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2 5 [La giurisprudenza più recente] Nella giurisprudenza più recente –

in particolare, Cass. Pen. Sez. IV, 2 dicembre 2008, n. 1866, Toccafondi, in C.E.D Cass., n. 242017 – «si coglie pure la tendenza a considerare il ruolo e la sfera di responsabilità dei diversi terapeuti operanti all’interno della struttura sanitaria: in tema di colpa professionale medica, ai fini dell’affermazione di responsabilità penale, in relazione al decesso di una paziente, dei medici operanti – non in posizione apicale – all’interno di una struttura sanitaria complessa, a titolo di colpa omissiva, è priva di rilievo la mera installazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda»339. La fattispecie, relativa alla morte di una detenuta, ha riguardato la

responsabilità penale del medico in posizione apicale, responsabile del servizio sanitario della struttura carceraria, e di due ginecologi, in posizione non apicale, intervenuti a vario titolo nella vicenda. La morte è stata provocata dall’omessa diagnosi di tubercolosi: ciò non ha permesso di dar luogo ad una terapia tempestiva, conducendo a morte la paziente.

Premessa la conferma anche in sede di legittimità della responsabilità penale del direttore del servizio sanitario della struttura carceraria, ai nostri fini assume particolare interesse la posizione dei medici di guardia implicati nella vicenda.

Il primo aveva ricevuto telefonicamente gli esiti degli esami istologici ed ha annotato in cartella clinica gli esami di approfondimento diagnostico che avrebbero dovuto essere effettuati: secondo le sentenze di merito di condanna, egli avrebbe dovuto sincerarsi personalmente che tali esami fossero effettuati, essendo sorta, nel momento in cui riceveva telefonicamente tali informazioni sulla paziente, una relazione terapeutica tale da fondare una posizione di garanzia.

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Il secondo, avendo visitato più volte la paziente, in occasione della somministrazione di un vaccino antinfluenzale, avrebbe dovuto leggere più attentamente la cartella clinica, ed avrebbe notato che gli esami prescritti erano stati eseguiti solo parzialmente.

La motivazione della pronuncia della S.C appare essere di particolare interesse in quanto prende posizione su alcuni aspetti problematici cruciali che abbiamo esaminato in precedenza.

In particolare la Corte censura il diffuso atteggiamento giurisprudenziale per il quale il giudizio di accertamento della responsabilità medica in situazioni di cooperazione plurisoggettiva si limita al mero riscontro della sussistenza in concreto della posizione di garanzia nei confronti della salute del paziente. In tal modo, la posizione di garanzia, di fatto assorbendo in sé la valutazione soggettiva della colpa, oltre ad assumere rilevanza anche al di fuori dei casi in cui dovrebbe effettivamente rilevare – cioè i casi in cui la condotta dell’agente sia omissiva –, assume un perimetro eccessivamente lato, ponendosi inevitabilmente in tensione coi principi di personalità della responsabilità penale e della colpevolezza340.

La S.C. ha quindi evidenziato come l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale abbia individuato una serie di principi che hanno la funzione di circoscrivere l’ambito della responsabilità penale di ciascun agente in contesti plurisoggettivi: i principi di autoresponsabilità, di gerarchia e di affidamento. Principi che consentono di circoscrivere la responsabilità entro limiti di esigibilità definiti in relazione alle competenze specialistiche dia ciascuno possedute, in relazione alla maturazione professionale di ciascuno, al ruolo esercitato all’interno della struttura

340 Cfr. Cass. Pen. Sez. IV, 2 dicembre 2008, n. 1866, Toccafondi, in C.E.D Cass., n. 242017: «La sentenza [di

appello impugnata], dunque, parte dall’assunto corretto che l’instaurazione della relazione terapeutica crei la cosiddetta

posizione di garanzia ed il conseguente obbligo di agire a tutela della salute e della vita, così fondando la responsabilità per omissione (a tale indiscusso principio si riferisce la pronunzia di legittimità citata nella sentenza). Essa, però, conferisce a tale obbligo una dimensione astratta ed irrealistica, quasi che l’obbligo in questione abbia sempre un’estensione illimitata. Tale impostazione, finendo con pretendere dall’agente anche prestazioni, professionali, non dovute o non possibili e comunque radicalmente estranee all’ambito dell’obbligazione assunta, rischia di vulnerare il carattere personale della responsabilità penale ed il principio di colpevolezza. Oltre a ciò, la pronunzia sembra basare l’addebito colposo solo sulla posizione di garanzia, trascurando che essa rileva esclusivamente per rendere possibile l’imputazione del fatto quando si sia in presenza di condotta omissiva, ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.; ed opera quindi sul piano del fatto, della tipicità oggettiva. L’itinerario che conduce alla responsabilità colpevole richiede altresì la presenza di una condotta concretamente colposa, dotata di ruolo eziologico nella spiegazione dell’evento lesivo. In realtà l’obbligo in questione, come tutte le posizioni giuridiche soggettive, riveste in ciascuna fattispecie concreta una specifica dimensione che il Giudice, nella ricerca delle reali responsabilità, deve preliminarmente definire».

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complessa in cui è incardinato. «Dunque l’analisi delle competenze specialistiche specifiche e

della concreta organizzazione gerarchica costituisce l’itinerario corretto per impostare il problema cruciale della responsabilità colpevole, particolarmente quando l’illecito si colloca all’interno di organizzazioni complesse. […] l’organizzazione e la gerarchia di ciascuna struttura sanitaria nella quale si riscontra l’agire coordinato di diversi professionisti è di cruciale rilievo per risolvere problemi come quello posto dal giudizio in esame».

Relativamente al caso di specie, la S.C. ha ritenuto che l’omissione di un fondamentale esame diagnostico era frutto non di mera trascuratezza da parte del medico in posizione apicale, ma il frutto di una precisa scelta tecnico-professionale: l’esame infettivologico, che avrebbe permesso la diagnosi di tubercolosi, non è stato effettuato perché sono stati ritenuti sufficienti ad escludere la presenza della patologia gli esami già compiuti.

A fronte di ciò, ai medici in posizione subordinata non può imputarsi di non aver colmato una lacuna materiale nell’operato del superiore ma, più specificamente, di non aver sindacato nel merito le scelte diagnostiche del superiore.

Quindi, a causa della necessità di approfondire le relazioni gerarchiche all’interno della considerata struttura, la sentenza di condanna dei due medici di guardia è stata annullata con rinvio.

In sostanza, la sentenza in analisi ha ribadito i principi che abbiamo sopra delineato con riferimento alla necessità che la ricerca delle responsabilità penali sia compiuta rispettando maggiormente i principi di colpevolezza e personalità della responsabilità penale.

In particolare, si ribadisce che «qualora, infatti, non sussista un potere di controllare

e sindacare le scelte diagnostiche deliberatamente compiute dal medico di vertice della struttura, in capo agli altri sanitari operanti nella stessa, nessuna responsabilità può essere loro addebitata a titolo di colpa, per l’evento lesivo cagionato dall’erroneità di quelle scelte».

Inoltre si precisa che «una volta che il medico in posizione subordinata, chiamato a

collaborare con il superiore gerarchico, non si limita ad un pedissequo e acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari, ma, qualora ravvisi elementi di sospetto, percepiti o percepibili con l’ordinaria diligenza e perizia, nelle loro scelte diagnostiche o terapeutiche, li segnali ed esprima il proprio dissenso, non può che rimanere esente da responsabilità se il superiore gerarchico non

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ritenga di condividere il suo atteggiamento critico e persista nella propria condotta colposa. E ciò perché, se è vero che il rapporto di subordinazione tra due sanitari non può mai essere considerato tanto assoluto e vincolante da far ritenere che il sottoposto, nell’uniformarsi alle disposizioni del superiore, che concretizzino una condotta colposa, non vi cooperi volontariamente, e da esonerarlo, conseguentemente, dalla responsabilità per l’evento derivante da quella condotta, è altresì indubbio che questo evento non può essere imputato al medico in posizione subordinata, qualora non sia possibile muovergli alcun rimprovero a titolo di colpa, per aver, questi, correttamente adempiuto il dovere di diligenza su di lui gravante».

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Sez. 2. Cooperazione medica organizzata mediante divisione del lavoro in senso orizzontale: la cooperazione multidisciplinare sincronica nella c.d. équipe in senso stretto.

I. [Perimetrazione dell’ambito di indagine: la c.d. équipe in senso stretto e

l’ipotizzabilità di obblighi cautelari relativi alle condotte altrui in contesti non gerarchizzati] Nei paragrafi precedenti abbiamo analizzato i rapporti medici strutturati in senso gerarchico. Abbiamo avuto modo di evidenziare che essi si caratterizzano per una divisione del lavoro in senso verticale: alle posizioni funzionali apicali spettano funzioni materialmente operative, ma anche – e soprattutto – funzioni di direzione, controllo, coordinamento dell’operato altrui, nell’interesse del paziente: la sua salute sarebbe meglio tutelata se un soggetto gerarchicamente sovraordinato sovrintenda al corretto espletamento da parte dei medici in posizione funzionale inferiore – affidatari di specifici casi clinici o di interi settori della divisione ospedaliera di volta in volta in questione – dei compiti diagnostico-terapeutici affidati. Ciò è possibile, come abbiamo avuto modo di evidenziare, in ragione dell’omogeneità scientifica fra i medici che operano nello stesso reparto, tutti specialisti nella stessa branca dell’arte medica, seppure con livelli di conoscenza ed esperienza differenti e, pertanto – pur appartenenti al medesimo ruolo professionale – collocati in posizioni funzionali diverse.

La forma di cooperazione medica di cui dovremo occuparci ora assume tratti marcatamente differenti. I medici, in tal caso, possiedono differenti specializzazioni e, quindi, afferiscono a reparti diversi dell’organizzazione ospedaliera. Ciò si traduce nel fatto che non sono individuabili forme di dipendenza gerarchica fra i vari operatori e nel fatto che il lavoro è suddiviso fra i vari sanitari in modo “orizzontale”, cioè in ragione delle diverse competenze che ognuno possiede. Ciascuno, quindi, si occuperà di uno specifico tratto del percorso diagnostico- terapeutico in modo del tutto autonomo e libero da vincoli esterni di carattere gerarchico, se non quelli derivanti dalla necessità di coordinare il proprio apporto

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professionale con quello degli altri medici che cooperano ugualmente sullo stesso caso clinico e di cui si fa garante il capo-équipe.

Sulla figura del capo-équipe ci siamo già soffermati in precedenza. Sia consentito, in questa sede, richiamare per sommi capi quanto già sostenuto sulla necessità di non equiparare tale figura professionale, in contesti di cooperazione multidisciplinare, a quella del primario nei casi in cui egli non rivesta effettivamente la qualifica giuridico-formale di superiore gerarchico rispetto agli altri medici coinvolti nell’operazione341. Il capo-équipe è colui che, per anzianità di servizio,

esperienza, competenze professionali, assume di fatto la direzione di un singolo intervento chirurgico svolto secondo lo schema operativo dell’équipe in senso stretto, cioè secondo lo schema della cooperazione multidisciplinare sincronica. Egli, quindi, non ha veri e propri poteri gerarchici rispetto ai medici, specialisti in altri settori della medicina. Rispetto a costoro, può solo esercitare un ruolo di primus inter pares, di coordinatore dell’operato altrui342. Il suo ruolo di controllo sull’altrui attività

specialistica è meno pregnante rispetto al ruolo che gli compete in un’équipe organizzata gerarchicamente, non avendo – legittimamente, peraltro – le necessarie competenze per poter apprezzare, valutare ed (eventualmente) censurare e correggere gli apporti professionali specialistici forniti dall’équipe. Solamente il suo ruolo di coordinatore dell’intera vicenda operatoria è – riteniamo – identico rispetto al caso dell’équipe organizzata gerarchicamente.

Ciò che in questa sede merita di essere approfondito è l’équipe medica “in senso stretto”, cioè quella forma di cooperazione multidisciplinare medica che vede la collaborazione di una pluralità di specialisti in diverse branche dell’arte medica in uno stesso contesto spazio-temporale. Questo fenomeno, come accennato, può

341 Cfr. P.PIRAS-G.P.LUBINU, L’attività medica plurisoggettiva fra affidamento e controllo reciproco, op. cit., p. 303: nel

caso delle équipe organizzate gerarchicamente «[…] il ruolo di capo-équipe viene ricoperto dal sanitario che riveste la posizione apicale: ha il potere di imporre ai sanitari di livello funzionale inferiore delle direttive vincolanti ed il dovere di esercitare, oltre che il proprio apporto all’intervento plurisoggettivo, un penetrante controllo sull’operato altrui, al fine di evitare che un eventuale errore pregiudichi l’esito del trattamento sanitario. Il controllo è possibile perché, di regola, ove l’équipe sia organizzata gerarchicamente, i medici che la compongono fanno parte dello stesso reparto: il loro livello di preparazione tecnica è eterogeneo solo sul piano quantitativo, ma non su quello qualitativo. Quindi il medico in posizione apicale può sindacare nel merito l’operato degli operatori subordinati in quanto è capace di prevedere ed evitare il loro operato eventualmente negligente o imperito».

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essere analizzato in una prospettiva verticale (i rapporti fra capo-équipe e gli altri collaboratori) – che tralasciamo, in quanto facciamo rinvio a quanto detto nei paragrafi precedenti e a quanto sinteticamente riassunto sopra – ed in una prospettiva orizzontale, concentrandoci, cioè, sui rapporti intercorrenti fra i medici di diversa specializzazione non legati da vincoli gerarchici in forza dei quali sarebbero eventualmente tenuti a controllare (reciprocamente, secondo la prospettiva accolta dalla criticata giurisprudenza) l’operato altrui. Nel caso in cui non sussista alcun rapporto gerarchico fra medici, è ipotizzabile un obbligo di controllo dell’operato altrui? Se si, entro quali limiti?

L’assenza di un espresso dato normativo in tal senso non agevola l’interprete, tenuto a ricondurre il tema entro i principi generali relativi all’obbligo giuridico di impedimento dell’evento, alla colpa, al principio di affidamento; il tutto entro l’invalicabile perimetro tracciato dall’art. 27, comma 1 Cost., che pone al bando, com’è noto, ogni forma di responsabilità oggettiva.

Si pone dunque il problema di verificare se, in un’attività medica da compiersi plurisoggettivamente secondo lo schema della divisione del lavoro, ciascuno possa essere chiamato a rispondere solo ed unicamente della violazione delle leges artis relative alla specifica mansione assegnata in concreto ed afferente alla propria specializzazione professionale; oppure, se possa rispondere a titolo di cooperazione colposa anche per l’errore commesso da altro cooperatore. Il tema riguarda la verifica dell’ampiezza dei doveri di diligenza gravanti su ciascuno: ogni operatore è tenuto unicamente a rispettare i doveri di diligenza relativi allo specifico compito assegnato, oppure deve anche verificare la correttezza degli apporti professionali dei soggetti con cui si trova a interagire?

La soluzione a questo quesito ha un risvolto pratico immediato con riferimento alla responsabilità dei singoli partecipi al lavoro in équipe. Se si ritiene l’ambito di responsabilità di ciascuno limitato al rispetto dei soli obblighi cautelari relativi alla specifica attività da svolgere, allora non potrà configurarsi una corresponsabilità nel caso in cui l’evento derivi da una negligenza altrui, in quanto non sarebbero configurabili obblighi cautelari rivolti al comportamento di terzi; viceversa nel caso opposto, giacché ciascuno potrà essere chiamato a rispondere

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anche per un evento lesivo cagionato dalla condotta colposa di un altro membro dell’équipe se non abbia provveduto a prevenire e a correggere l’errore di quest’ultimo343.

Ancora una volta si ripropone, in tutta la sua problematicità, il tema portante del presente lavoro: fino a che punto è possibile rispondere penalmente per aver omesso di impedire un comportamento colposo altrui sfociato in un evento infausto per la salute del paziente?

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