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S POSE DISINIBITE

III. LE NUOVE SFUMATURE DEI PERSONAGGI FEMMINIL

III.1 L’ EVOLUZIONE DELLA FANCIULLA

III.2.2 S POSE DISINIBITE

Se finora ho analizzato quel genere di malmaritate che si adattano al risultato della seduzione, in questo paragrafo vorrei invece porre in evidenza quelle malmaritate che, in modo disinibito, prendono esse stesse l’iniziativa di sedurre giovani amanti trovando, nelle ripetute infedeltà e nelle iterate avventure, un modus vivendi.

Riallacciandoci al “Candelaio” di Giordano Bruno, Marta, moglie di Bartolomeo, desiderosa d’altro che d’oro e ricchezze, coglie la prima occasione per abbandonarsi nelle braccia di Barro:

«Meschina me! Ero più contenta, quando questo zarrabuino di mio marito non avea tanto da spendere, che non potrei essere al dì d’oggi. Allora giocavamo a gamba, a collo, alla strettola, a infilare, a spaccafico, al sorecillo, alla zoppa, alla sciancata […] Con queste ed altre devozioni passavamo la notte e parte del giorno. Adesso perché ha scudi di vantaggio per la eredità di Pucciolo […] ecco lui posto in pensiero, angosce, tema di fallire, suspicion di essere rubbato, ansia di non essere ingannato da questo, assassinato da quell’altro […]. Tra tanto, oggi, gran mercè a Barro, chè, se lui non fusse, potrei giurare, che più di sette mesi sono, che non me ci ha piovuto».

Utilizzando un linguaggio scurrile, Marta lamenta il cambiamento del marito che, dopo essersi arricchito, non ha più avuto rapporti sessuali con lei perché colto da preoccupazioni e ansie di essere ingannato e derubato; quindi in maniera sfacciata ringrazia Barro per averla soddisfatta dopo sette mesi di astinenza. Ciò è confermato dallo stesso Barro che, dialogando con Lucia esplicita il maggior profitto che trae da Bartolomeo:

119 «Barra. Ah Ah Ah, il suo marito era ad attizzar la fornace, a lavorar più

dentro; ed io lavoravo con lei a la prima camera».

(Candelaio, Atto II, scena sesta)

E’ quindi evidente che mentre Bartolomeo attende ad un’alchimia, sua moglie Marta lo tradisce con Barro.

Nella “Calandria” di Bernardo Dovizi da Bibbiena, Fulvia, moglie del ricco Calandro ma innamorata di Lidio, è franca e ardita nel cercare il piacere e non esita a travestirsi da uomo per andare a casa del ragazzo che ama:

«Fulvia. Nulla è certo, che Amore altri a fare non costringa. Io, che già sanza compagnia a gran pena di camera uscita non sarei, or, da Amor spinta vestita da uomo fuor casa me ne vo sola. Ma se quella era timida servitù, questa è generosa libertà».

Qui con sua grande sorpresa, trova il marito tra le braccia di una prostituta e anziché farsi intimidire, si mette a inveire da comare gelosa dimostrando furbizia e sfacciataggine nel fingersi disperata e offesa:

«In fede mia, non so come io mi tengo che io non ti cavi gli occhi. E forse non pensavi ascostamente farmi questo inganno? Ma per mia fè, tanto sa altri quanto tu. E a quest’ora, in questo abito, d’altri non fidandomi, io propria sono venuta per trovarti. E così ti meno, come sei tu degno, sozzo cane, per svergognarti e perché ognuno prenda compassione di me che tanti oltraggi da te sopporto ingrato».

(Atto Terzo, scena VII)

In sostanza, Fulvia recrimina al marito Calandro l’errore che lei stessa è sul punto di commettere ed è costretta a farlo per dissimulare il suo tentato adulterio e salvare così il proprio onore.

Marta e Fulvia costituiscono quindi l’esempio due mogli che si sono adattate da tempo alla stupidità del marito e non hanno scrupoli nel soddisfare altrimenti la loro sessualità.

Un’irrefrenabile sensualità contraddistingue le due protagoniste della Veniexana, Angela e Valeria che non si fanno sedurre, ma seducono Julio, sono, come dice il prologo, “non amate, ma amanti”; esse rappresentano perciò il completo capovolgimento della

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tradizione plautino-terenziana: le donne sono le conquistatrici e non gli uomini, le fantesche Nenia ed Oria (non i servi o i parassiti) aiutano le padrone alle loro imprese amorose, il facchino Bernardo (non una donna) fa da mezzano.

Significativo è il dialogo di Valeria che parla con il suo innamorato servendosi di un linguaggio patetico che non ignora la consapevolezza della schiavitù della carne, cui Iulio risponde con termini di stampo petrarchesco:

«Valeria. Vu avè guadagnà un corpo e un’anima che gera persa, se non vegneve a vederla.

Iulio. Signora non volio aver guadagnato più che la grazia de Vostra Signoria, chè quella se degna avermi in servitore suo.

Valeria. Digo in mio mazor. Vu avè ben che pena m’avè dà, perché volesto esserve mazora. Ma da qua avanti voio esserve menora in ogni canto».

(Venexiana, Atto Quarto, scena VI)

Grande attenzione merita la Lena nell’omonima commedia ariostesca in quanto è contemporaneamente malmaritata e prostituta intenta a diventare, per ragioni d’età, mezzana. Difatti accusa il marito Pacifico di essere responsabile della sua prostituzione poiché si fa mantenere con i suoi guadagni:

«Lena. Chi m’ha fatto puttana?

Pacifico. Così chiedere potresti a quei che tuttodì s’impiccano chi li fa ladri. Imputane la propria tua volontà.

Lena. Anzi la tua insaziabil golaccia, che ridotti ci ha in miseria; che, se non fossi stata io che, per pascerti, mi sono di cento gaglioffi fatta asina, saresti morto di fame. Or pel merito del bene ch’io t’ho fatto, mi rimproveri, poltron, ch’io sia puttana?».

Più avanti Lena spiega al marito che è inevitabile per lei diventare una mezzana d’amore perché nel momento in cui la sua giovinezza svanisce, alle prostitute non resta che praticare quest’arte semplice ma proficua:

121 «Pacifico. Bastar, Lena, dovrebbeti che de la tua persona a benplacito

tuo faccia sempre, e ch’io lo vegga e toleri; senza volerci ancor porre infamia di ruffianar le figliuole degli uomini da ben.

Lena. S’io avessi a star tutta giovane, il mantener amendue col medesimo modo usato fin qui, mi saria agevole; ma come le formiche si proveggono pel verno, così è giusto che le povere par mie per la vecchiezza si proveggano».

Anche nel “Decameron” ritroviamo mogli che seducono giovani amanti, prima fra tutte Lidia, sposa del re Nicostrato che, nella nona novella della settima giornata è disposta addirittura ad affrontare tre prove difficili pur di conquistare l’amore del servo Pirro; la narrazione si conclude con l’esito positivo delle prove e la conseguente relazione extra matrimoniale tra i due amanti. Nella decima novella della quinta giornata, la moglie di Pietro di Vinciolo, scoperta l’omosessualità del marito si sente invece obbligata a lanciarsi in amori adulterini tant’è vero che, quando Pietro scopre il suo amante non obietta ai motivi che lei gli espone per giustificarsi perché sa che ha pienamente ragione:

«io vorrei innanzi andar con gli stracci indosso e scalza e esser ben trattata da te nel letto, che aver tutte queste cose trattandomi come tu mi tratti. E intendi sanamente Pietro, che io son femina come l’altre e ho voglia di quel che l’altre, sì che, perché io me ne procaciassi, non avendone da te, non è da dirmene male. Pietro s’avide che le parole non eran per venir meno in tutta notte».

Ecco ritornare il motivo della donna come essere ipersessuato dal momento che gli autori attribuiscono alla donna una maggiore e più sfrenata sensualità; questo tema è ampiamente trattato anche nella novella 57 della terza raccolta di Bandello in cui tutte le mogli, indipendentemente dal loro status sociale e livello culturale, sono accomunate dalla loro natura ipersessuata:

«Chi non sa che per altro non si maritano se non per aver compagnia la notte? […] Le maritate il giorno hanno mille traffichi, mille affari e mille lavori per le mani […]. La notte poi, perché tutta non si può

122 dormire, vuol ogni donna, sia di qualità si voglia, esser ben

accompagnata».

(Novella 57, terza parte)

Perciò, in tale categoria di malmaritata predomina il pregiudizio misogino della donna vista come una creatura mutabile, dominata da insaziabili appetiti sessuali.