Al fine di comprendere l’effettiva portata e la possibile evoluzione delle disposizioni attualmente disciplinanti le diverse modalità nelle quali si esplica la partecipazione finanziaria dei lavoratori in Italia, occorre volgere lo sguardo alla loro origine, da rinvenirsi nel dibattito sulle “azioni industriali”, diffuse in Francia, cui non corrispondeva l’apporto di beni, ma di lavoro nell’impresa (191). Tali azioni erano prive di valore nominale, in quanto non rappresentavano una frazione del capitale sociale, attribuivano il diritto alla partecipazione agli utili e alla ripartizione del patrimonio sociale in sede di liquidazione, ma solitamente non consentivano l’esercizio dei diritti di intervento e voto (192). Erano dette anche “azioni non paganti”, perché “non sono il
corrispettivo di un pagamento (…) ma invece quello di una prestazione d’opera” (193), in contrapposizione alle azioni di capitale o, appunto, “paganti”.
Tali azioni, diffusesi anche tra le società anonime italiane, divennero oggetto di
191
Raymond Theodore Troplong, giurista francese, poi presidente della Corte di Cassazione francese nel 1852, commentando l’art. 1883 del codice civile del 1807 affermava: “Le azioni di capitale sono quelle il
cui ammontare è stato sborsato in denaro o in valori mobiliari o immobiliari; esse hanno dritto, sul fondo sociale che rappresentano, ad una parte proporzionata al loro valore, ed hanno un somigliante dritto su i prodotti. Le azioni industriali sono quelle che rappresentano il capitale industriale, ed il cui valore è stato somministrato dalla contribuzione dell’industria di coloro che lavorano”, cfr. R. T. TROPLONG,
Comentario del contratto di società in materia civile e commerciale, Capasso, Napoli, 1843, p. 75.
192
M. MIOLA, I conferimenti in natura, in Conferimenti in natura, versamenti dei soci, prestazioni
accessorie, in Trattato delle società per azioni, G. E.COLOMBO – G. B. PORTALE (diretto da), UTET, Torino, 2004, p. 9 ss.; G. PORTALE, I conferimenti in natura atipici nelle s.p.a. Profili critici, in Quad.
giur. comm., 1974, p. 28.
193
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discussione tra Ulisse Manara e Cesare Vivante agli inizi del Novecento (194), prima ancora che intervenissero la dottrina cattolica e quella corporativa a proporre una lettura in chiave solidaristica del rapporto tra capitale e lavoro (195).
Il dibattito non verteva tanto sull’ammissibilità di tale tipo di azioni, quanto sul fatto che esse potessero attribuire il solo diritto di partecipare agli utili ovvero essere imputate a capitale nominale (196).
In particolare, Vivante sosteneva che le azioni industriali, nella prassi circoscritte a prestazioni lavorative particolari di singole persone, conferissero solamente il diritto di partecipare agli utili dell’impresa, ma non potessero imputarsi al capitale nominale della società (197), mentre Manara riteneva che il “conferimento di industria” avesse valore di capitale e che le azioni industriali potessero essere utilizzate per tutti i lavoratori dell’impresa, qualsiasi fosse il tipo di opera da essi prestato (198).
La tesi sostenuta da Vivante, che, d’altra parte, si poneva in continuità con la dottrina francese, prevalse, ottenendo l’avallo della Corte di Cassazione (199).
L’attenzione per il fenomeno crebbe, poi, ulteriormente quando in Francia nel 1917 venne emanata una legge istitutiva della “société anonyme à participation ouvrière” (200), il cui statuto prevedeva l’emissione di “azioni di lavoro” oltre che di “azioni di
capitale”.
Le prime, postergate rispetto a quelle di capitale, inalienabili e da liberarsi mediante una porzione di utili, anziché essere distribuite individualmente ai dipendenti, dovevano essere assegnate ad una cooperativa partecipata da tutti loro (“società commerciale
cooperativa di mano d’opera”), la quale aveva il diritto di nominare i suoi
194
Per approfondimenti, vd. G. ACERBI, Osservazioni sulle stock options e sull’azionariato dei
dipendenti, in Riv. soc., 1998, p. 1193 ss.
195
Dottrina cattolica poi espressa nell’Enciclica di papa Pio XI Quadragesimo Anno del 1931 al paragrafo 67: “Tuttavia, nelle odierne condizioni sociali, stimiamo sia cosa più prudente che, quando è
possibile, il contratto del lavoro venga temperato alquanto col contratto di società, come già si è incominciato a fare in diverse maniere, con non poco vantaggio degli operai stessi e dei padroni. Così gli operai diventano cointeressati o nella proprietà o nell’amministrazione, e compartecipi in certa misura dei lucri percepiti”. In materia, vd. L. DE ANGELIS, Riflessioni sulla partecipazione dei lavoratori alla
gestione delle imprese, in Ricerche Giuridiche, 2012, p. 11 ss.
196
Cfr. G. ACERBI, op. cit., p. 1195.
197
Cfr. C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, I ed., vol. 1, Torino, 1983.
198
Cfr. U. MANARA, Delle società e delle associazioni commerciali – Parte generale, vol. I, Torino, 1902, p. 198 ss.; G. ACERBI, op. cit., passim.
199
Cfr. Cass. Civ. 27 aprile 1928, in Riv. dir. comm. 1928, II, p. 440 ss.
200
Si tratta della “Loi Briand”, dal nome del Presidente del Consiglio della Terza Repubblica, del 26 aprile 1917. In materia si veda V. COURET – A. HIRIGOYEN, L’actionnariat des salariés, Presses Universitaires de France, Parigi, 1990.
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rappresentanti in assemblea e nel consiglio di amministrazione (201).
La legge francese venne trasfusa nel 1918 in Italia in un progetto di legge dell’On. Ruini, al quale seguì un “controprogetto” di Vivante.
Quest’ultimo, infatti, criticava il modello introdotto dalla legge francese, poiché “ha il
grave difetto di creare una nuova forma di società per azioni senza che ve ne sia bisogno, perché si può riconoscere alle maestranze il diritto di ottenere una parte dei profitti sociali e le nuove azioni in cui viene impiegata senza creare un nuovo tipo di società” e perché, essendo una “legge facoltativa, autorizza le società anonime a dare agli operai una partecipazione agli utili in forma di azioni, ma non ve le obbliga” (202). Il controprogetto del Vivante, si caratterizzava, dunque, per la previsione obbligatoria per tutte le società per azioni della devoluzione gratuita al proprio personale di una parte dei profitti annuali (prelevato il 6% a favore degli azionisti ed il 5% a favore degli amministratori, nonché la quota spettante alla riserva legale), da investirsi in azioni della società stessa previo aumento del capitale sociale (203).
In tale disegno, tutto il personale della società per azioni avrebbe costituito una società cooperativa, alla quale sarebbero state intestate le azioni emesse con i profitti destinati al personale, inalienabili per tutta la durata della cooperativa, ma i cui dividendi sarebbero spettati ai dipendenti sulla base della loro retribuzione ed anzianità. Nel progetto si prevedeva, inoltre, la designazione da parte dei membri della cooperativa dei propri delegati per l’assemblea della società per azioni e che uno fra i sindaci di quest’ultima dovesse essere scelto dai delegati della cooperativa (204).
Nonostante gli sforzi profusi dalla dottrina, a questi disegni di legge non venne, però, data attuazione, anche a causa dello scontro tra capitale e lavoro accentuatosi nel primo dopoguerra, caratterizzato da frequenti occupazioni delle fabbriche e dalla nascita dei consigli operai per la gestione delle imprese.
Da quel momento, dunque, gli interventi in materia di partecipazione dei lavoratori non avvennero più attraverso disegni di legge ad essa dedicati, ma trovarono voce nelle leggi di riforma del codice del commercio. Vivante fu, invero, posto a capo di una
201
Cfr. G. ACERBI, op. cit., p. 1197.
202
Cfr. C. VIVANTE, La partecipazione dei lavoratori agli utili delle società per azioni, in Riv. dir.
comm., 1918, I, pp. 260 – 261.
203
Le azioni di lavoro dovevano essere inalienabili e nominative, ma per il resto parificate alle ordinarie.
204
Cfr. C. VIVANTE, La partecipazione dei lavoratori agli utili delle società per azioni, in Riv. dir.
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Commissione ministeriale istituita nel 1919 dal Ministro Mortara, la quale produsse nel 1922 un progetto di riforma del Codice del commercio particolarmente attento alla tutela delle minoranze azionarie, che introduceva la possibilità di emettere speciali categorie di azioni a favore dei lavoratori (205). Esso non venne, tuttavia, accolto con favore da Confindustria, che, anzi, presentò un proprio controprogetto (206). Venne allora nominata una nuova Commissione per la riforma del Codice del commercio (207), ma nemmeno i suoi sforzi ebbero successo (208).
L’allora ministro Grandi ritenne, dunque, di far confluire la materia commerciale in un apposito libro del codice civile intitolato “Del Lavoro”, ove risultano attualmente collocate le norme in materia di azionariato dei dipendenti (209).