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2 2 [Sindacabilità delle direttive del medico in posizione apicale nella

giurisprudenza] Questa soluzione è confermata dalla giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, in cui ricorre di frequente tale massima giurisprudenziale: «Dal

tenore delle disposizioni dei commi terzo, quinto e sesto dell’art. 63 D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 relativo allo stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali, deriva che la posizione dell’assistente ospedaliero non è affatto quella di un mero esecutore di ordini; in particolare, laddove primario e assistente condividono le scelte terapeutiche effettuate, entrambi ne assumono la responsabilità, mentre nel caso in cui l’assistente (o l’aiuto) non condivide le scelte terapeutiche del primario, che non ha esercitato il potere di avocazione previsto dal comma sesto cit., è tenuto a segnalare quanto rientra nelle sue conoscenze, esprimendo il proprio dissenso; diversamente potrà essere ritenuto responsabile dell’esito negativo del trattamento terapeutico, non avendo compiuto quanto in suo potere per impedire l’evento»314.

fondamento nella necessità di consentire a quest’ultimo di esercitare la propria funzione di indirizzo e direzione della struttura affidatagli, gli Autori sottolineano che «nei casi in cui non sussista, per il primario, il dovere di svolgere l’attività direttiva sua propria, cioè al di fuori del suo reparto, in tali casi viene meno il presupposto stesso del potere, conferitogli dalla legge, di dettare indicazioni vincolanti per i subordinati. Consequenzialmente, il parere medico espresso da un primario al di fuori del suo reparto non può che essere privo di qualsiasi valore giuridico specifico: il fruitore di un tale parere, qualunque sia la sua posizione funzionale, resta libero di uniformarvisi o di non farlo e, comunque agisca, deve rimanere unico responsabile della propria azione».

313 F.AMBROSETTI-M.PICCINELLI-R.PICCINELLI, La responsabilità nel lavoro medico d’équipe, op. cit., p. 39. 314 Cass. Pen. Sez. IV, 18 gennaio 2000, n. 556, Zanda e altro, in C.E.D. Cass., n. 215443, e in Dir. Pen. Proc.,

2000, pp. 1634 e ss., con nota di A. Vallini, Gerarchia in ambito ospedaliero ed omissione colposa di trattamento

terapeutico. In termini, Cass. Pen. Sez. IV, 28 giugno 1996, n. 7363, Cortellaro, in C.E.D. Cass., n. 205829, e in Cass. pen., 1997, p. 3034: «L’assistente ospedaliero collabora con il primario e con gli aiuti nei loro compiti, deve seguire le direttive organizzative dei superiori, ha la responsabilità degli ammalati a lui affidati e provvede direttamente nei casi di urgenza. Egli, nella qualità di collaboratore del primario e degli aiuti, non è tenuto, nella cura dei malati, ad un pedissequo ed acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari perché, qualora ravvisi elementi di sospetto percepiti o percepibili con la necessaria diligenza e perizia, ha il dovere di segnalarli e di esprimere il proprio dissenso e, solo a fronte di tale condotta, potrà rimanere esente da responsabilità se il superiore gerarchico non ritenga di condividere il suo atteggiamento». Cass. Pen. Sez. IV,

17 novembre 1999, Iacolino e altro, in F.AMBROSETTI-M. PICCINELLI-R. PICCINELLI, La responsabilità nel

lavoro medico d’équipe, op. cit., p. 38: «La normativa in esame non configura affatto la posizione dell’assistente come quella di un mero esecutore di ordini. Questa conclusione la si trae chiaramente dalla prima norma richiamata [art. 63, comma 3,

D.P.R. n. 761/1979] – nella parte in cui fa riferimento alla responsabilità per le attività professionali a lui direttamente

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Il caso che ha originato l’arresto giurisprudenziale riguarda un omicidio colposo a seguito di incidente stradale, in conseguenza del quale una donna riportava una grave sepsi nella fossa ischio-rettale e nella regione pelvica. Ricoverata in una struttura ospedaliera, nel reparto di traumatologia e ortopedia, veniva affidata alle cure di un medico in posizione funzionale iniziale, vincolato a seguire le direttive e istruzioni che il primario gli aveva impartito con riferimento sia alla diagnosi che alle terapie da effettuare. Il decesso della paziente si è verificato a causa di una patologia settica non diagnosticata.

Con riferimento alla posizione del medico assistente, giova evidenziare che, in giudizio, ha sostenuto di non poter discostarsi, in ragione del proprio ruolo funzionale subalterno, dalle indicazioni diagnostico-terapeutiche impartite dal primario. Ma si è accertato che le regole cautelari ritenute violate rientravano nella competenza di un medico generico: erano, cioè, appartenenti al patrimonio professionale di qualsiasi sanitario; inoltre, alcune delle terapie omesse erano di semplice effettuazione e potevano essere autonomamente disposte dall’assistente: egli avrebbe potuto integrare le direttive impartite dal primario, in ottemperanza alla propria posizione di garanzia nei confronti del paziente. In ragione di ciò, la S.C. ha affermato la penale responsabilità sia del primario che dell’assistente, in quanto quest’ultimo avrebbe dovuto disattendere le direttive del primario, erronee in relazione al quadro clinico manifestato dalla paziente; oppure, avrebbe dovuto

rispettare l’autonomia professionale operativa del personale dell’unità assegnatagli; per altro verso consente al primario di avocare il caso alla sua diretta responsabilità (evidentemente sottraendolo alla responsabilità del medico appartenente ad una posizione inferiore). Quando la norma in esame parla di “autonomia vincolata alle direttive ricevute” non intende quindi riferirsi ad una subordinazione gerarchica che non consente scelte diverse […], ma ad una autonomia limitata dalla possibilità, prevista per il medico in posizione superiore, di imporre le proprie scelte terapeutiche quando esse contrastino con quelle del medico cui è assegnato il caso. Se dunque primario e assistente condividono le scelte terapeutiche entrambi ne assumono la responsabilità […]. Il problema si presenta di meno agevole soluzione nel caso in cui l’assistente (o l’aiuto) non condivida le scelte terapeutiche del primario che non eserciti il suo potere di avocazione. In questo caso il medico in posizione inferiore che ritenga che il trattamento terapeutico disposto dal superiore comporti un rischio per il paziente è tenuto a segnalare quanto rientra nella sua conoscenza, esprimendo il proprio dissenso con le scelte dei medici in posizione superiore […]; diversamente egli potrà essere ritenuto responsabile dell’esito negativo del trattamento terapeutico non avendo compiuto quanto in suo potere per impedire l’evento».

Cfr. altresì App. Caltanissetta, 15 gennaio 2003, Salvaggio, in Foro it., 2005, II, c. 621, con nota di A.R.DI

LANDRO, la quale ha escluso che sia configurabile «un rapporto di dipendenza, in senso gerarchico, del singolo sanitario

ospedaliero nei confronti del titolare dell’incarico primariale all’interno del reparto ospedaliero in cui entrambi prestano la loro opera professionale, con la conseguenza che ogni espressa indicazione terapeutica non può mai vincolare il singolo sanitario, al quale spetta il potere di rivalutare le determinazioni del superiore, qualora individui l’esigenza di sottoporre il paziente a ulteriori indagini diagnostiche, ovvero di revocare le già disposte prescrizioni farmacologiche».

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svolgere ulteriori esami diagnostici in modo da verificare la perdurante validità delle istruzioni ricevute.

La Corte di Cassazione ha posto alla base del proprio giudizio il dettato dell’art. 63 del D.P.R. n. 761/1979: anche tale pronuncia conferma l’indirizzo generale per cui «la normativa in esame non configura affatto la posizione dell’assistente come

quella di un mero esecutore di ordini». Infatti il c.d. assistente è responsabile relativamente

all’esito dei casi clinici che gli vengono espressamente affidati dal medico in posizione apicale; e, d’altro canto, il medico in posizione apicale, nel ripartire il lavoro all’interno del reparto e nello svolgere il proprio potere di direttiva, deve rispettare l’autonomia professionale dei medici in posizione funzionale inferiore, a meno che non decida di avocare a sé il caso precedentemente affidato ad un proprio collaboratore.

Come abbiamo in precedenza evidenziato, la giurisprudenza considera le direttive e le istruzioni emanate dal medico superiore gerarchico come sindacabili dal medico in posizione gerarchica subordinata, non essendo la fattispecie in questione riconducibile nell’ambito applicativo dell’art. 51 c.p.. In forza della propria autonomia professionale legislativamente delineata, il medico subordinato ha il preciso dovere di manifestare al superiore il proprio dissenso, allo scopo – primario – di provocare una sorta di “revisione critica” delle proprie decisioni da parte del superiore gerarchico, ed allo scopo – secondario – di andare esente da responsabilità nel caso in cui questi confermi le proprie decisioni e dalla loro attuazione derivi un evento infausto. Il medico in posizione subalterna è, infatti, pur sempre garante della salute del paziente ed è quindi tenuto a fare quanto in suo potere per evitare eventi lesivi di questo bene giuridico; fra i doveri cautelari che compongono la sua posizione di garanzia vi è senz’altro il dovere, qualora percepita, di segnalare l’erroneità della direttiva ricevuta dal primario o della linea diagnostico-terapeutica da questo personalmente seguita315.

315 La dottrina parla, a tale proposito, della sussistenza di un vero e proprio dovere di controllo incrociato nei

rapporti gerarchizzati fra medici in diversa posizione funzionale; cfr., in senso critico, L.RISICATO, L’attività

medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco, op. cit., p. 54.

Nella giurisprudenza di legittimità, da ultimo Cass. Pen. Sez. IV, 19 aprile 2013, n. 26966, Benincasa, in cui si ribadisce l’obbligo del medico in posizione funzionale inferiore di manifestare il proprio eventuale dissenso rispetto alle scelte diagnostico terapeutiche operate dal medico in posizione sovraordinata: «il medico che insieme

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