giurisprudenza di legittimità] Sul tema della responsabilità del capo-équipe per fatto di un collaboratore, la posizione della giurisprudenza sembra invece improntata al disinteresse verso le distinzioni sopra accennate, finendo per equiparare completamente, sia in punto di disciplina applicabile sia con riferimento al regime di responsabilità, le figure del «primario» e del «capo-équipe». Al capo-équipe, in altre parole, competerebbero i doveri di coordinamento e controllo che, su scala estesa al reparto, spettano al direttore di struttura complessa287. Quindi, le considerazioni in
precedenza svolte con riferimento al rigore con cui la giurisprudenza guarda al fenomeno dell’esercizio gerarchizzato della professione medica possono essere estese anche al caso del capo-équipe. In particolare ricorre frequentemente la massima giurisprudenziale per cui il capo-équipe non può invocare il principio dell’affidamento in funzione limitativa della propria responsabilità penale rispetto ad un fatto derivato dall’operato altrui, avendo l’obbligo – oltre che di disimpegnare correttamente le proprie specifiche mansioni – di controllare l’operato altrui, eventualmente correggendolo in senso non lesivo.
La casistica, sul punto, è particolarmente ricca. Ricorre frequentemente nella prassi il seguente arresto: «Il principio di affidamento non si applica nel caso in cui
all’agente sia attribuita una funzione di controllo dell’operato altrui; in questo caso e gli risponde secondo le regole ordinarie delle condotte colpose del terzo da lui riconoscibili ed evitabili»288.
287 L.GIZZI, La responsabilità medica in équipe, op. cit., p. 47.
288 Cass. Pen. Sez. IV, 16 giugno 2008, n. 24360, Rago, in F. GIUNTA-G. LUBINU-D. MICHELETTI-P.
PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 60. In tale ipotesi, nel corso di un
intervento di rinoplastica, era stata somministrata al paziente una soluzione fisiologica contenente, per errore materialmente commesso dall’assistente-ferrista che coadiuvava l’équipe, anche del disinfettante. Da ciò è derivato un edema e necrosi di alcuni tessuti nel volto del paziente. La S.C., confermando le pronunce di primo e secondo grado, ha ribadito l’addebito di responsabilità penale a carico del chirurgo capo-équipe, per non avere controllato l’operato dell’infermiere. I giudici di legittimità hanno richiamato il principio di affidamento – espressione del principio di personalità della responsabilità penale –, in forza del quale «ciascuno
risponde delle conseguenze della propria condotta, commissiva ed omissiva, e nell’ambito delle proprie conoscenze e specializzazioni, non invece dell’eventuale violazione delle regole cautelari da parte di terzi», ribadendo che esso «non è di automatica applicazione quando esistono altri partecipi alla medesima attività o che agiscano nello stesso ambito di attività o nel medesimo contesto. In questi casi si pone il problema del rapporto tra la condotta dell’agente e quella del terzo ed in particolare dell’influenza della condotta colposa del terzo su quella dell’agente […] Solo se l’agente ha la percezione (o dovrebbe averla) della violazione delle regole da parte di altri partecipi nella medesima attività (per es. un’operazione chirurgica svolta in équipe) – o comunque si trova in una situazione in cui diviene prevedibile l’altrui inosservanza della regola cautelare (che deve avere caratteristiche di riconoscibilità) – ha l’obbligo di attivarsi per evitare eventi dannosi». «Nel caso in esame», ha osservato la
Suprema Corte, «la preparazione del composto medicinale da somministrare è certamente un atto medico di competenza del
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Anche con riferimento al capo-équipe le ragioni della rigidità dell’orientamento giurisprudenziale che lo riguarda va ricercata nell’ampiezza con cui ne viene descritta la posizione di garanzia: in tal modo la prassi si limita, spesso, ad accertare la sussistenza di questo elemento, assorbendo di fatto l’addebito colposo nel fatto di non aver impedito l’evento lesivo che si aveva l’obbligo giuridico di impedire. Una massima può esemplificare bene questo orientamento: «In tema di responsabilità professionale del medico, il capo dell’équipe operatoria è titolare di
un’ampia posizione di garanzia nei confronti del paziente, che non si esaurisce con l’intervento ma riguarda anche la fase postoperatoria, gravando sul sanitario un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato»289.
L’estensione della posizione di garanzia del capo-équipe alla fase postoperatoria è stata ribadita anche da altra pronuncia della S.C. relativa al decesso di un paziente per complicazioni post-operatorie, verificatesi a seguito di un intervento chirurgico altamente specialistico. La responsabilità del capo-équipe è consistita nel fatto di aver eseguito l’intervento in un turno di lavoro (tardo pomeriggio) che non avrebbe assicurato che il decorso postoperatorio, non routinario, si svolgesse in un reparto con un organico tale da poter adeguatamente sorvegliare il paziente. In altre parole si è imputato al capo-équipe un sostanziale disinteresse per le sorti del paziente, lasciato in reparto senza previamente assicurarsi che fosse adeguatamente assistito, dopo l’operazione, da personale idoneo e
tratta di atto solo a lui riferibile, la corretta esecuzione dell’operazione; e, nella specie, non risulta che questo controllo sia stato dal chirurgo posto in essere. Ma se anche la preparazione del composto non fosse da considerare atto medico non per questo verrebbe meno la responsabilità del medico-chirurgo, perché i ricordati principi che regolano il principio di affidamento non si applicano nel caso in cui all’agente sia attribuita una funzione di controllo dell’opera altrui; in questo caso egli risponde secondo le regole ordinarie delle condotte colpose del terzo da lui riconoscibili ed evitabili […] Si aggiunga, a conferma dell’esistenza nel caso di specie di quest’obbligo di controllo, che i giudici di merito hanno accertato l’esistenza di una situazione di rischio di confondimento sia per la presenza di diverse sostanze nella sala operatoria sia per le caratteristiche di queste sostanze, tutte inodori e incolori (nelle sentenza impugnata non se ne fa cenno, ma da quella di primo grado risulta che i contenitori di queste sostanze erano privi di alcun contrassegno in violazione di un’elementare regola di prudenza diretta proprio ad evitare rischi di confondimento)».
Quindi, in tal caso, a detta della Corte di legittimità, non avrebbe potuto trovare applicazione rispetto al capo-
équipe il principio di affidamento proprio in virtù del obbligo di controllo gravante su di lui. Egli risponde,
quindi, della condotta altrui, in quanto riconoscibile ed evitabile.
289 Cass. Pen. Sez. IV, 1 giugno 2010, n. 20584, Tamborrino e altri, in F. GIUNTA-G. LUBINU-D.
MICHELETTI-P.PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 49: «Morte per
infarcimento emorragico del cavo orale successiva di intervento per disarmonia dentoscheletrica dei mascellari: ritenuta immune da vizi motivazionale la decisione impugnata quanto alla conferma della responsabilità del capo-équipe, sul quale incombeva il dovere di tenere, sotto diretto controllo, il decorso postoperatorio del paziente, in presenza di un intervento comunque delicato e di vigilare affinché il personale medico paramedico del turno controllasse, in maniera compiuta, i parametri vitali della vittima».
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presente in numero adeguato e senza fornire le necessarie indicazioni terapeutiche. La Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui «il capo dell’équipe
operatoria è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, che si estende alla fase dell’assistenza post-operatoria, che il chirurgo ha il dovere di controllare e seguire direttamente, ovvero attraverso interposta persona»290.
Sembra di poter concludere, dunque, che anche con riferimento alla figura del capo-équipe come per la figura del primario, la giurisprudenza ha la tendenza ad essere particolarmente rigida: il fatto che egli abbia una posizione di garanzia particolarmente ampia nei confronti del paziente, implica che, in caso di verificarsi di un evento infausto, questo venga addebitato nei suoi confronti in modo pressoché oggettivo, cioè per il fatto che non sia stato impedito l’evento che si aveva l’obbligo di evitare, attraverso il controllo e l’intervento sulla condotta altrui.
Nella giurisprudenza più recente, tuttavia, non mancano pronunce che valutano la colpa del capo-équipe in modo meno “oggettivo” e più rispettoso dei principi generali in materia di colpa, specie con riferimento ai parametri della prevedibilità ed evitabilità dell’altrui errore. Il caso sotto posto all’esame della Suprema Corte291 riguarda un’équipe chirurgica che, per imprudenza, negligenza,
imperizia, ha finito con l’operare un paziente al testicolo sbagliato. L’operazione, anziché avere ad oggetto le cisti sebacee presenti in uno dei due organi, ha attinto
290 Cfr. la già in precedenza citata Cass. Pen. Sez. IV, 11 marzo 2005, n. 9739, Dilonardo, inF.GIUNTA-G.
LUBINU-D.MICHELETTI-P.PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 36. Analogamente, Cass. Pen. Sez. IV, 23 gennaio 1989, n. 790, Servadio: «In tema di causalità, il chirurgo capo- équipe, una volta concluso l’atto operatorio in senso stretto, qualora si manifestino circostanze denunzianti possibili complicanze,
tali da escludere l’assoluta normalità del decorso post-operatorio, non può disinteressarsene, abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura, onde prevenire tali complicanze e tempestivamente avvertirle, attuare quelle cure e quegli interventi che un’attenta diagnosi consigliano e, altresì, vigilare sull’operato dei collaboratori. Ne consegue che il chirurgo predetto, il quale tale doverosa condotta non abbia tenuto, qualora, per complicanze insorte nel periodo post-operatorio e per carenze di tempestive, adeguate, producenti cure da parte dei suoi collaboratori, un paziente venga a morte, in forza della regola di cui al capoverso dell’articolo 40 del codice penale, risponde, a titolo di colpa (ed in concorso con i detti collaboratori), della morte dello stesso. (Fattispecie di paziente sottoposta a colecistectomia e venuta a morte alcune ore dopo la conclusione dell’intervento, senza che fosse avvenuto il risveglio post-operatorio, a causa di ipossia cerebrale conseguita alla insufficienza respiratoria istituitasi nella fase di tardiva decurarizzazione, ed insufficiente assistenza respiratoria. Nonostante segni di ritardo nel risveglio, il chirurgo operante si era allontanato dalla clinica, dopo la conclusione dello intervento, disinteressandosi, benché a conoscenza, della crisi nella quale la paziente verteva e delle difficoltà nelle quali il medico anestesista si dibatteva, avendo fallito nei tentativi di rianimazione e non essendo riuscito a praticare intubazione tracheale né ad attivare altre cure e interventi idonei e producenti, tecnicamente possibili)».
291 Cass. Pen. Sez. IV, 31 ottobre 2008, n. 40789, Verani, in F. GIUNTA-G. LUBINU-D. MICHELETTI-P.
PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 60: «intervento chirurgico sul testicolo sinistro, sano, anziché su quello destro cistitico: il capo-équipe sosteneva di aver fatto affidamento su indicazione della regione operatoria da parte di altro componente dell’équipe».
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l’altro organo per effetto di un’erronea diagnosi di neoplasia compiuta dal medico in posizione funzionale intermedia e comunicata al primario capo-équipe verbalmente solo nel momento in cui l’operazione doveva essere realizzata, col paziente già posizionato sul tavolo operatorio e già sottoposto ad anestesia. Delle lesioni derivanti dall’operazione, motivata dall’errore diagnostico del medico in posizione funzionale subordinata risponde anche il capo-équipe. Ciò che distingue questa pronuncia dalle altre è il fatto che non si limita ad attribuire la responsabilità al medico in posizione apicale argomentando sul fatto che «sul capo-équipe grava un
obbligo di controllo e sorveglianza dell’operato altrui»; ma precisa che tale obbligo di
controllo è tanto più doveroso «in presenza di ragioni oggettive e/o soggettive che possono e
debbono far dubitare della adeguatezza della condotta di uno dei partecipanti all’équipe medica o, comunque, della fondatezza e sostenibilità della diagnosi comunicata verbalmente in sala operatoria, con conseguente esclusione dell’operatività del principio dell’affidamento in presenza di tali ragioni». In altre parole, la responsabilità del medico in posizione apicale non
deriva – secondo la prospettiva fatta propria dalla S.C. – puramente e semplicemente dal fatto di rivestire una posizione di sovraordinazione funzionale rispetto al medico che ha agito colposamente, tale da estendere nei suoi confronti la responsabilità per il fatto occorso, non avendo correttamente esercitato i propri poteri di controllo. La responsabilità deriva, in effetti, da un autonomo addebito di colpa che è possibile muovere al capo-équipe, cioè non aver colto – o non aver dato sufficiente peso – i segnali da cui era possibile riconoscere l’erroneità della diagnosi del medico in posizione intermedia, o quantomeno dubitare della sua correttezza, effettuando ulteriori approfondimenti diagnostici, ancora possibili nel caso di specie. Il principio di affidamento è stato ritenuto non invocabile dal capo-équipe, quindi, non tanto per il suo ruolo apicale ma per versare egli stesso in colpa, non avendo percepito il percepibile ed emendabile errore del medico in posizione funzionale inferiore. Riteniamo, quindi, che tale soluzione sia maggiormente compatibile coi principi generali in materia di colpa, che impongono la verifica della prevedibilità ed evitabilità del fatto, in questo caso della colposità della condotta altrui.
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