2.4 L’Italia prima di partire
Tavola 7.7 Metodi di reperimento del lavoro e durata della ricerca (in mesi) del primo lavoro in Italia
8.1 Cos’è la discriminazione e come la si studia
In linea generale, con “discriminazione” ci si riferisce al fatto che, all’interno di un pro- cesso decisionale, si verifichi un trattamento differenziale - in ragione di caratteristiche qua- li il genere, l’età o l’appartenenza etnico-razziale - che possa generare conseguenze rilevanti in termini di svantaggio sistematico nell’accesso a risorse pubbliche e/o private, come, ad esempio, l’accesso alle varie posizioni occupazionali o le chances di carriera professionale (Simon 2013). Nel caso dei migranti, il trattamento differenziale, in genere, deriva dal fatto stesso di essere stranieri o dalla provenienza nazionale, spesso qualificata in termini di “appartenenza etnica” (Quillian 2006: 300-301)2.
In letteratura, il concetto di discriminazione è stato specificato in vari modi.
In primo luogo, la discriminazione può essere negativa o positiva: nel primo caso (di- scriminazione negativa) si generano o vengono riprodotte condizioni di svantaggio nell’ac- cesso a risorse e ad ambiti di vita cruciali (lavoro, casa, credito, servizi, sicurezza); nel secondo caso (discriminazione positiva), il trattamento differenziale avvantaggia alcuni gruppi, operando come uno strumento politico di compensazione rispetto a condizioni di svantaggio manifestatesi storicamente sul piano razziale, etnico, di genere, religioso.
In secondo luogo, la discriminazione può avere un carattere istituzionale – ovvero, essere inscritta nelle norme formali che regolano l’accesso a determinate risorse3 e/o istitu- zionalizzata nelle prassi di applicazione delle normative e di attuazione delle politiche4 - op- pure può permeare di sé il modus operandi di soggetti che svolgono il ruolo di gatekeepers all’interno di relazioni di carattere privatistico (di mercato)5.
Una terza distinzione, che si focalizza sul ruolo giocato da pregiudizi e stereotipi, riguar- da, da un lato, la discriminazione taste-based - che ha luogo quando coloro che appartengono a specifici gruppi vengono discriminati perché meno preferiti da chi, di volta in volta si trova 1 Il capitolo è stato redatto da Ivana Fellini, Giovanna Fullin, Fabio Quassoli (Università di Milano-Bicocca). Gli autori ringraziano Emilio Reyneri, per i commenti e i preziosi suggerimenti, e Valentina Recalcati, per le prime elaborazioni sul dataset.
2 Con “appartenenza etnica” ci riferiamo a uno schema di classificazione e a dispositivi di categorizzazione che si basano su una concezione essenzializzata dell’etnicità (Baumann 1999). La discriminazione su base etno-nazionale (o razziale), infatti, rappresenta un esempio perfetto di come categorizzazioni che incorporano un pregiudizio negativo e diffuso nei confronti di certi gruppi possano creare la realtà che presuppongono di rappresentare/descrivere: sono, per dirla con Thomas, reali nelle conseguenze che generano (Thomas, Thomas 1928).
3 Nel caso italiano, l’esempio più lampante di discriminazione istituzionale in ambito lavorativo riguarda la riserva a favore dei cittadini italiani o, a seconda dei casi, di quelli dell’Unione Europea, nell’accesso a posizioni lavorative entro la pubblica amministrazione.
4 Alcuni esempi interessanti, che illustrano la centralità del piano della street-level burocracy nell’utilizzo in senso discriminatorio di normative che, di per sé, non lo sono vengono forniti da Gargiulo (2012) che mostra come l’interpretazione più o meno restrittiva delle normative sulla residenza e i controlli che vengono effettuati nella fase di valutazione della domanda – a seconda che i richiedenti siano cittadini italiani o stranieri - condizionino fortemente la possibilità di accedere alle misure di welfare e ai servizi pubblici erogati a livello locale.
5 Si pensi, ad esempio, alle ricerche effettuate sulla discriminazione etno-razziale nell’accesso a posizioni lavorative ove esso sia mediato da agenzie di selezione del personale. Cfr. Agocs 2002.
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Vita e percorsi di integrazione degli immigrati in Italia ad esercitare un qualche tipo di potere decisionale (Simon 2013) - e quella statistica, che si manifesta quando, dovendo scegliere in condizioni di incertezza, chi decide ricorre all’infor- mazione veicolata da categorizzazioni stereotipizzanti positive o negative al fine di colmare un gap informativo (Aigner, Cain 1977). È interessante, a questo proposito, notare, come se nel secondo caso (discriminazione statistica) il fornire maggiori informazioni sul gruppo a rischio di discriminazione può rassicurare chi opera, ad esempio, nel mercato del lavoro, riducendo o eliminando il potenziale discriminatorio delle pratiche di selezione del personale, nel primo caso, il livello di informazione non influisce sul comportamento discriminatorio, che rimane comunque tale anche a fronte di una maggiore conoscenza dei gruppi in questione.Una quarta distinzione, che specifica la precedente, riguarda il carattere diretto o in- diretto del trattamento differenziale. Si parla di discriminazione diretta quando alcune ca- ratteristiche personali, grazie alle quali le persone vengono classificate come appartenenti a specifici gruppi sociali, orientano le preferenze dei decisori, influenzando direttamente il processo decisionale6. Si parla, al contrario, di discriminazione indiretta quando, pur non venendo adottati criteri estranei a quanto esplicitamente previsto nel processo di valuta- zione, coloro che appartengono a determinati gruppi sociali, in virtù di una condizione di svantaggio che li penalizza in modo sistematico, si trovino ad essere, più spesso di altri, privi delle requisiti e/o delle competenze che ne farebbero dei candidati potenzialmente di successo. Analogamente a quanto accade in presenza di trattamenti differenziali diretti, gli effetti prodotti da forme indirette di discriminazione riguardano l’accentuazione e la croni- cizzazione delle diseguaglianze con seri rischi di esclusione sociale (Reskin 1998)7.
L’ultima distinzione, che è bene tenere in considerazione nell’analisi della discriminazio- ne, è quella tra diseguaglianze e discriminazione. Essa riguarda, da una parte, condizioni di diseguaglianza considerate legittime, ragionevoli e socialmente accettabili in un determinato contesto storico-sociale (Ambrosini 2012), dall’altra, trattamenti differenziali incompatibili con principi di carattere giuridico-filosofico in materia di giustizia distributiva o con la tradu- zione, sul piano normativo, di tali principi. L’esempio classico, riguarda l’accesso “graduale”, riservato ai cittadini di origine straniera, ai diritti politici e sociali (Zincone 1999) o le già richiamate restrizioni rispetto all’accesso a posizioni lavorative interne alla pubblica ammi- nistrazione. In tutti questi casi, la questione riguarda la legittimità della riserva a favore di alcuni gruppi rispetto ad altri o il carattere discriminatorio di norme e leggi che danno luogo a forme di esclusione istituzionalizzata. La querelle, tuttavia, non riguarda solo l’esistenza di differenze sul piano strettamente giuridico, che limitino l’accesso alle diverse posizioni e risorse sociali, ma si estende anche a disuguaglianze sistematiche fra gruppi (autoctoni/ immigrati, uomini/donne, giovani/anziani) rispetto alle chance intra-generazionali e inter- generazionali di mobilità sociale e può essere riassunta chiedendosi fino a che punto sia giusto considerare legittima una condizione di vantaggio - sia sul piano formale sia su quello sostanziale – che si riproduce nel tempo a favore di alcuni gruppi rispetto ad altri, o in che misura essa possa costituire una discriminazione su base, ad esempio, etno-nazionale8. 6 L’esempio tipico è quello riguardanti dei candidati per un posto di lavoro che vengono esclusi o ricevono un trattamento
sfavorevole esclusivamente in ragione di una classificazione di tipo etno-nazionale o di genere.
7 A questo proposito, è utile notare come, da un lato, la crescente sensibilità – ad esempio a livello europeo - nei confronti dei fenomeni di discriminazione diretta e l’implementazione di politiche volte al loro contrasto abbiano reso le forme di discriminazione esplicita sempre meno diffuse. Dall’altro lato lo stesso non può essere affermato riguardo alle discriminazioni indirette, soprattutto ove esse si materializzino sul piano sostanziale e siano, dunque, individuabili a partire da dati statistici relativi alle chance differenziate che i gruppi sociali mostrano di avere rispetto alla fruizione di determinate risorse sociali.
8 Tutto questo, naturalmente, si complica, ove si considerino anche le discriminazioni indirette, intese come precondizioni che possono impedire o rendere molto difficile l’accesso a determinate risorse per determinati gruppi sociali.
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8. La percezione della discriminazione etnica sul lavoro
Le cinque possibili specificazioni che abbiamo introdotto – discriminazione positiva e negativa, discriminazione istituzionale e di mercato, discriminazione taste-based e statisti- ca, discriminazione diretta e indiretta, discriminazione e/o disuguaglianza – si intrecciano poi con i differenti approcci di carattere metodologico allo studio empirico della discrimi- nazione presenti in letteratura.
Un approccio molto diffuso, ma poco interessante dal nostro punto di vista, è costituito dall’analisi - in chiave di filosofia, teoria e sociologia del diritto - della produzione norma- tiva (dai principi costituzionali ai regolamenti attuativi e amministrativi) che regolamenta i diversi ambiti della vita sociale. Si tratta, da un lato, di un lavoro fondamentale e imprescin- dibile finalizzato a gettare luce su come il trattamento differenziale sia spesso inscritto, non sempre in termini espliciti, nelle stesse disposizioni normative. Dall’altro lato, tuttavia, tale analisi non può che rimanere confinata alle forme di discriminazione manifeste e istituzio- nalizzate (Ambrosini 2012, Nielsen, Nelson 2008,Roscigno 2007).
Un secondo approccio è costituito dall’analisi statistica di dati di survey condotte ad
hoc e/o di fonti secondarie in relazione alle disparità di carattere etnico e razziale con riferi-
mento, ad esempio, ai percorsi formativi e lavorativi. In questi casi la spiegazione in termini di discriminazione delle differenze nelle chances lavorative tra diversi gruppi sociali costi- tuisce una dimensione esplicativa residuale nel rendere conto dei differenti tipi e gradi di disuguaglianze (Saraceno, Sartor, Sciortino 2013, Fullin 2016, Van Tubergen et al. 2004). Il problema, infatti, come abbiamo ricordato poco sopra, riguarda i confini tra disuguaglianze accettabili e discriminazione. Il limite maggiore di questo tipo di ricerche, tuttavia, riguarda il fatto che la presenza di trattamenti differenziali non può essere analizzata con riferimento ai contesti concreti nei quali essi si manifestano e si articolano (Pager, Shepherd 2008).
Un terzo approccio, considerato da molti come il più indicato per passare dal piano delle percezioni e delle rappresentazioni a quello delle pratiche sociali, è costituito dagli studi spe- rimentali. Si tratta di studi di tipo sia quantitativo sia qualitativo (spesso i due metodi sono usati in modo integrato, secondo la logica della mixed-methods research), che si concentrano sulle pratiche concrete e sugli ambiti di interazione reale (Dovidio, Gaertner 2000), affrontano direttamente il tema della discriminazione e permettono di controllare gli effetti di molte altre variabili. La logica dell’esperimento sul campo basata su audit -condotti in forma sia diretta (vis-a-vis) sia mediata (tramite telefono, email o social media)- prevede, infatti, che i ricercato- ri selezionino una serie di individui, detti “tester” (reali o fittizi) – che devono essere addestrati a impersonare ruoli specifici (ad esempio, quello di candidati a un posto di lavoro) - in modo che siano il più possibile simili tra loro tranne che per una caratteristica – ad esempio, la provenienza nazionale – che è proprio quella la cui valenza deve essere isolata e “misurata”9.
Nonostante sia considerato il metodo più efficace e attendibile per documentare l’effettiva portata dei processi di discriminazione, in Italia, finora, è stato adottato in rari casi, almeno per quanto riguarda le ricerche di tipo accademico (Allasino et al. 2004, Zegers de Beijl 2000).
Un quarto ed ultimo approccio – che è quello al quale faremo riferimento nei paragrafi successivi - è costituito dallo studio delle percezioni e delle rappresentazioni tanto dei “di- scriminati” (membri di minoranze, migranti) quanto dei “discriminatori” (datori di lavoro, proprietari di abitazioni, insegnanti, giudici, poliziotti, etc.). È condotto tramite questionari strutturati e/o interviste discorsive e mira a rilevare, dal punto di vista dei perpetrators, la presenza, l’intensità e la distribuzione all’interno di una specifica popolazione di rappre- sentazioni stereotipate e stigmatizzanti di specifici gruppi sociali, o, da quello delle vittime, 9 Cfr. Bertrand and Mullainathan 2003 e Pager 2007.
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Vita e percorsi di integrazione degli immigrati in Italia la diffusione, la gravità e l’articolazione delle forme di discriminazione percepite (Holzer 1999, Kirschenman, Neckerman 1991). Si tratta di un modo di studiare la discriminazione che presenta alcuni aspetti piuttosto controversi. Un primo rinvia al fatto che il significato di categorie politicamente controverse come quella di discriminazione non possa essere ritenuto condiviso, ma si connoti per un’ampia variabilità di significati e di utilizzi. Non sempre, ad esempio, i perpetrators sono consapevoli del carattere discriminatorio delle decisioni che prendono e dei comportamenti che mettono in atto (Pager, Shepherd 2008) e, ad ogni buon conto, possono mostrare una certa reticenza nell’esprimersi liberamente circa il loro modo di trattare le persone in ragione della nazionalità o dell’etnia. Anche per le vittime, peraltro, non è semplice distinguere in che misura un trattamento che viene perce- pito come ingiusto derivi effettivamente da categorizzazioni di tipo razziale o etno-nazionale e in che misura non possa dipendere da altri fattori che nulla hanno a che fare con pratiche discriminatorie (Feagin, Sikes 1995). Questo tipo di analisi, inoltre, richiede che si effettui un passaggio piuttosto problematico dagli stereotipi ai comportamenti discriminanti (La- Piere 1934, Moss, Tilly 2001, Pager, Quillian 2005). Alcuni studi di carattere sperimentale, ad esempio, hanno messo in luce come coloro che manifestano apertamente pregiudizi negativi nei confronti di determinati gruppi sociali possono essere al contempo molto poco propensi a prendere decisioni e a mettere in atto comportamenti negativi nei confronti di questi stessi gruppi (Holzer 1999, Kirschenman, Neckerman 1991,Waldinger, Lichter 2003). Più in generale, come vedremo meglio nel prosieguo del capitolo, succede spesso che le variabili che risultano correlate positivamente o negativamente con la presenza e la frequenza di trattamenti discriminatori (l’esempio classico è il livello di istruzione) possono essere invocate per rendere conto sia della maggiore o minore intensità di un trattamento differenziale sia delle maggiore o minore predisposizione dei soggetti a leggere in termini di discriminazione le decisioni che li riguardano. Alcune variabili usate comunemente per qualificare l’intensità e le caratteristiche di trattamenti differenziali, infatti, svolgono anche un ruolo importante nella costruzione delle aspettative dei soggetti in relazione a quale deb- ba essere un trattamento fair o, comunque, socialmente accettabile nei loro confronti, con la conseguenza che non è spesso semplice discriminare tra presenza effettiva di trattamenti differenziali da parte, ad esempio, di un datore di lavoro e la loro percezione. Una conside- razione, questa, che potrebbe spiegare sia a una maggiore sia a una minore discriminazione percepita rispetto a quella che emergerebbe da una ricerca di tipo sperimentale.Nonostante queste difficoltà di interpretazione, i dati rilevati dall’indagine Condizione e Integrazione Sociale dei Cittadini Stranieri sono una fonte preziosa – e unica nel suo genere - di informazione sui processi discriminatori nei confronti degli immigrati presenti in Italia. Si cercherà, pertanto, di utilizzare al meglio i dati a disposizione al fine di delineare quali sono le forme principali di discriminazione (cfr. par. 8.2), quali sono i soggetti che maggior- mente lamentano fenomeni di discriminazione nello svolgimento del lavoro (cfr. parr. 8.3 e 8.4) e se questi fenomeni tendono a concentrarsi in particolari tipi di impiego o contesti di lavoro (cfr. parr. 8.5 e 8.6).