. I danar ballano […] dove poi oh l’asino che ha mangiata la biada! E però è utile

137 farvi stare a dieta, acciò o tornandovi il gusto, voi torniate ai primi

termini; o sì che alzando all’aria, resti libera la stanza agli altri che cibar si vogliono. Ogn’arte ha i suoi statuti e le sue regole, e chi l’osserva fa profitto e utile; chi non l’osserva fallisce […]».

Agnola spiega che talvolta gli amanti dopo aver ricevuto favori e comodi dalle cortigiane, fanno come l’asino che ha mangiato la biada ovvero si dimostrano ingrati e quindi, per evitare che ciò accada, le cortigiane devono far ‘digiunare’ i propri amanti così che torni in loro la voglia iniziale oppure lascino libero il campo ad altri amanti.

La serva continua spiegando al giovane Fabio che bisogna cacciar via gli amanti vecchi e attrarne di nuovi poiché, presi dalla passione, si mostrano liberali e facili allo spendere.

In questo caso, Agnola parla a nome della sua padrona Angelica che, secondo quanto afferma lo studioso Fortunato Rizzi, si distingue dalla sua antenata romana Philaenium per essere una meretrice volgare che non si pone scrupoli nel preferire gli amanti che pagano; invero nella terza scena del terzo atto Angelica preferisce al giovane Fabio un altro amante, Lanfranco, poiché le ha promesso una consistente quantità di denaro. Invece la Philaenium dell’Asinaria di Plauto è presentata sotto una luce più benevola in quanto è innamorata del suo Argyrippus ed è la lena che la costringe a scegliere gli amanti ricchi.

Tuttavia, alla fine della commedia Giovanni Maria Cecchi propone una sorta di conversione della cortigiana Angelica poiché, dopo ave trovato marito, afferma:

«Io ho conosciuto il miserissimo e infelice grado di noi povere e sfortunate, che il corpo e l’anima gettiamo insieme e sempre siamo in triboli».

(Il Martello, Atto Quinto, scena IX)

Anche nel “Pellegrino” di Girolamo Parabosco, Naffisa, la madre della cortigiana Lauretta, spinge la figlia tra le braccia di un amante vecchio ma ricco tentando di dissuaderla dal giovane amante di cui si è invaghita:

«Naffisa: E tu pur voi a le tue bagatelle gir sempre dietro, e haver più caro un giovane, che ti consumi il tuo, che farti amante un huom matur che t’arricchisca […] Oltra che questi tai (i giovani) non han da spendere: che importa il tutto, ancor son bizzarri, fastidiosi, e incostanti,

138 e quello poco che possono spendere, lo dividono al fine in tante parti

[…]

Lauretta: Anzi i giovani son che son pieghevoli a le richieste altrui, voi v’ingannate c’amorevole più si trovi un vecchio.

Naffisa: pagano i vecchi doppiamente pazza.

Lauretta: Tenete voi quella moneta ch’eglino altrui dan doppiamente. Naffisa: Eh pazzerella tu vuoi la berta ma ten pentirai».

In questo dialogo Naffisa assume il ruolo di mezzana spiegando alla figlia che è preferibile evitare i giovani amanti in quanto oltre ad essere fastidiosi e incostanti, sono poveri e quel poco che hanno lo spendono per i loro piaceri (vestiti e giochi). Tali consigli ricordano i celebri dialoghi tra mezzane e cortigiane proposti da Pietro Aretino ne “Il Ragionamento

della Nanna e dell’Antonia”, del 1534, e il “Dialogo della Nanna”, del 1536 in cui si

mescolano ruffianeria ad insegnamenti di meretricio con lo scopo di formare una perfetta cortigiana in grado di utilizzare nel miglior modo possibile le arti di seduzione per diventare l'amante di uomini ricchi e potenti da cui trarre vantaggi economici; più tardi nel “Dialogo

della bella creanza delle donne” anche Alessandro Piccolomini propone un dialogo tra

Raffaella e Margarita: la prima incarna la funzione di una mezzana che con toni meno volgari rispetto a quelli utilizzati dalla Nanna, istruisce non una cortigiana ma una giovane sposina trascurata dal marito, sul modo in cui valorizzare al meglio la propria femminilità, sul diritto a curare la propria bellezza e a goderne i piaceri erotici.

Ricollegandoci alle nostre commedie, Benedetto Varchi ne “La Suocera” offre un interessante dialogo tra la vecchia ruffiana Nastasia e la cortigiana Fulvia:

«Nastasia: Naffe, io t’ho detto mille volte, Fulvia, che tu non abbi né misericordia né discrezione di nessuno, e che tu tragghi da tutti e in tutti i modi tutto quello che tu puoi, se tu dovessi ben cavarne un puntal di stringa, guarda un poco come fan le altre, […] che pelano, anzi scorticano, chiunque capiti loro alle mani.

Fulvia: Ah monna Nastasia!

Nastasia: Sappi, figliuola mia, che nessuno di loro viene a te, se non forzato, e che s’ingegni molto bene di cavarsi le sue voglie con più parole e meno danari che egli può. […]

139 Fulvia: Non mi par ragionevole di dover essere la medesima con

ognuno.

Nastasia: Non ti par giusto di far ad altri quello che essi cercano di fare a te? […] Ricordati un poco, quante volte tu sei stata ingannata: non voglio, se non ultimamente Gismondo».

(La Suocera, Atto Secondo, scena I)

La mezzana Nastasia, mette in guardia la cortigiana dall’eccessiva bontà nei confronti degli uomini cercando di convincere Fulvia tramite la propria esperienza e l’inganno dell’ex amante Gismondo. L’esempio personale di cui si serve Nastasia introduce il tema sulla dura condizione delle prostitute, ammirate e ricercate dagli amanti solo finché sono belle, per poi essere abbandonate allorché la loro bellezza svanisce e gli uomini passano a rivolgersi altrove. Di qui la necessità di pensare per tempo al futuro per non ritrovarsi da vecchie, sole e senza mezzi; proprio come dichiara la serva Agnola del “Martello”:

«Agnola: Considerate voi che noi abbiamo a vivere e che il fior de’ begli anni dell’Angelica è ora; e s’ella il lassa senz’un utile, per la vecchiaia che gli avanza? Il lastrico».

(Il Martello, Atto Terzo, scena V)

Non a caso molte prostitute, una volta invecchiate, diventano mezzane per necessità economiche: si veda per esempio la Lena dell’Ariosto che da malmaritata e prostituta intende imparare il mestiere di ruffiana per provvedere alla propria vecchiaia:

«S’io avessi a star tutta giovane, il mantener amendue col medesimo modo usato fin qui, mi saria agevole; ma come le formiche si provveggono pel verno, così è giusto che le povere par mie per la vecchiezza si provveggono; e, che, mentre v’hanno agio, un’arte imparino, […] e che arte poss’io far, che più proficua ci sia di questa (ruffiana), e che mi sia più facile ad imparar?».

(La Lena, Atto Quinto, scena XI)

Tale è la risposta di Lena alle accuse del marito Pacifico contrariato dall’intenzione della moglie di ruffianar le figliuole degli uomini da ben.

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Per tanto le cortigiane devono mettersi in guardia dalle ingiurie degli amanti offesi, dalle pressioni delle ruffiane e cercare di ottenere sempre l’utile da tutti gli amanti per contrastare la precarietà del loro lavoro che finisce con lo svanire della giovinezza.