integrato.
la supplenza dei suoi deficit (si veda l’esempio delle DFC).
L’esclusività della propensione verso il requisito di sicurezza (mo- dello a isola), o verso quello d’inclusività (modello integrato), conduce ad alcuni controsensi.
Massimizzare la sicurezza attraverso la creazione di un’isola con- finata e sicura, porta paradossalmente a ottenere l’effetto contrario. In- fatti, vivere sotto una campana di vetro, da un lato porta a non costruirsi nessuna difesa personale (non ci sono pericoli da affrontare) e dall’altro a essere visti da chi sta fuori come soggetti facilmente attaccabili (in quan- to dichiaratamente più fragili).
Si pensi, ad esempio, alla differenza di opportunità e di esperienze che acquisisce un bambino piccolo in relazione allo spazio in cui gli è con- sentito muoversi. Se, per evitare che si faccia male sbattendosi, cadendo o toccando cose pericolose, sarà messo dentro un box, le esperienze che potrà fare saranno sì, controllate e sicure, ma anche, d’altro canto, limitate. Al contrario, se gli sarà permesso muoversi liberamente dentro una stanza, da cui siano stati preventivamente rimossi gli oggetti più pe- ricolosi (quelli che potrebbero causare danni irreparabili), le esperienze saranno più numerose e differenziate, e imparerà probabilmente più in fretta a confrontarsi con l’ambiente di tutti i giorni senza farsi male. Si pensi, inoltre, al tentativo degli anni ottanta – fallito – di migliorare la sicurezza delle soste notturne nella metropolitana di New York. Tra le so- luzioni adottate ci fu l’introduzione delle off-hours waiting area, zone di attesa sicura, delimitate da strisce gialle e illuminate da alcune lampa- dine, che segnavano un’area costantemente filmata dalle telecamere di controllo [Goldman A. L. 1982]. Il problema di questa soluzione consiste- va nella consapevolezza, tanto dell’eventuale vittima quanto dell’ipotetico criminale, della staticità di quell’area, che non avrebbe fatto da scorta per tutta la durata del tragitto. Questa soluzione, che limitava la violenza senza eliminarla, produceva due effetti negativi: da un lato, avendogli in- dicato il debole, all’ipotetico criminale era facilitato, e forse incoraggiato, il suo gesto nocivo; dall’altro, chi aveva sostato sotto l’area di sicurezza provava poi l’angoscia – per tutta la durata del tragitto che lo avrebbe condotto a un’altra isola sicura (la propria casa ad esempio) – di subire una violenza e si sentiva, di fatto, ancora meno sicuro [Weston R. 1981]. In entrambi i casi è possibile notare che la sicurezza non è garantita dal- la non esposizione al pericolo (restando dentro un box), né da una sua limitazione spazio-temporale (sostando in un’area protetta), ma caso mai dall’eliminazione delle fonti di pericolo (attraverso sistemi di diverso tipo di cui si parlerà in seguito) e dal potenziamento della capacità di ciascu- no di difendersi.
Nel secondo caso, invece, che mira a garantire l’inclusione mi- gliorando l’accessibilità urbana a vari livelli, l’idea di fondo è quella di eli- minare tutti gli ostacoli che vi si oppongono: barriere architettoniche, sen- soriali, stigma, complessità delle informazioni, assenza di figure urbane di supporto etc. Se si guarda ai programmi delle DFC descritti, quello che
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Vita in città di A. L’abitare dell’anziano oltre una progettazione a isola: Sicurezza, Inclusività, Orientamento Giuliana Frau tesi di dottorato in architettura e pianificazione Università degli Studi di Sassari
Dal modello a isola al modello integrato
112 Vita in città di A. L’abitare dell’anziano oltre una progettazione a isola: Sicurezza, Inclusività, Orientamento
Giuliana Frau tesi di dottorato in architettura e pianificazione Università degli Studi di Sassari
risalta è l’eccessiva quantità di “buone norme” che riguardano qualsiasi aspetto della vita urbana, di natura sia fisica che sociale. Tale sovrabbon- danza d’indicazioni, in assenza di una scala che ne stabilisca le priorità, comporta, come già sottolineato in conclusione della descrizione delle DFC, evidenti problematiche di applicazione (insufficienza delle energie per affrontarle tutte) e suscita una sensazione di spaesamento (compe- titività delle priorità).
Nel caso di York, ad esempio, per ognuna delle quattro pietre angolari su cui si fonda il progetto York dementia without walls sono indicate sva- riate priorità, e per ciascuna di esse diverse linee d’azione, ma in nessun caso è evidenziata una priorità delle priorità, cioè non si dice che cosa sia veramente essenziale, che cosa importante, che cosa trascurabile etc. Manca la domanda guida che dovrebbe comprendere tutte le altre, l’essenza stessa di un buon progetto. Il rischio è, infatti, che nel tentativo di dare una risposta a ogni domanda posta, non si riesca a darne alcuna soddisfacente, con il risultato di un fallimento completo del progetto. Nei programmi delle DFC sono sollevate tutte le questioni che costituiscono un problema per l’inclusività, e di ciascuna sono messi in evidenza vari aspetti. Si guarda alla questione in maniera olistica, ma senza assume- re un atteggiamento a spizzico39, si cerca cioè di risolvere un problema
attraverso la soluzione di tutti i sottoproblemi che esso contiene. Tale at- teggiamento progettuale può dare luogo a risultati inefficaci e inadeguati, in quanto disperde le energie su una moltitudine di fronti senza stabilire una priorità su nessuno di essi.
Oltre all’assenza di una linea d’azione prioritaria, le indicazioni che i programmi per DFC descritti forniscono mancano di una concretez- za applicativa. Ad esempio, non ci sono indicazioni precise sul modo in cui si limiterebbe la possibilità di perdersi. Sembra che A. possa andare dappertutto, e che non sia necessario attuare alcun intervento specifi- camente pensato per questo problema. La questione dell’orientamento topografico, che è un requisito altrettanto fondamentale quanto quello della sicurezza e dell’inclusività, non è, infatti, considerata in maniera adeguata. Le indicazioni dei programmi citati sembrano poter stabilire che la libertà di accesso alla città sia espletabile attraverso l’eliminazione
39. L’atteggiamento a spizzico è quello che Popper, nel suo lavoro La logica della sco-
perta scientifica (1934), riconosce come necessario per il progresso della scienza. Lui sostiene che
qualsiasi problema si voglia indagare, esso presenterà al suo interno una vasta complessità di altre questioni, e non sarà possibile risolverlo se si cercherà di farlo in maniera olistica, cioè con la pre- tesa di rispondere a ogni questione sollevata. Al contrario, l’unico modo per dare una risposta a una data questione è, secondo Popper, l’adozione di un atteggiamento a spizzico, cioè l’individuazione di un problema più rilevante rispetto agli altri, l’assunzione di un punto di vista specifico. Si dovrebbe guardare alla questione scelta in maniera olistica, ma affrontarla con un atteggiamento “a spizzico”. Questo stesso atteggiamento andrebbe adottato anche nel caso dei progetti di architettura e urbani- stica, che sono uno strumento per fornire risposte a una serie di problemi dell’uomo. Risolvere ogni singola criticità di una data questione non è possibile, ma sceglierne una come prioritaria rispetto alle altre e darle una risposta adeguata, sì. È la scelta di questo problema prioritario, l’adozione del punto di vista giusto, che contraddistingue la sensibilità, la qualità e l’efficacia di un progetto.
di ogni elemento che si ritiene la ostacoli. Tale operazione, oltre a potersi rivelare inefficace può, però, produrre l’effetto opposto a quello deside- rato. Se A. avesse totale libertà di movimento ma corresse un alto rischio di perdersi, sarebbe davvero libero di muoversi? O sarebbe indotto da chi lo assiste a rimanere a casa? L’assenza totale di barriere (o di confini e limiti, in questo caso) corrisponde alla massima libertà, o al contrario, alla sua assenza?
Sembra che si possa dire che senza il requisito della sicurezza, la libertà non è possibile ma che, d’altro canto, il suo eccesso ne genera l’assenza. L’intera questione induce a riflettere sulla relazione tra vincoli e libertà, da cui dipende l’efficacia stessa dei due modelli descritti. L’adozione di un vincolo troppo forte, come quello della garanzia di mas- sima sicurezza, conduce a situazioni di confinamento che oltre ad anda- re a discapito della libertà dell’individuo, producono ulteriore insicurezza. L’eliminazione di ogni vincolo, al fine di garantire la massima libertà, porta all’assenza totale di sicurezza, senza la quale la libertà stessa non è pos- sibile; l’adozione di un numero eccessivo di vincoli e non contraddistinti da un grado di priorità, atti a favorire la libertà, porta al fallimento del progetto stesso e, ancora, all’assenza della libertà.
Inoltre, il fatto che la maggior parte degli esempi mostrati adotti il vincolo della sicurezza creando, in alcuni casi, un surrogato di urbanità, indica che esiste un problema di fondo molto complesso: le persone, in qualsiasi fase della vita e in qualunque condizione psico-fisica si trovino hanno sempre bisogno di relazioni sociali, di sentirsi parte di una comu- nità e di provare un senso di appartenenza al luogo, ma lo spazio che meglio si presta a espletare queste funzioni, quello della città di tutti i
giorni, non sempre gli permette di farlo.
Gli esempi riportati, e in particolare il caso di Sun City, sono anche la risposta a un malessere della città, a un suo cattivo funzionamento. La costruzione di un modello che ripropone la dimensione del quartiere te- stimonia, infatti, che per A. vivere in città è molto importante; ma l’azione di circoscrivere e delimitare con un confine molto rigido è la reazione a una condizione esterna ostile all’abitare di A., oltre che il frutto di una precisa visione della condizione di anzianità e di disabilità.
Da queste considerazioni prende avvio la terza e ultima parte della ricerca, nella quale si affronta il tema dell’abitare di A. in un’ottica d’integrazione sociale e accessibilità urbana.
A partire dall’assunzione che senza la possibilità di muoversi nello spazio urbano non c’è accesso alla città, e che tale possibilità, nel caso di A., è garantita in primo luogo dal funzionamento della mobilità pedonale, la terza parte della ricerca propone un modello di accessibilità urbana di A. fondato su tre categorie di progetto: la sicurezza, l’inclusività, l’orienta- mento topografico.