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Spazi proporzionati alle capacità percettive umanelità secondo le quali ci si può sentire a proprio agio in un ambiente La

prima, infatti, riguarda l’appropriatezza e l’adeguatezza dei segni alle ca- pacità percettive umane, vincolate dai limiti che la natura stessa impone agli organi dell’apparato percettivo (ad esempio, a una certa distanza x si vede/sente in un modo diverso che a una certa distanza y etc.); la secon- da, invece, riguarda un livello superiore in cui è richiesto l’uso dei codici convenzionali appresi all’interno di una data cultura e società, e quindi del bagaglio di conoscenze e di esperienze apprese durante la vita.

Lo spazio parla, anche se non lo sappiamo o non vogliamo ascol- tarlo, parla per precise convenzioni sociali, ma anche in base a profondi radicamenti biologici (che Hall va a ricercare nel compor- tamento animale), così che l’ignoranza del linguaggio spaziale può portare l’uomo (dai rapporti individuali alle grandi decisioni colletti- ve) alla propria distruzione.66

A., come è facile intuire da quanto è stato più volte sottolineato, perde gradualmente la capacità di attingere al proprio bagaglio di espe- rienze, e tale perdita riduce considerevolmente la capacità di sentirsi a proprio agio in un dato ambiente. Egli è in grado di percepire i segni dell’ambiente circostante ma non più di associarli ai propri codici e di interpretarli. Per fare un esempio, l’incapacità di comprendere un discor- so in lingua straniera, pur avendo intatta la funzione dell’udito, fa sentire, almeno in parte, estranei a una data situazione. Si è in grado di cogliere una parte della comunicazione, grazie alla percezione dell’intensità so- nora, del tono della voce, delle espressioni facciali etc. ma non di capire che cosa viene detto. Non si è in grado, cioè, di cogliere il significato completo del messaggio.

Il medesimo stato di estraneazione, o di spaesamento, investe A. In questo caso, però, il processo di non comprensione avviene per una ragione diversa e, in un certo senso, inversa rispetto all’esempio riporta- to: non è, infatti, la non conoscenza della lingua a impedirgli di compren- dere, ma la sua disconoscenza. Egli, cioè, non è in grado di interpretare correttamente i segni dell’ambiente circostante perché ha perso le co- noscenze acquisite in passato o non è più in grado di utilizzarle. Non perde la capacità di vedere, di sentire, di toccare etc., ma quella di dare significato a ciò che vede, sente, tocca. Sebbene tale associazione di significato sia basilare per il riconoscimento del sé e dell’ambiente circo- stante, altrettanto importante è il sentire in sé.

Come spiega Hall E.T. (1966), i sensi hanno dei limiti fisici precisi stabiliti dalla natura stessa degli organi preposti a ricevere gli stimoli pro- venienti dall’esterno. Essi costituiscono

la base fisiologica comune a tutti gli esseri umani, cui la cultura

66. Eco U., 1968, “Edward T. Hall e la prossemica”, introduzione in Hall E.T., La dimensio-

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Vita in città di A. L’abitare dell’anziano oltre una progettazione a isola: Sicurezza, Inclusività, Orientamento Giuliana Frau tesi di dottorato in architettura e pianificazione Università degli Studi di Sassari Vita in città di A. L’abitare dell’anziano oltre una progettazione a isola: Sicurezza, Inclusività, Orientamento

Giuliana Frau tesi di dottorato in architettura e pianificazione Università degli Studi di Sassari

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Sicurezza Inclusività Orientamento topografico

Vitaincittàdia.

velocità di movimento, dell’altezza dell’occhio (che varia a seconda che si cammini a piedi, che si vada in bicicletta o che ci si muova seduti dentro l’auto o su una sedia a rotelle) e dei limiti naturali degli organi di senso, costituisce una grande opportunità per progettare architetture differen- ziate e creare luoghi confortevoli per i vari abitanti della città.

Il problema di molti edifici moderni non è soltanto la loro dimen- sione – spesso eccessivamente grande se vista nell’ottica della pro- gettazione alla scala umana – ma anche l’assenza di un dialogo con il contesto in cui sorgono. Come si è visto nella sezione relativa alla sicu- rezza, spesso gli architetti si preoccupano esclusivamente del progetto dell’edificio e trascurano completamente le sue relazioni con il contesto e con il luogo. Tale attenzione è invece indispensabile non solo perché, come già sottolineato, permette di rendere gli spazi esterni più attrattivi e vitali, ma anche perché ciò che caratterizza un’opera di architettura è la sua aura. Nel famoso libro L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica (1936), W. Benjamin distingue l’opera di architettura da quelle di altre arti proprio perché, diversamente dalle sculture, dai dipinti, dal- le fotografie etc., essa non è riproducibile, non può esisterne una copia identica. L’opera di architettura è, infatti, caratterizzata da un hic et nunc, che è l’aura dell’architettura.

Questo significa che una stessa opera non può sorgere identica a un’altra perché il luogo stesso, con i suoi latitudine, longitudine, intensità e inclinazione luminosa, clima, materiali, edifici intorno etc., insieme al momento storico in cui viene costruita sono parte stessa dell’opera. Non solo ne condizionano il progetto, ma gli permettono anche di vivere (si pensi all’importanza della luce nel far risaltare le forme, ad esempio).

Molti edifici contemporanei invece, progettati senza tenere conto dei caratteri fondamentali del luogo e dei rapporti specifici con il conte- sto in cui sorgono, formano paesaggi frammentati e privi di qualità, che contribuiscono a svuotare i luoghi della loro identità.

Relativamente alla qualità dello spazio e alla necessità di lavorare su dimensioni più vicine alla scala umana, il principio dovrebbe essere quello di costruire città che siano attrattive e coesive al livello dell’occhio e che tengano conto della topografia e dell’orografia per la disposizione degli edifici più grandi, al fine di ridurne o enfatizzarne la visione.

Gehl (2010) suggerisce un interessante principio che può essere adottato anche per intervenire sull’esistente, in spazi che sono ecces- sivamente grandi e dispersivi. Tale principio è quello di inserire piccoli spazi all’interno di quelli più grandi.

In molte città vecchie, ad esempio, piazze o strade di dimensioni molto elevate venivano “ridotte” attraverso l’uso di elementi progettuali di piccola scala, come i colonnati o i porticati. All’interno di questi spazi i pedoni possono muoversi sentendosi in un ambiente intimo e delimitato da cui hanno però la possibilità di osservare lo spazio più esteso della piazza o della strada. Si pensi, ad esempio, a Piazza San Marco a Vene- zia, dove il porticato, oltre a rendere più piacevoli i movimenti dei pedoni, nella scala [Gehl 2010]. Senza che siano offerti luoghi di buona qualità e

a una corretta scala umana, le qualità cruciali della città mancheranno. Dalla città allo spazio urbano e a tutti i possibili angoli e fessure, le rela- zioni spaziali e la dimensione hanno un’influenza decisiva sulla propria esperienza di luogo e sul desiderio di attraversarlo e di fermarsi in un punto preciso.

Gehl (2010) riporta l’esempio di alcune città tradizionali italiane che si adattano al corpo dell’uomo e ai suoi sensi e in cui è possibile per- cepire un forte senso di armonia nello spazio urbano sia camminando sia osservandolo. Arrivando a Piazza del Campo a Siena o a Piazza Navona a Roma, ad esempio, si ha la sensazione di essere giunti a destinazione. Nel 1889, nella sua famosa rivisitazione delle qualità spaziali delle città italiane più vecchie, Camillo Sitte ha descritto l’importanza che il dimensionamento dello spazio urbano riveste nell’adattarsi alle persone e alle funzioni da loro utilizzate, come ad esempio la presenza di spazi la cui visione è controllata e definita dalle facciate stesse degli edifici. La dimensione degli spazi è un fattore cruciale per il benessere e per la funzione dello spazio come ambiente per le attività umane.

Uno studio sulle proporzioni spaziali rivela lo stesso modello in tutte le città analizzate [Gehl 2010]. Larghezze della strada di 3, 5, 8 o 10 metri possono facilmente contenere flussi di pedoni per un numero di 2400-7800 unità per ora. Le piazze hanno spesso una dimensione di 40 x 80 metri, che consente alle persone di prendere parte all’intera sce- na, di vedere la piazza stessa e le facce di chi vi si muove. Proporzioni simili sono spesso ricercate nei villaggi vacanze, nei parchi-gioco e nei centri commerciali. La dimensione di questi spazi è infatti studiata per rispondere alle esigenze di comfort e al desiderio dei visitatori di poter “dominare” l’intero ambiente.

La situazione è molto diversa in buona parte delle nuove aree ur- bane, che hanno solitamente spazi troppo estesi e privi di forma. I grandi edifici e le numerose macchine parcheggiate e in movimento sono la prova che alcuni tipi di spazio non sono adatti alle attività e alla sosta dei pedoni. Si tratta di spazi troppo grandi che appaiono quasi deserti e restano inutilizzati.

La progettazione dello spazio varia considerevolmente anche in funzione della velocità di chi lo attraversa. Ad esempio, spazi pensati per essere percorsi a una velocità di 3 km/h si presentano in modo molto differente da quelli pensati per velocità di 60 km/h. La percezione del- le cose, come è facile intuire, varia infatti anche in base alla velocità di movimento di chi osserva. Per questo motivo, suggerisce Gehl (2010), è importante che gli spazi pensati per essere attraversati a velocità diverse siano accuratamente distinti gli uni dagli altri o vengano articolati con attenzione, facendo in modo di utilizzare la piccola scala lungo le faccia- te degli edifici, ovvero nello spazio in cui si muovono i pedoni, e quella grande nelle aree dedicate al traffico motorizzato.

Se l’accessibilità urbana per le persone anziane si pone come una nuova sfida per la società, è necessario pensarla non solo in termini di sicurezza e inclusione sociale, ma anche di orientamento topografico. Quest’ultimo richiede l’utilizzo di numerose funzioni cognitive (memoria, linguaggio, coscienza, ragionamento, visione e percezione), che nella malattia di Alzheimer vengono compromesse in maniera progressiva, anche se con tempistiche diverse a seconda delle aree cerebrali interes- sate e del livello di avanzamento.

Nella maggior parte dei casi, la fase iniziale della malattia di Alzheimer ha il suo esordio nel lobo temporale dell’emisfero cerebrale sinistro e solo in una fase successiva si estende alle altre aree del cer- vello [Palma A. Pancheri P. 2004]. In questa prima fase si hanno un lie- ve deterioramento cognitivo – che interessa principalmente alcuni tipi di funzioni mnesiche e alterazioni delle abilità spaziali (aprassia costruttiva per disegni tridimensionali) – e la comparsa di disturbi comportamentali dovuti a stati di ansia e depressione, mentre sembra che restino pre- servate per un periodo più lungo sia le funzioni motorie che le capacità visuo-percettive [Reisberg B. et al., 1982; Palma A. Pancheri P. 2004]. Il mantenimento di queste capacità, insieme a opportuni stimoli e supporti ambientali, può costituire il presupposto per un’autonomia più duratura anche in presenza di tale patologia.

Questo capitolo della ricerca si compone di una parte teorica e di una progettuale.

La prima consiste in una revisione della letteratura esistente sul tema dell’orientamento topografico (Wayfinding) ed è accompagnata da alcuni dati sull’evoluzione della malattia di Alzheimer e sulle capacità re- sidue utili ai fini dell’orientamento. Inoltre presenta alcune riflessioni sulle modalità di movimento in luoghi poco/non conosciuti, utili a simulare la situazione in cui si trova il malato di Alzheimer quando non riconosce il proprio quartiere o i luoghi familiari.

La seconda invece illustra quattro diversi modelli spaziali (anello, gradiente, area, punti) finalizzati a stimolare un orientamento “percetti- vo spontaneo”. Questi modelli, nonostante abbiano diversi limiti, tra cui quello di essere “modelli teorici”, permetterebbero a un anziano malato di Alzheimer di fare le sue passeggiate quotidiane senza perdersi e di tornare a casa agevolmente. L’area urbana su cui si è ragionato è quella dell’Ensanche di Barcellona, il cui layout spaziale a griglia ortogonale regolare rende difficile l’orientamento e richiede un elevato uso delle fun- che sono in qualche modo guidati dall’andamento del portico stesso,

fornisce protezione dal sole, dall’acqua e dal vento, permettendo una fruizione dello spazio in qualsiasi momento dell’anno.

I piccoli spazi possono essere collocati dentro quelli grandi anche utilizzando viali o file di alberi. Un buon esempio è la Rambla di Barcello- na, dove lo spazio pedonale principale è separato da quello più grande della strada per mezzo di chioschi e di file di alberi ombreggianti. Altri strumenti per ridurre spazi troppo grandi sono rappresentati, ad esem- pio, dagli stand del mercato all’interno di una piazza o dagli ombrelloni e dalle tende dei bar e dei ristoranti lungo i marciapiedi. Tutti questi ele- menti fanno sembrare gli spazi della città più piccoli e più intimi. Anche gli arredi e i dissuasori possono aiutare a creare spazi più intimi, come avviene ad esempio in Piazza del Campo a Siena.

Anche gli spazi che sono stati progettati senza tenere conto delle dimensioni umane, e risultano quindi troppo grandi (si pensi, ad esem- pio, al quartiere de la Défense, a Parigi), possono essere ridotti mettendo in pratica il principio appena descritto. A volte, infatti, l’uso di piccoli ele- menti può fare una differenza decisiva.

Una progettazione che tenga conto della dimensione umana e che si avvicini a essa permette quindi, secondo Gehl (2010), di avere spazi più vitali e confortevoli che sono più attraenti e più frequentati dalle persone. Questi luoghi in cui la gente va, sono anche i luoghi in cui si formano piccole comunità transitorie, che ci connettono alla città e ci fanno sentire a casa.

9.

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