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2 [La responsabilità del medico in posizione apicale: analis

giurisprudenziale]. Dopo avere analizzato i dati normativi applicabili alla posizione funzionale del medico in posizione apicale, e dopo aver proposto alcune linee interpretative per rinvenire un punto di equilibrio fra obbligo di organizzazione e controllo e principio di affidamento sulla correttezza dell’operato altrui, appare opportuno verificare come quello stesso dato normativo su cui ci siamo intrattenuti sia stato recepito dalla giurisprudenza251.

Possiamo notare come la prassi abbia valorizzato in senso rigorista i dati normativi menzionati in precedenza, giungendo a configurare nei confronti di

250 In senso sostanzialmente concorde, cfr. A.MASSARO, Principio di affidamento e “obbligo di vigilanza” sull’operato

altrui: riflessioni in materia di attività medico-chirurgica in équipe, op. cit., pp. 3865 e ss., la quale, premessa la

frequente confusione, in giurisprudenza, fra «il piano della colpa e quello della c.d. posizione di garanzia» con conseguente assorbimento dell’accertamento della colpa in quello della posizione di garanzia e affermata la necessità di distinguere tali due momenti recuperando la funzione selettiva della colpa nella descrizione del fatto tipico nei reati omissivi impropri, sostiene che «il comportamento diligente del vertice […] non andrà modellato unicamente attorno ad un generico obbligo di controllo sull’operato altrui, che nella maggior parte dei casi condurrebbe a ritenere sussistente la sua responsabilità per il solo fatto che uno dei sottoposti abbia commesso un reato. I contorni del comportamento alternativo diligente possono essere efficacemente definiti solo attribuendo rilevanza anche alla regola cautelare che si assume violata nel caso concreto. Un utile punto di riferimento può forse essere rappresentato dal concetto di “corretta organizzazione” della struttura complessa […]. Se l’obbligo di “corretta organizzazione” è stato adempiuto, il soggetto in posizione apicale non risponde, almeno come regola generale, del reato commesso da altri. Altrimenti detto, […] il vertice può fare legittimo affidamento sul corretto adempimento dei propri collaboratori, a meno che non sia dato ravvisare una sua “colpa per l’organizzazione”. Anche in questo caso […] l’affidamento, seppur derivante dall’adempimento all’obbligo di corretta organizzazione, non può avere carattere assoluto. Quale limite al principio torna dunque operativa l’eccezione dell’errore altrui “riconoscibile”».

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questa figura professionale un’ampia posizione di garanzia fondata su un’accezione particolarmente lata dell’obbligo di organizzazione, direzione e controllo che emerge principalmente dall’art. 7 D.P.R. n. 128/1969 e dall’art. 63 D.P.R. n. 761/1979252.

Tali norme sono state dalla giurisprudenza utilizzate frequentemente in combinato disposto, nonostante la – già richiamata – avvenuta abrogazione del D.P.R. n. 128/1969 per effetto della riforma del 1992253. Il quadro che ne risulta appare

decisamente draconiano254: la responsabilità del medico in posizione apicale è

frequentemente riconosciuta, sia per fatto proprio – derivante da difetto organizzativo o cattiva scelta del preposto: culpa in eligendo – che per fatto dei medici della divisione da lui diretta (culpa in vigilando).

Sinteticamente, l’art. 63, D.P.R. n. 761/1979, come abbiamo già avuto modo di vedere in precedenza, pone a carico del medico in posizione apicale una serie di compiti. Anzitutto l’espletamento di attività medico-chirurgica; poi, attività di studio, ricerca e didattica; infine, attività di direzione e programmazione della struttura.

La norma, come visto in precedenza, dota il medico in posizione apicale di una serie di “strumenti” per assolvere alle proprie funzioni. Relativamente all’attività

252 P.VENEZIANI, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, I delitti colposi, op. cit., p. 197; A.ROIATI, Medicina

difensiva e colpa professionale medica in diritto penale, op. cit., p. 300; R.BLAIOTTA, Art. 43 c.p., op. cit., p. 515: «La

Suprema Corte ha valorizzato fortemente il ruolo del dirigente del reparto, affermando il principio che il primario facente funzione di una divisione di chirurgia di un ospedale ha compiti di indirizzo, di direzione e di verifica dell’attività diagnostica e terapeutica. A lui pertanto spettano le scelte operative congruenti all’evoluzione della condizione nosologica della persona ricoverata (Cass., sez. IV, 18 gennaio 1995, Presta, in C.E.D Cass., n. 201553)».

253 Cass. Pen. Sez. III, 18 maggio 2001, n. 6822: «il primario ospedaliero, ai sensi dell’art. 7, D.P.R. 27 marzo 1969,

n. 128, ha la responsabilità dei malati della divisione, per i quali ha l’obbligo di definire criteri diagnostici e terapeutici che gli aiuti degli assistenti devono seguire e di vigilare, come desumibile anche dall’art. 63 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sull’esatta esecuzione da parte dei medesimi […]».

254 L.RISICATO, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco, op. cit., p. 51; L.GIZZI,

Équipe medica e responsabilità penale, op. cit., p. 117: « Ciò che appare opportuno rilevare, in relazione alle pronunce esaminate, è che la Suprema Corte, nell’affermare la concorrente responsabilità del primario, per l’evento lesivo verificatosi, non attribuisce alcun rilievo alla peculiarità delle concrete circostanze fattuali, dalle quali il medico in posizione gerarchicamente sovraordinata avrebbe potuto e dovuto percepire l’errore diagnostico del collega, medico specialista nella medesima disciplina anche se dotato di una minore esperienza professionale, né individua, con precisione, la diversa condotta che il sanitario avrebbe dovuto tenere, per rimediare alla violazione delle leges artis commessa dall’assistente. Insomma, sembra che i giudici di legittimità facciano derivare la responsabilità colposa del primario dalla sua posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto a quella del medico subordinato, indipendentemente da un’indagine concreta ed effettiva sulle circostanze fattuali che avrebbero giustificato il venir meno della legittima aspettativa circa il comportamento diligente e perito del collega da parte del primario. La soluzione prospettata appare, quindi, improntata all’esigenza di una metodica sfiducia del medico in posizione apicale rispetto all’attività svolta dai suoi collaboratori».

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più strettamente medico-chirurgica, ha il fondamentale compito di dividere il carico di pazienti all’interno della divisione. La norma stabilisce che egli «assegna a sé o altri

medici» – sulla base dei criteri di competenza, equa distribuzione del lavoro e

rotazione turnaria – i pazienti ivi ricoverati, ed inoltre può avocare alla sua diretta responsabilità casi clinici specifici, con conseguente obbligo di collaborazione da parte del medico che in precedenza ne era affidatario. Diviso il lavoro, il medico c.d. «primario» oltre ad essere vincolato all’assolvimento dei propri specifici compiti medico-chirurgici che abbia deciso di attribuire a sé, organizza il lavoro dei propri collaboratori, allestendo piani di lavoro e curandone la relativa attuazione ed impartendo istruzioni (ai medici in posizione funzionale iniziale) e direttive (ai medici in posizione intermedia) e verificandone l’attuazione.

Anche l’art. 15, comma 6, D. Lgs. n. 502/1992, nel testo attualmente vigente, sostanzialmente conferma l’impianto normativo anteriore, se limitiamo l’indagine al solo medico in posizione apicale. Infatti il «dirigente di struttura complessa» deve espletare le mansioni derivanti dalle proprie specifiche competenze (quindi esercita attività medico-chirurgica); inoltre la norma evidenzia maggiormente le funzioni di direzione e organizzazione della struttura che spettano a questa figura professionale, in armonia con quanto disposto nel comma 3 con riferimento generale a tutti i «dirigenti sanitari»: l’esercizio delle loro funzioni si caratterizza per l’autonomia tecnico-professionale «i cui ambiti di esercizio […] sono progressivamente

ampliati» nel corso del tempo, previo superamento positivo di verifiche a scadenze

temporali prefissate.

Valorizzando questi dati normativi, la giurisprudenza dominante afferma che la posizione di garanzia del medico sorge per la semplice instaurazione col paziente di una relazione terapeutica 255, su fonte privatistica (contratto) o

255 Cfr. Cass. Pen. Sez. IV, 28 maggio 2010, n. 20370, Zagni, inF.GIUNTA-G.LUBINU-D.MICHELETTI-P.

PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 31: «L’instaurazione della relazione

terapeutica tra medico e paziente è la fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo e da cui deriva l’obbligo di agire a tutela della salute e della vita (Morte per insufficienza respiratoria: ritenuta immune da vizio motivazionale la sentenza della Corte territoriale che fonda il giudizio di sussistenza della colpa sull’accertata condotta omissiva del medico per non aver risposto l’emogasanalisi, per la posizione di garanzia dallo stesso assunta nei confronti del paziente)»; in

termini, Cass. Pen., Sez. IV, 4 marzo 2009, n. 10819, Ferlito, in C.E.D. Cass., n. 243874: «In tema di colpa

professionale medica, l’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita»; Cass. Pen. Sez.

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pubblicistica (ricovero ospedaliero)256 e con effettiva presa in carico del paziente257.

In forza di ciò, «gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti ex lege

portatori di una posizione di garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, la cui salute essi devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che minacci l’integrità; tale obbligo di protezione perdura per l’intero tempo del turno di lavoro»258.

L’ampiezza tendenzialmente onnicomprensiva di tale posizione di garanzia è stata confermata a più riprese dalla Suprema Corte, la quale ha chiarito che «non si

esaurisce con l’intervento ma si estende anche alla fase postoperatoria, gravando sui sanitari, gravando sui sanitari un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato. Il dovere di controllare e di seguire il paziente non può concernere la sola persona del capo dell’équipe operatoria, incombendo anche sull’aiuto il dovere di assicurarsi che la persona sottoposta ad intervento venga, subito dopo la sua esecuzione, assistita e seguita in maniera adeguata, dando le

Recentemente, si è affermato il sorgere della posizione di garanzia anche da c.d. “contatto sociale qualificato”; cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 2 dicembre 2011, n. 13547, Ferrari e altri, in C.E.D. Cass., n. 253293: «In tema di colpa

professionale, una volta che un paziente si presenti presso una struttura medica chiedendo la erogazione di una prestazione professionale, il medico, in virtù del “contatto sociale”, assume una posizione di garanzia della tutela della sua salute ed anche se non può erogare la prestazione richiesta deve fare tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello ha, in riforma della sentenza di primo grado, condannato agli effetti civili, il medico in servizio presso una clinica odontostomatologica, il quale si era limitato ad invitare il paziente a recarsi in ospedale senza assicurarsi che i medici di destinazione fossero informati in modo preciso della gravità della situazione con il supporto di adeguata documentazione medica relativa alla diagnosi della patologia)». Orientamento affermato anche di recente, cfr. Cass. pen., Sez. IV, 29

gennaio 2013, n. 7967, Fichera, in <www.penalecontemporaneo.it>, 21 giugno 2013, con nota di C. SALE, La

posizione di garanzia del medico tra fonti sostanziali e formali. L’Autrice nota che «La giurisprudenza […]

specialmente in ambito medico, privilegia talvolta, quale fonte della posizione di garanzia, la mera posizione che il soggetto occupa in relazione ad una certa vicenda. Si ritiene sufficiente, per l’insorgere dell’obbligo di impedire l’evento, l’instaurarsi di una relazione diagnostico-terapeutica tra medico e paziente, indipendente da rapporti giuridici formali tra le parti. Si assiste, in tal modo, ad uno scivolamento verso una concezione sostanziale dell’obbligo di impedire l’evento, che tende a scolorire la giuridicità dello stesso».

256 Cass. Pen. Sez. IV, 11 marzo 2008, n. 10795, Pozzi, in F. GIUNTA-G. LUBINU-D. MICHELETTI-P.

PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 33.

257 Cass. Pen. Sez. IV, 12 aprile 2006, n. 12894, Vescio, in F. GIUNTA-G. LUBINU-D. MICHELETTI-P.

PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 34.

258 Cass. Pen. Sez. IV, 1 dicembre 2004, n. 9739, Dilonardo, in F.GIUNTA-G.LUBINU-D.MICHELETTI-P.

PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità (2004-2010),

op. cit., p. 34; e in Cass. Pen., 2006, p. 2154, con nota di A.ROIATI, L’accertamento del rapporto di causalità ed il

ruolo della colpa come fatto nella responsabilità professionale medica. Sostanzialmente in termini, Cass. Pen. Sez. IV, 21

ottobre 2005, n. 38823, Orestano: «Qualunque medico, per il solo fatto di aver assunto in cura un paziente, è gravato di

una posizione di garanzia nei confronti di quest’ultimo, in forza della quale egli è tenuto a formulare diagnosi e prescrivere cure, accertamenti ed interventi nel modo più corretto, nonché a “leggere”, valutare ed interpretare correttamente (richiedendo se necessario chiarimenti da altri medici specialisti) le risultanze degli esami da lui disposti onde accertare da quale malattia il paziente sia affetto».

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necessarie indicazioni terapeutiche a coloro cui viene affidata in modo da renderli edotti degli eventuali rischi»259.

Con specifico riferimento alla figura del medico in posizione apicale, la giurisprudenza ha sottolineato che «Il primario ospedaliero è titolare di una specifica

posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti alla quale non può sottrarsi adducendo che ai reparti sono assegnati altri medici o che il suo intervento è dovuto solo in casi di particolari difficoltà o di complicazioni; ciò risulta chiaramente dall’art. 7, comma 3, del D.P.R. 27 marzo 1969 n. 128 (ordinamento interno dei servizi ospedalieri) che gli attribuisce la “responsabilità” dei malati e dall’art. 63, comma 5, del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 (stato giuridico del personale delle U.S.L.) secondo il quale il medico appartenente alla posizione apicale ha il potere di impartire istruzioni e direttive in ordine alla diagnosi e alla cura e di verificarne l’attuazione»260: in

sostanza, la divisione del lavoro attraverso lo strumento della “delega”, quindi, non avrebbe nei confronti del c.d. «primario», effetto liberatorio, non intaccando la propria posizione di garanzia rispetto ai pazienti ivi ricoverati. I doveri cautelari che danno contenuto alla predetta posizione di garanzia si risolvono nell’obbligo di

259 Cass. Pen. Sez. IV, 18 febbraio 2010, n. 6690, Regali, in F. GIUNTA-G. LUBINU-D. MICHELETTI-P.

PICCIALLI-P. PIRAS-C. SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 50: «La S.C. ha ritenuto la

responsabilità del medico in posizione intermedia, membro dell’équipe chirurgica la quale, a seguito di complicanze emorragiche sorte durante un intervento di eliminazione di occlusione intestinale, ha proceduto all’asportazione della milza del paziente. La condotta tenuta dal sanitario imputato – di fatto disinteressatosi del decorso postoperatorio nonostante, essendo a conoscenza delle complicanze emorragiche precedentemente insorte, fosse in grado di prevedere ed evitare l’exitus attraverso un’attenta osservazione dell’evoluzione del quadro clinico ed un passaggio delle consegne dettagliato al medico di guardia subentrato nella presa in carico del paziente – non ha permesso di diagnosticare ed arrestare l’emorragia in atto nell’area interessata dal precedente intervento demolitivo. Il conseguente shock ipovolemico ha condotto a morte il paziente».

In termini, ma con riferimento all’intera équipe, cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 8 febbraio 2005, n. 12275, Zuccarello, in C.E.D. Cass., n. 231321: «La posizione di garanzia dell’équipe chirurgica nei confronti del paziente non si esaurisce con

l’intervento, ma riguarda anche la fase post-operatoria, gravando sui sanitari un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato; ne consegue che dalla violazione di tale obbligo, fondato anche sul contratto d’opera professionale, può discendere la responsabilità penale dei medici qualora l’evento dannoso sia causalmente connesso ad un comportamento omissivo ex art. 40 comma secondo cod. pen. (Fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità per il reato di cui all’art. 589 cod. pen. dei componenti l’équipe chirurgica, colpevoli di aver fatto rientrare il paziente nel reparto dopo l’intervento, anziché sottoporlo a terapia intensiva, sottovalutando elementi significativi, quali l’incremento progressivo della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, che rendevano prevedibile un’insufficienza respiratoria)».

Con riferimento al capo-équipe, cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 6 marzo 2012, n. 17222, Arena, in C.E.D. Cass., n. 252375: «Il capo dell’équipe medica è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, che non è limitata

all’ambito strettamente chirurgico, ma si estende al successivo decorso post-operatorio, poiché le esigenze di cura e di assistenza dell’infermo sono note a colui che ha eseguito l’intervento più che ad ogni altro sanitario».

260 Cass. Pen. Sez. IV, 1 febbraio 2000, n. 1126, Gulisano e altri, in C.E.D. Cass., n. 215660. Fattispecie

relativa a parto trigemellare con successive complicanze. Evidenti sintomi di sofferenza epatica, che avrebbero dovuto spingere i sanitari a compere ulteriori esami ed approfondimenti diagnostici, furono sottovalutati colpevolmente. I feti e la puerpera persero la vita. Del tragico epilogo fu ritenuto responsabile anche il primario del reparto di ginecologia, appunto disattendendo la sua argomentazione difensiva secondo cui il caso clinico era stato assegnato ad altri medici e che non sussistevano segnali di complicanze che, sole, avrebbero giustificato il suo intervento.

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impartire direttive e istruzioni e verificare che siano portate ad attuazione effettiva261.

Giova inoltre soffermarsi su una celebre pronuncia della S.C. che ha espressamente preso posizione su eventuali mutamenti nella sfera di responsabilità di questa figura professionale in conseguenza delle riforme che hanno interessato la sanità pubblica nel 1992 e 1999. Ha stabilito che «nell’ambito di una divisione ospedaliera,

in base alla tradizione dell’art. 15, D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, spetta al professionista, o dirigente sanitario, in posizione apicale – così sostituendosi la qualifica di “primario” senza per questo confondere il dirigente sanitario con il “direttore sanitario”, che ha poteri diversi e di maggior rilievo – la cura di tutti malati affidati alla compagine da lui diretta, oltre che l’organizzazione generale di tale struttura. Ne consegue che tre condotte vanno attribuite al dirigente con funzione apicale in una divisione ospedaliera, per evitare un suo possibile coinvolgimento in una attività omissiva del sanitario collaboratore: a) il potere-dovere di fornire preventivamente le informazioni di carattere programmatico per un’efficiente svolgimento dell’attività sanitaria, e quindi l’esercizio di direttive tecnico-organizzative; b) in conseguenza di ciò, il potere c.d. di delega per quei casi sicuramente risolvibili in base all’espletamento dei poteri organizzativi di carattere generale; c) un potere-dovere di verifica, vigilanza ed eventuale avocazione. Concretamente, poi, è evidente che un buon dirigente deve sapere indirizzare i programmi terapeutici di una divisione ospedaliera ed intervenire direttamente nelle situazioni di maggiore difficoltà. A ciò va aggiunto il potere di verifica, che si esplica con il controllo dell’informazione costante del dirigente presunse collaboratori»262. Il mutamento fra precedente e nuova disciplina, quindi, sarebbe

meramente terminologico in quanto al medico in posizione apicale continua ad

261 Cass. Pen. Sez. IV, 24 novembre 1994, n. 11696, Pizza ed altro, in C.E.D. Cass., n. 199758: «La normativa

che disciplina la ripartizione dei ruoli tra i medici operanti in una struttura sanitaria pubblica – D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 (stato giuridico del personale delle U.S.L.) e D.P.R. 27 marzo 1969 n. 128 (ordinamento interno dei servizi ospedalieri) – prevede che il medico appartenente alla posizione apicale assegni agli altri medici i pazienti ricoverati. Ne consegue che questo affidamento determina la responsabilità del medico affidatario per gli eventi a lui imputabili che colpiscano l’ammalato affidatogli. (Nella fattispecie si trattava di omicidio colposo ed uno dei ricorrenti assumeva che egli, nella qualità di assistente del reparto ospedaliero in cui era stata ricoverata la persona poi deceduta, non aveva competenza ad emettere diagnosi di alcun genere, spettando al primario la formulazione delle diagnosi e le scelte terapeutiche. La S.C., nell’enunciare il principio di cui in massima, ha precisato che, in conseguenza dell’affidamento del paziente alle cure dell’assistente, incombeva anche a quest’ultimo l’obbligo di assumere, sulla base delle conoscenze del caso acquisite, le iniziative necessarie per provocare in ambito decisionale i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche)».

262 Cass. Pen. Sez. IV, 29 settembre 2005, n. 47145, Sciortino, inF.GIUNTA-G.LUBINU-D.MICHELETTI-P.

PICCIALLI-P.PIRAS-C.SALE (a cura di), Il diritto penale della medicina, op. cit., p. 37; in Cass. pen., 2007, p. 143, con nota di G.IADECOLA, La responsabilità medica nell’attività in équipe alla luce della rinnovata disciplina della dirigenza

sanitaria ospedaliera; in Ind. pen., 2007, p. 728, con nota di A.ROIATI, Il medico in posizione apicale tra culpa in

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essere affidata la cura dei malati della divisione da lui diretta, oltre che l’organizzazione generale della struttura. Compito da attuarsi attraverso l’esercizio del potere di impartire direttive e istruzioni al personale dipendente, nonché attraverso la verifica che tali direttive e istruzioni siano in concreto attuate.

Con specifico riferimento al potere di verifica del medico in posizione apicale rispetto all’operato del medico in posizione funzionale inferiore, la stessa pronuncia ha chiarito che «Il potere di verifica che compete al dirigente sanitario sui propri

collaboratori si attua con due diversi comportamenti. Il primo è di carattere generale, dovendo il

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