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2 4 1 [Critica al dovere di controllo incrociato] Con riferimento alle

ipotesi in cui il medico in posizione subordinata collabori col medico in posizione apicale e ne derivi un evento infausto a causa delle scelte diagnostico-terapeutiche compiute dal primo a cui abbia aderito, o non abbia espressamente dissentito il secondo, la giurisprudenza, come abbiamo avuto modo di verificare, ipotizza un dovere di controllo reciproco fra i medici di diversa posizione funzionale. La prassi giurisprudenziale è sul punto particolarmente rigida323. Anzitutto, è bene chiarire che

322 C.DODERO, Colpa e cooperazione colposa nell’esercizio della professione sanitaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p.

1173 e ss.

323 Oltre ai casi giurisprudenziali precedentemente citati, cfr. Cass., sez. IV, 25 agosto 1994, Pizza, in C.E.D.

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non sembra distinguersi fra le due ipotesi astrattamente configurabili: a) evento infausto cagionato dall’inferiore gerarchico in esecuzione di direttive erronee; b) evento infausto cagionato dal superiore gerarchico con cui il subalterno abbia cooperato, condividendo l’approccio diagnostico-terapeutico rivelatosi erroneo. In ogni caso, la giurisprudenza riconosce comunque, tendenzialmente, una corresponsabilità di entrambe le figure professionali per avere, il primo, emanato ordini colposamente erronei o per aver operato difformemente alle leges artis; il secondo, mostrato acquiescenza rispetto alle scelte errate del superiore gerarchico, anziché sottoporle a revisione critica, fino a dissentire da esse costringendo il medico in posizione apicale ad avocare il caso alla propria responsabilità esclusiva.

La giurisprudenza di legittimità, in modo pressoché costante, riconosce che «il rapporto di subordinazione tra due sanitari, quali il primario di una divisione ospedaliera e

l’assistente, non può essere in nessun caso considerato tanto assoluto e vincolante da far ritenere che il sottoposto, nell’uniformarsi alle disposizioni del superiore, che concretizzino una condotta colposa, non vi cooperi volontariamente, e da esonerarlo, conseguentemente, dalla responsabilità per l’evento

la morte del paziente ricoverato, a causa di errore terapeutico compiuto dal medico in posizione apicale. L’assistente, infatti, «una volta ricevuto l’affidamento del paziente da parte del primario, ha l’obbligo di assumere, sulla base

delle conoscenze del caso acquisite, le iniziative necessarie per provocare in ambito decisionale i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche, con conseguente responsabilità per gli eventi lesivi che colpiscano il paziente a lui affidato». «La normativa che disciplina la ripartizione dei ruoli tra i medici operanti in una struttura sanitaria pubblica, D.P.R. n. 20 dicembre 1979 n. 761 (stato giuridico del personale delle U.S.L.) e D.P.R. n. 27 marzo 1969 n. 128 (ordinamento interno dei servizi ospedalieri) […] prevede che il medico appartenente alla posizione apicale assegni agli altri medici i pazienti ricoverati. Ne consegue che questo affidamento determina la responsabilità del medico affidatario per gli eventi a lui imputabili che colpiscono l’ammalato affidatogli».

Con riferimento al rapporto fra medico in posizione apicale e medico in posizione intermedia, cfr. Cass. Pen. Sez. IV, 7 giugno 2000, Perrino, in C.E.D. Cass., n. 216801. Caso in cui, a seguito di esame angiografico, emergeva come urgentissima la necessità di operare chirurgicamente una paziente a causa di un’emorragia cerebrale. Il primario aveva dato direttive nel senso che avrebbe operato personalmente i casi più delicati, per i quali avrebbe dovuto essere avvisato. Il medico in posizione intermedia, nell’attenersi a tale direttiva, tuttavia ometteva colposamente di compiere qualsiasi genere di intervento sulla paziente, anche meramente preparatorio rispetto all’intervento del medico gerarchicamente sovraordinato, per tale fatto eseguito tardivamente ed infruttuosamente: la paziente perveniva a morte. Nel ravvisare la responsabilità penale del medico in posizione intermedia, la S.C. ha ritenuto che «ancorché il primario possa, in relazione ai periodi di legittima

assenza dal servizio, imporre all’aiuto l’obbligo di informarlo ed ha diritto di intervenire direttamente», nel caso in cui egli

abbia espressamente affermato di voler avocare a sé la competenza su uno specifico caso clinico, «l’aiuto non

può restare inerte in attesa del suo arrivo, ma, essendo titolare di un’autonoma posizione di garanzia nei confronti del paziente, deve attivarsi secondo le regole dell’arte medica per rendere operativo ed efficace l’intervento del predetto primario, se del caso a quest’ultimo sostituendosi. Nella specie, invece, in attesa dell’arrivo del primario che aveva riservato a sé un intervento chirurgico urgente, l’aiuto non solo non aveva predisposto tutto l’occorrente all’operazione ma, essendosi protratto il ritardo, non aveva proceduto all’intervento, nonostante fosse, a suo giudizio, non ulteriormente procrastinabile». Anche in tal caso, dunque, le

direttive del medico in posizione apicale, comportando un evidente rischio per la salute del paziente anche in considerazione dell’estrema urgenza con cui s sarebbe in concreto dovuti intervenire, avrebbero dovuto essere disattese.

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derivante da quella condotta»324. Di conseguenza, pare trovare conferma quanto

sostenuto in precedenza circa l’inapplicabilità, in ipotesi di questo genere, dell’art. 51, comma 4 c.p.: gli ordini o le direttive del superiore gerarchico sono sempre sindacabili dal medico in posizione funzionale subordinata che ne è destinatario.

Ciò che desta perplessità è che la S.C. mostra di non dare rilevanza alla soggettiva riconoscibilità dell’erroneità dell’ordine del superiore gerarchico, argomentando genericamente che l’insussistenza di una rigidità gerarchica militare o paramilitare implica la volontarietà dell’adesione dell’inferiore gerarchico alla scelta del superiore e, di conseguenza, la condivisione della responsabilità per eventi lesivi che dovessero derivare dall’attuazione degli stessi ordini. Ancora una volta, la prassi giurisprudenziale pare accontentarsi dell’individuazione, in capo al medico subalterno, di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, per poi rinunciare, in modo più o meno evidente, ad una seria indagine circa la sussistenza di tutti gli elementi di cui si compone la responsabilità colposa, prima fra tutti l’individuazione di una regola cautelare violata in concreto.

È da ritenere, tuttavia, che sia inesigibile325 nei confronti del medico in

posizione funzionale subordinata che egli manifesti il proprio dissenso rispetto alle scelte operative del medico in posizione apicale in modo tanto deciso e netto da farlo risultare in cartella clinica; ma soprattutto, sembra non configurabile un generalizzato e costante obbligo di controllo incrociato fra figure professionali poste in differenti livelli funzionali326.

324 Cass. Pen. Sez. IV, 28 giugno 1996, n. 7363, Cortellaro, in C.E.D. Cass., n. 205829, e in Cass. pen., 1997, p.

3034: «L’assistente ospedaliero collabora con il primario e con gli aiuti nei loro compiti, deve seguire le direttive organizzative dei

superiori, ha la responsabilità degli ammalati a lui affidati e provvede direttamente nei casi di urgenza. Egli, nella qualità di collaboratore del primario e degli aiuti, non è tenuto, nella cura dei malati, ad un pedissequo ed acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari perché, qualora ravvisi elementi di sospetto percepiti o percepibili con la necessaria diligenza e perizia, ha il dovere di segnalarli e di esprimere il proprio dissenso e, solo a fronte di tale condotta, potrà rimanere esente da responsabilità se il superiore gerarchico non ritenga di condividere il suo atteggiamento».

Cfr. altresì App. Caltanissetta, 15 gennaio 2003, Salvaggio, in Foro it., 2005, II, c. 621, con nota di A.R.DI

LANDRO, la quale ha escluso che sia configurabile «un rapporto di dipendenza, in senso gerarchico, del singolo sanitario

ospedaliero nei confronti del titolare dell’incarico primariale all’interno del reparto ospedaliero in cui entrambi prestano la loro opera professionale, con la conseguenza che ogni espressa indicazione terapeutica non può mai vincolare il singolo sanitario, al quale spetta il potere di rivalutare le determinazioni del superiore, qualora individui l’esigenza di sottoporre il paziente a ulteriori indagini diagnostiche, ovvero di revocare le già disposte prescrizioni farmacologiche».

325 A.PALMA, La divisione del lavoro in ambito sanitario tra principio di affidamento e dovere di controllo, op. cit., p. 621; F.

AMBROSETTI-M.PICCINELLI-R.PICCINELLI, La responsabilità nel lavoro medico d’équipe, op. cit., p. 51;

326 Considerazioni critiche in A. VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero ed omissione colposa di trattamento

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Una soluzione di questo genere – pur conforme al dato normativo tutt’oggi vigente – non pare tenere in debita considerazione le dinamiche relazionali di un reparto ospedaliero in cui cooperano medici di cultura, perizia tecnica ed esperienza differenti. Non a caso, come già abbiamo posto in luce in precedenza, fra i compiti dei medici in posizione apicale rientrano quelli didattici; e non a caso i medici in posizione funzionale subalterna svolgono compiti assistenziali finalizzati anche al loro studio ed ulteriore apprendimento: si tratta di medici all’inizio del loro percorso professionale, i quali, pur ipotizzando che abbiano una cultura professionale teorica già approfondita, certamente non possiedono quell’esperienza che consente loro di affrontare autonomamente ogni tipo di intervento medico. Dunque, pretendere dai medici subordinati un controllo delle direttive o comunque dell’operato del medico in posizione apicale tanto da esprimere formalmente in cartella clinica un dissenso che comporti un dissociarsi dalle scelte operate da quest’ultimo sembra non tenere conto della situazione di “sudditanza” che spesso si realizza in tali rapporti professionali327.

Del resto, la dottrina ha da tempo posto in luce la funzione didattico- formativa del medico in posizione apicale in un settore, come quello medico- chirurgico, in cui accanto a regole cautelari consolidatesi nella prassi vi sono

cit., p. 54; D.GUIDI, L’attività medica in équipe alla luce della recente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, op. cit.,

p. 230.

327 D.GUIDI, L’attività medica in équipe alla luce della recente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, op. cit., p. 230:

«[…] il presunto “rapporto dialettico” tra primario ed assistente rappresenta a ben riflettere una mera astrazione, del tutto scollegata dalla reale configurazione dei rapporti tra medici in ambito ospedaliero e foriera di perniciose strumentalizzazioni in chiave incriminatrice». Cfr. altresì, A.VALLINI, Gerarchia in ambito

ospedaliero e omissione colposa di trattamento terapeutico, op. cit., pp. 1629 e ss.: «Il preteso rapporto “dialettico” tra

primario e assistente assume evidentemente i contorni di un’astrazione, di una fictio iuris (in malam partem, quando se ne vogliano ricavare conseguenze sul piano delle responsabilità penali) dimentica, nella sua assolutezza, del fatto che l’esercizio delle professioni sanitarie abbisogna di una preparazione culturale in egual misura teorica e pratica. Anche ammessa, a tutto concedere, un’equivalenza tra le cognizioni scientifiche del medico subalterno e di quello sovraordinato, rimarrebbe comunque inevitabile un divario di esperienza “sul campo”, tale da rendere ben poco razionale qualunque pretesa di controllabilità, almeno in linea di principio, delle scelte del primario da parte del medico ancora inesperto»; P. ZANGANI, Sul rapporto di

subordinazione tra primario e assistente ospedalieri: concorso nella responsabilità professionale, in Giust. pen., 1962, pp. 476

ss.; L.GIZZI, Équipe medica e responsabilità penale, op. cit., p. 135.

Particolarmente rigida appare, dunque, la giurisprudenza in tema di responsabilità penale del medico c.d. specializzando; cfr., Cass. Pen., Sez. IV, 6 ottobre 1999, n. 13389, Tretti, in C.E.D. Cass., n. 215538: «In tema

di colpa professionale del medico, il concreto e personale espletamento di attività operatoria da parte dello specializzando comporta pur sempre l’assunzione diretta anche da parte sua della posizione di garanzia nei confronti del paziente, condivisa con quella che fa capo a chi le direttive impartisce (secondo i rispettivi ambiti di pertinenza ed incidenza), sicché anche su di lui incombe l’obbligo della osservanza delle “leges artis”, che hanno per fine la prevenzione del rischio non consentito ovvero dell’aumento del rischio, con la conseguenza che non lo esime da responsabilità la passiva acquiescenza alla direttiva data ove non si appalesi appropriata, avendo egli al contrario l’obbligo di astenersi dal direttamente operare».

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tecniche e procedure d’avanguardia per fronteggiare situazioni di rischio sempre nuove. Il medico in posizione apicale in questi casi funge da tramite fra teoria e pratica, favorendo il consolidamento graduale di nuove tecniche e, in ultima analisi, di nuove leges artis328. Il potere di direttiva e di istruzione al personale subordinato

assume, quindi, una valenza didattica, ma anche una valenza più propriamente cautelare: le direttive del primario permettono di inserire nelle prassi operative regole comportamentali innovative e non ancora consolidatesi. In questi frangenti, supporre un obbligo di controllo incrociato fra primario e subordinati appare illusorio, dato che non sarebbe congruo pretendere dai secondi la stessa preparazione ed esperienza del primo329.

Appare, quindi, opportuno limitare l’ambito della rimproverabilità del medico in posizione subalterna. Potrà rispondere penalmente dell’esito infausto del trattamento medico-chirurgico da lui effettuato o a cui ha collaborato – esito determinato dalle scelte operative compiute dal medico in posizione apicale, cui egli ha aderito – quando il compimento dello stesso trattamento implichi la conoscenza di leges artis che egli ha già acquisito al proprio patrimonio tecnico-professionale. In altre parole, risponde a titolo di colpa quando sia da lui percepibile ed evitabile il comportamento colposo del medico in posizione apicale e, mediatamente, l’esito infausto dell’intervento, in ragione non del proprio effettivo livello di preparazione ma di quello che egli sarebbe tenuto ad avere in considerazione della posizione funzionale rivestita nella gerarchia ospedaliera330.

328 A.VALLINI, Gerarchia in ambito ospedaliero e omissione colposa di trattamento terapeutico, op. cit., p. 1634. 329 R.BLAIOTTA, Art. 43 c.p., op. cit., p. 522.

330 L.GIZZI, Équipe medica e responsabilità penale, op. cit., p. 135: «[…] nell’ordinamento ospedaliero non è

rintracciabile alcuna disposizione che configuri una sorta di controllo incrociato tra medici, soprattutto qualora appartengono a ruoli professionali e a livelli gerarchici diversi. Il medico ospedaliero di ruolo inferiore, quindi, rivestendo una posizione di garanzia nei confronti dell’interesse tutelato, può ben porsi in rapporto dialettico con i medici di grado superiore, con i quali intercorre un rapporto di gerarchia funzionale, ma si dubita che abbia un onere di controllare l’operato degli altri sanitari maggiormente qualificati per anzianità, esperienza e ruolo funzionale, ai quali l’ordinamento ospedaliero riconosce espressamente un potere-dovere di indirizzo e sorveglianza. Il medico in posizione iniziale, infatti, pur rivestendo, a seguito della riforma sanitaria degli anni novanta, la qualifica di dirigente medico, è un operatore alle prime armi, chiamato a svolgere attività finalizzate alla sua formazione, secondo le direttive dei medici appartenenti alle qualifiche superiori. Egli, dunque, non è dotato dell’esperienza necessaria per pater instaurare un rapporto paritetico con il suo superiore e per valutare criticamente l’idoneità terapeutica delle scelte operate da quest’ultimo. Non è realistico, allora, pretendere che un soggetto ancora inesperto e in formazione sottoponga a controllo e metta in discussione l’operato di medici a lui sovraordinati per anzianità, esperienza e profilo professionale».

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Inoltre, il dovere di controllo incrociato che la giurisprudenza sembra individuare appare disfunzionale rispetto all’organizzazione gerarchica ospedaliera, finalizzata proprio alla più efficace erogazione dei servizi sanitari in vista della più ampia tutela del paziente. Appare poco consona a questo scopo l’imposizione di un controllo costante e continuo del subordinato sull’operato del proprio superiore: oltre a non essere esigibile – come sopra illustrato – a causa di una asimmetria culturale-esperienziale fra le posizioni funzionali ospedaliere, appare cautelarmente inopportuno, proprio perché non permette al medico subordinato di adempiere ai compiti che gli vengono assegnati in sede di divisione del lavoro331.

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